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La sospensione del processo nei confronti dell'imputato assente

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CAPITOLO PRIMO

L’EVOLUZIONE STORICA DELL’ISTITUTO DELLA

CONTUMACIA FINO ALLE NOVITA’ INTRODOTTE DALLA L. 16 DICEMBRE 1999, N. 479

Sommario: 1.1 La contumacia nei codici del 1865 e del 1913 – 1.2 La contumacia come “giudizio speciale” nel codice di rito del 1930 e la riforma del 1955 – 1.3 La sentenza Cedu del 1985, ric. Colozza – 1.4 La contumacia nel codice del 1988 e la contemporanea parziale modifica della disciplina del processo contumaciale introdotta con la l. 22/1989. La questione dello “specifico mandato” del difensore per l‟impugnazione della sentenza contumaciale - 1.5 Il successivo intervento del legislatore tramite la l. 479/1999: la ricollocazione della disciplina della contumacia negli artt. 420ter e 420quater c.p.p. ed il rinvio contenuto nell‟art. 484 co. 2bis c.p.p. La problematica dello “specifico mandato” del difensore viene nuovamente affrontata ma non risolta

1.1 La contumacia nei codici del 1865 e del 1913

Alla lettera, contumace (dal latino contemnere, disprezzare) è chi disprezza, disdegna qualcosa. In ambito processuale, dove ha conosciuto le sue maggiori fortune, l‟espressione nasce, dunque, con l‟intento di designare l‟imputato che decide, sprezzatamente, di non

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partecipare al processo. L‟etimo tradisce il giudizio di disvalore originariamente riservato dall‟ordinamento giuridico ad una simile decisione, considerata alla stregua di un‟offesa all‟autorità costituita e ritenuta, come tale, non solo meritevole di sanzione penale ma, in taluni ordinamenti, equiparata ad un indizio, se non ad una prova, di colpevolezza1.

Conformemente all‟etimologia della parola, sia il codice di rito del 1865 che quello del 1913 mostravano un deciso sfavore nei confronti del contumace: non è meritevole di tutela chi disdegna la presenza al processo ove partecipa come accusato.

Vista come atto di superbia di fronte all‟amministrazione della giustizia, la contumacia, nel primo codice successivo all‟unità d‟Italia, prevedeva forti compressioni al diritto di difendersi per il soggetto rimasto contumace nel processo penale, giungendo a stabilire l‟esecutività delle condanne e l‟efficacia degli atti compiuti nel corso del procedimento contumaciale in sede di “purgazione” o di “opposizione”.

Queste ultime rappresentavano i primi, rudimentali, strumenti di rimedio nei confronti delle sentenze rese in contumacia, utilizzabili a seconda della sanzione irrogata: una pena criminale o una pena correzionale e di polizia. Nel primo caso, lo strumento era costituito dalla purgazione con cui si cercava di porre rimedio a tutte le “deformazioni” subite dalle prerogative difensive per via dell‟inosservanza del principio audiatur et altera pars, consentendo la

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Caprioli F., “Giusto processo” e rito degli irreperibili, in Legisl. pen., 2004, pagg. 586 e ss.

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celebrazione di un nuovo dibattimento. Tuttavia, si trattava di un‟arma “spuntata” poiché, nonostante l‟annullamento della sentenza contumaciale, determinato dalla presentazione del condannato, il provvedimento di rinvio e l‟atto d‟accusa conservavano efficacia secondo il disposto di cui all‟art. 543 co. 2 c.p.p. del 1865. Una disciplina piuttosto contraddittoria se si considera che lo strumento adibito al “recupero” del contraddittorio finiva per subire gli effetti determinanti degli atti compiuti in assenza di contraddittorio.

Nel caso in cui, invece, oggetto del processo penale fosse stato un reato punito con una pena correzionale o di polizia, il rimedio processuale esperibile era quello dell‟opposizione che prendeva le mosse dall‟errore commesso dal giudice istruttore in sede di ricostruzione o qualificazione giuridica del fatto. Ciò provocava l‟inappellabilità della sentenza che, invece, avrebbe potuto essere impugnata con gli strumenti ordinari se il procedimento fosse stato incardinato dinanzi al giudice competente. Il legislatore, pertanto, concedeva la possibilità di avvalersi di uno strumento straordinario, cioè l‟opposizione, nei confronti delle sentenze contumaciali rese dalla Corte d‟Assise.

Nel codice di rito del 1913 era ancora forte l‟idea della contumacia come scelta riprovevole dell‟accusato, al quale, anche solo per questo, s‟impediva di presentare prove a proprio discarico2

. Così disponeva

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In realtà, gli effetti pregiudizievoli della declaratoria di contumacia erano anche altri: infatti, nel caso in cui il processo fosse di competenza della Corte d‟Assise, veniva si celebrava senza l‟intervento dei giurati. La presenza di questi ultimi era, infatti, ritenuta la

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l‟art. 473 c.p.p. del 1913 conformemente ad una scelta implicita dell‟imputato che, non presenziando al procedimento, rinunciava ad un diritto processuale di cui l‟imputato ha piena disponibilità.

Anche nel codice del 1913 i rimedi idonei a provocare una rinnovazione completa del giudizio erano la “purgazione” e l‟”opposizione” ma, delle due, solo la prima operava d‟ufficio ed in ogni tempo, mentre la seconda dipendeva da una tempestiva domanda dell‟interessato. In sintesi, la purgazione era un‟opposizione necessaria e l‟opposizione una purgazione facoltativa.

Diversamente dallo strumento processuale previsto già nel codice del 1865, sotto lo stesso nome, la “purgazione” non dipendeva da un comportamento volontario del soggetto condannato, ma operava indipendentemente da ogni manifestazione di volontà del soggetto interessato. Di qui, la definizione di “restitutio giurisdizionale”. Sancita per i processi di competenza della Corte d‟Assise, la purgazione prevedeva la celebrazione di un altro processo, questa volta alla presenza dei giurati, dove, però, gli atti compiuti nel giudizio contumaciale, sebbene posti in essere nell‟ambito di un processo poi dichiarato nullo, conservavano efficacia, posto che la legge non ne stabiliva espressamente la nullità. Si aggiunga che, come nell‟omonimo strumento previsto dal codice di rito del 1865, anche nella purgazione del processo contumaciale del codice del 1913 era prevista la conservazione dell‟efficacia dei provvedimenti conclusivi

massima garanzia per l‟imputato, il quale si difende spiegando i mezzi di prova utili alla sua discolpa.

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dell‟istruzione (sentenza di rinvio ed atto d‟accusa3

). Un contraddittorio solo apparente, quindi, che contrastava con l‟ispirazione di fondo dell‟istituto, destinato a restituire tutte le prerogative difensive all‟imputato rimasto contumace nel primo giudizio.

L‟opposizione riguardava le sentenze di condanna inappellabili rese in processi contumaciali dinanzi al pretore o al tribunale, nonché dinanzi alla Corte d‟Assise non sottoponibili a purgazione. Si trattava, a ben vedere, di una vera e propria purgazione attivabile su manifestazione di volontà del condannato e soggetta ad un termine perentorio di ammissibilità. Caratteristica saliente di questo istituto era la possibilità, per l‟imputato, d‟introdurre nel nuovo giudizio, instaurato a seguito di opposizione, le prove non introdotte per via della contumacia. Si trattava, quindi, di un processo completamente nuovo che, però, non rescindeva completamente il collegamento con il precedente giudizio contumaciale: del fatto contestato si poteva dare una diversa qualificazione giuridica, anche più grave, ma non riformare in peius la condanna contumaciale (art. 499 co. 1 c.p.p. del 1913), conformemente al divieto della reformatio in peius quale principio fondativo delle impugnazioni.

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Lo si evinceva dall‟art. 475 c.p.p. del 1913, secondo cui, se gli atti non erano stati precedentemente notificati all‟imputato in persona, la relativa notificazione doveva essere rinnovata congiuntamente a quella del decreto di fissazione del dibattimento.

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1.2 La contumacia come “giudizio speciale” nel codice di rito del 1930 e la riforma del 1955

Il codice di procedura penale del 1930 disciplinava il giudizio contumaciale nell‟ambito dei “giudizi speciali” (capo IV, sez. I, artt. 497 – 501), unitamente al giudizio direttissimo ed a quello per decreto. Tuttavia, l‟istituto assumeva una fisionomia differente poiché si affrancava dall‟idea negativa di contumacia intesa come comportamento deplorevole di superbia nei confronti dell‟amministrazione della giustizia per assurgere a mera scelta processuale dell‟accusato.

Il comportamento del contumace non veniva più sanzionato direttamente, assicurando all‟imputato, rimasto ingiustificatamente assente, la rappresentanza mediante il difensore e disciplinando il processo contumaciale in maniera del tutto simile al giudizio con l‟imputato presente, compresa l‟eliminazione dei rimedi contro la sentenza contumaciale tra i quali, in particolare, quello della purgazione.

Con la riforma del 1955 ad opera della l. 18 Giugno, n. 517, costituente l‟approdo finale di una complessa elaborazione legislativa, cadeva anche l‟ultimo elemento pregiudizievole per l‟imputato contumace sopravvissuto al codice del 1930, in quanto si venne ad abolire anche la sanzione indiretta rappresentata dall‟obbligo di costituirsi in carcere per il contumace latitante, come condizione di

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ammissibilità dell‟impugnazione della sentenza a suo carico e venne reintrodotto l‟istituto della restituzione nel termine (art. 4 l. 517/1955). Il confronto con la logica inquisitoria che aveva ispirato il legislatore del 1930 poneva una serie di questioni interessanti: innanzi tutto, era lecito attendersi da un processo penale informato al principio di autorità che il contumace continuasse ad essere visto con discredito dall‟ordinamento giuridico. Così non era: dalla disciplina codicistica del 1930 emergeva la completa indifferenza dell‟ordinamento per la mancata comparizione in giudizio dell‟imputato, sia rispetto alla mancata comparizione dell‟imputato, sia rispetto alla mancanza di un‟effettiva cognizione dell‟esistenza del giudizio a proprio carico da parte dello stesso. Non vi era più, per l‟accusato, l‟obbligo di comparire per il dibattimento e, anche se lo stesso manifestasse implicitamente la volontà di presenziare, rappresentando, però, l‟esistenza di un comprovato legittimo impedimento, non era certo che allo stesso accusato venisse concesso un rinvio per rendere fattibile la sua presenza. Tale valutazione era nella discrezionalità del giudice, il quale poteva ben decidere di procedere nel processo senza la presenza, seppur giustificata, dell‟imputato.

Il sistema processuale rifletteva, quindi, un atteggiamento neutro e di sostanziale indifferenza compatibile con il sistema inquisitorio delineato dal codice Rocco ma non coerente con il modello tendenzialmente accusatorio cui il codice vigente si è voluto ispirare4.

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La legge delega per il nuovo codice di procedura penale collocava l‟istituto della restituzione nel termine nella fase dell‟esecuzione, mentre il progetto preliminare del 1978 conteneva una disciplina articolata.

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Una conferma viene dai sistemi processuali di quei Paesi nei quali l‟adozione del modello accusatorio ha comportato l‟impossibilità di un giudizio in assenza dell‟imputato (tema, questo, che verrà affrontato nel corso dell‟analisi storica).

La stessa Corte Costituzionale ha avuto modi di occuparsi, sotto il vigore del previgente codice di rito, del giudizio contumaciale, affermando principi che conservano attualità anche in riferimento al mutato quadro normativo5.

Poteva, così, apparire raggiunta la concezione della contumacia come libera scelta difensiva, rispettabile al pari delle altre tecniche processuali. In realtà era tutt‟altro. La disciplina della contumacia delineata dall‟allora vigente codice Rocco dimostrava non tanto l‟emergere di una tendenza politico-legislativa di tipo liberale rispetto al passato, quanto, piuttosto, una svalutazione del principio di autodifesa.

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La Consulta, in merito alle restrizioni del diritto di difesa, ha rilevato che: “La norma dell‟art. 497 co. 3 regola, sostanzialmente, un particolare giudizio che verte sulla volontarietà o meno della mancata presentazione al dibattimento dell‟imputato (…).” (Corte Cost., sent. n. 59 del 1963). “Il diritto di difesa può essere regolato dalla legge, sia nel modo sia nel tempo, per evitare sviamenti dallo scopo della protezione datagli e, soprattutto, per evitare che sia attuato in maniera ingiustificatamente dilatoria o del tutto sterile, così da pregiudicare l‟ordinaria amministrazione della giustizia, che è un‟esigenza d‟interesse generale, e lo stesso svolgimento della funzione giurisdizionale, che non è nella disponibilità privata.” (Corte Cost., sent. n. 111 del 1970). “L‟autodifesa, nell‟ambito del principio del contraddittorio, ha riguardo ad un complesso di attività mediante le quali l‟imputato, come protagonista del processo penale, ha facoltà di esercitarne lo sviluppo dialettico contribuendo all‟acquisizione delle prove ed al controllo della legalità del suo svolgimento”, così che, ai fini dell‟accertamento critico della verità nel processo, “in nessun caso, per effetto d‟interposizione rappresentativa, può impedirsi all‟imputato di partecipare, indicando quegli elementi e quelle circostanze di fatto che egli ritiene utili.” (Corte Cost., sent. n. 186 del 1973).

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Questa disciplina, con i relativi principi ispiratori, è durata fin quando una sentenza della Corte europea dei diritti dell‟uomo6 rilevava come il diritto dell‟imputato a presenziare al processo, sebbene non menzionato in termini espressi dall‟art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell‟uomo e delle libertà fondamentali (qui di seguito: Cedu), si ricava dall‟oggetto e dallo scopo dell‟intero articolo, atteso che vi sono compresi alcuni diritti che necessitano della presenza dell‟accusato per essere espletati7.

Sorgeva, così, per l‟ordinamento italiano, l‟esigenza di allinearsi al dictum della Corte di Strasburgo rivedendo, pertanto, l‟ispirazione di fondo della disciplina concernente la presenza dell‟imputato nel processo penale: non più come semplice spettatore interessato ma protagonista in prima linea della vicenda processuale che lo riguardava. Ciò sarebbe avvenuto, almeno parzialmente, solo alla vigilia dell‟entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale,

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C. eur. Dir. Uomo, 22 gennaio 1985, Colozza c. Italia. Nel Giugno del 1972, Colozza veniva indagato per vari reati senza poter, nel corso delle indagini, essere interrogato ed informato del procedimento penale nei suoi confronti perché‟ non più residente all‟ultimo indirizzo conosciutone‟ all‟indirizzo risultante dai registri dell‟anagrafe. Ragione per cui il Colozza veniva dichiarato prima “irreperibile” e, dopo la mancata esecuzione di tre ordini d‟arresto, “latitante”. Nel 1976 il processo si celebrava in contumacia, giungendo alla condanna senza che a nulla giovassero le impugnazioni in Corte d‟appello ed in Corte di Cassazione per far valere l‟illegittimità della declaratoria di latitanza e, di conseguenza, la nullità della condanna in contumacia. In particolar modo, l‟imputato rilevava come il suo indirizzo di residenza fosse conosciuto dall‟ufficio del Procuratore della Repubblica dall‟Ottobre del 1976 (cioè, quasi due mesi prima della condanna) e dalla polizia dal Marzo del 1977; infatti, al medesimo indirizzo erano state inviate delle comunicazioni giudiziali per altri procedimenti avviati nei suoi confronti.

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Si fa riferimento al diritto di “difendersi da se‟”, “interrogare o far interrogare i testimoni” e “farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata in udienza”.

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con la l. 23 gennaio 1989, n. 22, elaborata contestualmente al nuovo codice di procedura penale, di cui, almeno in parte, anticipava le soluzioni date al processo contumaciale.

1.3 La sentenza Cedu del 1985, ric. Colozza

L‟argomento del processo celebrato in absentia nei confronti di individui irreperibili è stato oggetto, nel corso del tempo, di numerose pronunce della Corte europea dei diritti dell‟uomo, mediante le quali ne è stata constatata l‟incompatibilità con i canoni del fair trail, enucleati nell‟art. 6 Cedu.

In particolare, non solo sotto la vigenza del codice Rocco, ma anche dopo il passaggio al codice di procedura penale del 1988, l‟Italia ha subito, da parte della Corte di Strasburgo, svariate condanne riguardanti, da un lato, le modalità con le quali vengono eseguite le notificazioni nei confronti degli irreperibili, dall‟altro lato, l‟istituto della contumacia, nonché i rimedi processuali ad esso collegati.

Già negli anni ottanta del secolo scorso sono stati fissati, dalla giurisprudenza di Strasburgo, alcuni importanti principi inerenti alle tematiche in oggetto, poi ribaditi ed ampliati nelle successive sentenze, che hanno obbligato il legislatore a riformare, seppure sempre in modo parziale, gli istituti in parola.

Punto di partenza obbligato nella disamina delle pronunce rilevanti nella materia della quale qui ci si occupa è costituito dalla sentenza

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Colozza8, con il quale il nostro Paese è stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell‟uomo per violazione dell‟art. 6 par. 1 Cedu, in relazione alla disciplina dettata dal codice del 1930 per la celebrazione del giudizio contumaciale nei riguardi dell‟imputato che dapprima era stato dichiarato irreperibile e, poi, latitante, a seguito dell‟emissione di tre mandati di cattura rimasti ineseguiti9.

Il caso in questione risulta particolarmente interessante non solo per le valutazioni giuridiche offerte dalla Corte di Strasburgo in ordine ad alcuni istituti codicistici ma, soprattutto, perché il nodo centrale della questione concerne, appunto, l‟irreperibilità dell‟imputato.

Nella specie, il signor Giacinto Colozza veniva segnalato alla procura della Capitale dai carabinieri per dei fatti, specialmente di truffa. Le forze dell‟ordine precisarono di non aver assunto le dichiarazioni del signor Colozza, per non aver trovato il suo ultimo domicilio conosciuto.

Il giudice istruttore competente emise una comunicazione giudiziaria tendente ad informare quest‟ultimo dell‟apertura di un procedimento contro di lui. Un ufficiale giudiziario cercò di notificarla al destinatario alla residenza ma senza esito.

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Corte eur., 12 febbraio 1985, Colozza v. Italia

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Va evidenziato che, ancora prima della pronuncia relativa al caso Colozza, il nostro Paese aveva subito una condanna da parte della Corte europea (Corte eur., 9 aprile 1984, Goddi v. Italia) per il mancato rispetto dell‟art. 6 par. 3 lett. b e c Cedu, in relazione ad un‟ipotesi nella quale l‟imputato era stato giudicato in contumacia senza che il suo difensore di fiducia fosse stato avvertito della data fissata per il processo e senza permettere al difensore nominato d‟ufficio di fruire del tempo necessario per avere conoscenza degli atti del processo, preparare la linea difensiva e prendere adeguati contatti con l‟assistito.

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Dopo infruttuose ricerche, il giudice istruttore dichiarò l‟imputato irreperibile, gli nominò un difensore d‟ufficio e continuò l‟istruzione, Ai sensi dell‟art. 170 c.p.p. del codice di rito del 1930, tutti gli atti da notificare furono da allora depositati presso la cancelleria del giudice istruttore, essendone avvisato ogni volta il difensore.

Il giudice istruttore emise tre mandati di cattura che non furono eseguiti perché il domicilio del ricorrente restava ignoto alle autorità. I carabinieri redassero altrettanti verbali di vane ricerche. Il signor Colozza venne, da allora, considerato latitante, cioè alla stregua di una persona che volontariamente si sottrae all‟esecuzione di un mandato di cattura.

Una prima udienza si svolse davanti al Tribunale di Roma. Sebbene avvisato del deposito della citazione a comparire, il difensore d‟ufficio dell‟imputato non si presentò, così che il tribunale dovette designarne un altro e rinviò il dibattimento. Il processo si concluse con la condanna del signor Colozza a sei anni di reclusione ed a 600.000£ di multa.

La sentenza fu notificata a quest‟ultimo e divenne definitiva non essendo stato interposto appello dal difensore d‟ufficio.

Successivamente, il pubblico ministero emise un ordine di carcerazione ed il ricorrente fu arrestato presso la propria abitazione a Roma.

Il giorno dopo, il signor Colozza sollevò un incidente d‟esecuzione contro il suddetto ordine e propose, nel medesimo tempo, un appello apparentemente tardivo.

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Il Tribunale di Roma rigettò l‟incidente d‟esecuzione e ordinò di trasmettere il fascicolo alla Corte d‟appello della stessa città perché decidesse sull‟appello tardivo.

Il signor Colozza sosteneva di essere stato erroneamente dichiarato latitante e che le notifiche della sua citazione a giudizio e dell‟estratto della sentenza resa in contumacia erano, dunque, nulle. Sosteneva che la polizia conosceva il suo nuovo indirizzo, dato che era stato dalla stessa convocato presso il commissariato di quartiere per essere interrogato; in analoga situazione si trovava la Procura di Roma, che, circa due mesi prima dell‟emanazione della sentenza contumaciale, gli aveva inviato una comunicazione giudiziaria relativa ad altre imputazioni.

La Corte d‟appello esaminò l‟impugnazione ed ascoltò il signor Colozza tanto sul merito della questione quanto sulla sua qualifica di latitante. Lo stesso procuratore generale concluse per l‟annullamento della sentenza perché, secondo lui, l‟imputato non avrebbe dovuto essere considerato latitante. La Corte giudicò l‟appello del signor Colozza inammissibile per decorso dei termini (venti giorni, ai sensi dell‟allora art. 201 c.p.p.).

Il ricorrente presentò ricorso, ma la Corte di Cassazione lo rigettò, in quanto l‟interessato era stato giustamente dichiarato prima irreperibile e poi latitante.

Il signor Giacinto Colozza, di conseguenza, investe della questione la Commissione europea dei diritti dell‟uomo che, a sua volta, deferisce

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la trattazione e la decisione della causa alla Corte europea dei diritti dell‟uomo.

Il signor Colozza allegava varie violazioni dell‟art. 6 della Convenzione; in particolare, si lamentava di non aver avuto in nessun modo conoscenza del procedimento aperto contro di lui e di non essersi, quindi, potuto concretamente ed efficacemente difendere. La Commissione giunge alla conclusione unanime che vi è stata violazione dell‟art. 6 par. 1 Cedu.

Quest‟ultima, pur non avendo negato in assoluto il diritto di ciascuno Stato membro di celebrare un dibattimento in assenza dell‟imputato, qualora sia necessario per soddisfare esigenze di giustizia (evitando, ad esempio, il rischio di una paralisi nell‟esercizio dell‟azione penale, l‟inquinamento delle prove o la prescrizione del reato), aveva posto l‟accento sulla necessità che l‟imputato, una volta al corrente del giudizio intentatogli, deve poter ottenere che un giudice si pronunci di nuovo, dopo averlo ascoltato, sulla fondatezza dell‟accusa mossagli (<<a fresh determination of the merits of the charge>>10) e ciò, soprattutto, qualora la sua mancata partecipazione a quello anteriormente conclusosi sia dipesa da cause indipendenti dalla sua volontà e, specialmente, dall‟ignoranza di un procedimento a suo carico11. Sotto questo profilo, precisava la Corte, gli Stati godono di un‟ampia libertà nella scelta dei mezzi da apprestare per consentire al

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Corte eur., 12 febbraio 1985, Colozza v. Italia

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Nel caso Colozza, infatti, l‟imputato, anche avendo proposto sia l‟incidente d‟esecuzione sia l‟appello tardivo, non aveva, comunque, mai usufruito, in nessuno stadio del procedimento, della possibilità di essere ascoltato da un tribunale dotato di piena giurisdizione.

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loro sistema di conformarsi all‟art. 6 par. 1 Cedu; tuttavia, questi strumenti devono essere effettivi e non deve incombere sull‟accusato l‟onere di provare che non intendeva sottrarsi alla giustizia ne‟ che la sua assenza era dovuta ad un caso di forza maggiore.

Sul fronte dei rimedi dell‟imputato giudicato in contumacia, il codice del 1930, a differenza di quello del 1913 dove, come abbiamo già visto, erano contemplati gli istituti della purgazione della contumacia e dell‟opposizione alla sentenza contumaciale, appariva abbastanza lacunoso, come riconosciuto dalla medesima Corte. Infatti, la legge processuale prevedeva specifiche formalità al fine di portare a conoscenza del contumace sia l‟esistenza della sentenza, sia del suo contenuto, così da rendere possibile l‟esercizio del diritto d‟impugnazione. In particolare, a tenore dell‟art. 500 c.p.p. del 1930, la sentenza doveva essere notificata per estratto al condannato in contumacia e, dalla data della notificazione, purché in forma regolare e valida, iniziava a decorrere il termine per proporre la dichiarazione d‟impugnazione, da presentare nei tre giorni dalla notifica. Proposta la dichiarazione d‟impugnazione, al soggetto veniva, quindi, notificato l‟avviso di deposito della sentenza e, dalla notificazione di tale avviso, cominciava a decorrere il termine di venti giorni per la presentazione dei motivi a sostegno dell‟appello o del ricorso per cassazione.

Nell‟ipotesi in cui non fosse stato notificato l‟estratto contumaciale ovvero la notificazione dovesse considerarsi inesistente o nulla, la giurisprudenza, mossa dalla necessità, in carenza di una normativa ad

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pregiudizio nella quale si fosse trovato il contumace, aveva elaborato, quale rimedio, l‟istituto dell‟”appello tardivo”.

Pur ammessa l‟operatività dell‟impugnazione tardiva, nella prassi, però, erano sorte numerose problematiche in ordine all‟individuazione delle questioni sulle quali avrebbe potuto legittimarsi l‟intervento giudiziale successivamente alla scadenza (apparente) del termine per impugnare, rispetto all‟area devoluta alla cognizione del giudice dell‟esecuzione. Nelle ipotesi d‟invalidità dell‟estratto contumaciale

ex art. 500 c.p.p. del 1930, infatti, doveva ritenersi ammessa la

possibilità di proporre contemporaneamente e autonomamente sia l‟impugnazione apparentemente tardiva sia l‟incidente d‟esecuzione; quanto, invece, ai rapporti tra i due rimedi, si riconosceva che il provvedimento del giudice dell‟esecuzione avrebbe avuto efficacia solo provvisoria, non vincolante rispetto alla decisione sull‟impugnazione.

La Corte europea, nella ricostruzione della normativa italiana dell‟epoca, aveva posto l‟accento sul fatto che il sistema delle notificazioni per l‟imputato irreperibile o latitante si basava, quindi, su di una presunzione di conoscenza dell‟atto depositato in cancelleria, presunzione desunta semplicemente dall‟impossibilità di reperire l‟imputato; in particolare, la Corte di Strasburgo aveva richiamato a tal fine la giurisprudenza della Corte di Cassazione12 che, fondandosi sull‟art. 268 c.p.p. del 1930, riteneva presunta la volontarietà della sottrazione alla giustizia una volta inutilmente condotte le adeguate

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In particolare, la Corte ha citato la sent. Corte Cass., Sez. VI, 20 ottobre 1971 e la sent. Corte Cass., Sez. III, 12 marzo 1973.

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ricerche. Agli occhi della Corte, questa presunzione non forniva una base sufficiente: non risultava, dall‟esame dei fatti, che il ricorrente avesse avuto sentore dell‟apertura di procedimenti contro di lui; egli era, invece, considerato esserne al corrente, da parte dell‟autorità giurisdizionale italiana, a seguito delle notifiche depositate presso la cancelleria del giudice istruttore e, successivamente, del tribunale. Inoltre, le ricerche condotte per trovare il ricorrente furono considerate dalla Corte europea dei diritti dell‟uomo inadeguate.

Il Governo italiano si era difeso individuando uno strumento da utilizzare nei casi di sentenze rese in contumacia nell‟appello tardivo, mezzo d‟impugnazione che, però, secondo la Corte di Strasburgo, non risponde ai criteri enunciati nella Cedu.

La Corte europea concludeva evidenziando la mancanza, nella disciplina processuale italiana, di strumenti adeguati a garantire al contumace la possibilità di un nuovo giudizio in presenza, una volta che avesse avuto conoscenza del procedimento iniziato a suo carico, condannando, pertanto, il Governo italiano alla corresponsione di un indennizzo sulla scorta dell‟allora vigente disposto di cui all‟art. 50 della Convenzione13.

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A tenore del quale: <<se la decisione della Corte dichiara che una decisione presa o una misura ordinata da un‟autorità giudiziaria o da ogni altra autorità di una Parte contraente si trova interamente o parzialmente in contrasto con obblighi che derivano dalla presente convenzione e, se il diritto interno di detta Parte non permette che in modo incompleto di eliminare le conseguenze di tale decisione o di tale misura, la decisione della Corte accorda, quand‟è il caso, un‟equa soddisfazione alla parte lesa.>>.

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1.4 La contumacia nel codice del 1988 e la contemporanea parziale modifica della disciplina del processo contumaciale introdotta con la l. 22/1989. La questione dello “specifico mandato” del difensore per l’impugnazione della sentenza contumaciale.

Per quasi trent‟anni, l‟istituto italiano del processo penale contumaciale ha formato oggetto di censure da parte della Corte di Strasburgo. Già nel 1985, come abbiamo già visto nel corso della trattazione, ancora vigente il codice Rocco, i giudici europei, pronunciandosi a proposito del caso Colozza14, fissavano precisi principi e criteri di riforma ai quali l‟ordinamento italiano si sarebbe dovuto attenere. Il legislatore italiano, pur con qualche ritardo, dimostrò una certa sensibilità verso tali indicazioni: dapprima, con la l. 23 gennaio 1989 n. 22, recante <<Nuove norme sulla contumacia>>, anticipatrici dell‟allora imminente riforma relativa all‟intera procedura penale, modificò, nel modo a quell‟epoca ritenuto più appropriato, le disposizioni del codice di procedura penale del 1930 in subiecta

materia; poco dopo (a partire dal 24 ottobre 1989), furono le norme

del codice di rito penale, varato un anno prima (il 22 settembre 1988), ad avervi efficacia. In particolare, questo nuovo sistema cercava di adeguarsi alla richiesta, proveniente dalla Corte europea dei diritti dell‟uomo, di prevedere che, laddove un processo in contumacia si fosse concluso senza che l‟imputato ne avesse mai avuto conoscenza,

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quest‟ultimo avrebbe dovuto poter ottenere che una giurisdizione statuisse nuovamente, dopo averlo sentito, sull‟accusa a suo carico. Ecco che le nuove previsioni legislative stabilivano che la persona giudicata in contumacia avesse diritto ad essere restituita nel termine per impugnare la sentenza pronunciata reo absente, prevedendo, però, alcune limitazioni, tra le quali il fatto che l‟imputato contumace in primo grado avesse diritto alla rinnovazione in appello dell‟istruzione dibattimentale, sempre che ne avesse fatto richiesta e provato di non avere avuto conoscenza della citazione a giudizio senza sua colpa o, nel caso di vocatio in iudicium con le forme previste per l‟irreperibile, purché non si fosse volontariamente sottratto alla conoscenza degli atti procedimentali (art. 603 co.4 c.p.p.).

Peraltro, nessuna di queste due clausole realizzava pienamente il modello delineato dai giudici internazionali: la riammissione ad impugnare e la rinnovazione istruttoria in appello a favore del “già contumace ignaro” erano entrambe subordinate ad autentiche

probationes diabolicae15.

Inoltre, il nostro sistema risultava ancora del tutto inadeguato rispetto all‟esigenza di assicurare al prevenuto la conoscibilita‟ effettiva della citazione: l‟art. 159 c.p.p., infatti, prevedeva (e tuttora prevede) la possibilita‟ di eseguire le notificazioni dirette all‟irreperibile anche mediante dazione ad un difensore nominato d‟ufficio; ne' erano sufficienti i controlli, destinati ad assicurare tale effettivita‟, previsti

15

Tali disposizioni, cioè, oneravano l‟imputato di evidenziare sia un proprio anteriore stato psicologico negativo, l‟ignoranza, sia la sua non colpevolezza in ordine alla sua medesima situazione.

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come obbligatori da parte del giudice nel corso degli atti destinati ad introdurre l‟udienza preliminare oppure il dibattimento.

La previsione riguardante la necessità dello “specifico mandato” al difensore ai fini dell‟impugnazione, da parte di quest‟ultimo, della sentenza contumaciale, era stata frutto di un profondo (ma non radicale) ripensamento della problematica relativa allo svolgimento del giudizio in assenza dell‟imputato, avvenuta proprio attorno alla metà degli anni ottanta. Mentre nella prima legge di delega per l‟emanazione del nuovo codice di rito, approvata dal Parlamento nel 1974, e nel successivo Progetto preliminare elaborato nel 1978 non era dato cogliere alcuna sensibile innovazione in materia, il lungo iter parlamentare che avrebbe portato all‟emanazione della seconda legge di delega nel 1987 ed alla successiva elaborazione del nuovo codice di procedura penale aveva, invece, mostrato una rinnovata attenzione per la tutela del diritto di difesa dell‟imputato non presente in giudizio. La tendenza innovativa, comune al progetto preliminare di codice di procedura penale ed alla proposta di legge governativa, che sarebbe poi divenuta la l. 22/1989, era, prima di tutto, quella di fondare l‟intero meccanismo del giudizio contumaciale sulla base della valutazione dell‟effettiva (e non più presunta) conoscenza del procedimento e dei suoi atti da parte dell‟imputato. A tale garanzia iniziale si affiancava, poi, la netta riqualificazione del beneficio della restituzione in termini16, ora ammesso anche ai fini dell‟impugnazione della sentenza contumaciale e dell‟opposizione al decreto penale di

16

Il riferimento era all‟istituto disciplinato, nel vecchio codice di rito, dall‟art. 183 bis su cui venne ad incidere l‟art. 1 l. 22/1989 e, in quello nuovo, dall‟art. 175.

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condanna (nonché della presentazione dei motivi) da parte dell‟imputato che mostrasse di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento. Tuttavia, tale nuovo potere veniva condizionato a tre aspetti di particolare importanza: l‟impugnazione non doveva già essere stata proposta dal difensore (anche d‟ufficio) dell‟imputato contumace, che quest‟ultimo doveva provare di non aver avuto conoscenza del provvedimento e che tale ignoranza non era dipesa da sua colpa o che, nel particolare caso di notifica mediante consegna al difensore per irreperibilità dell‟imputato stesso, che questi non si era volontariamente sottratto alla conoscenza degli atti procedimentali (art. 175 co.2 c.p.p.).

La scelta di considerare l‟impugnazione della sentenza contumaciale da parte del difensore non autonoma rispetto a quella dell‟imputato ma preclusiva di quest‟ultima, imponeva, nell‟ottica della ratio fatta propria dalla riforma, di limitare l‟iniziativa del difensore del contumace, subordinando il suo potere allo “specifico mandato”, rilasciato dall‟assistito in sede di nomina o successivamente, con le forme per quella previste.

Tale assetto, espresso nel progetto preliminare del codice di procedura penale dalla combinazione degli artt. 175 e 564 e, nella l. 22/1989, da quella degli artt. 1 e 2 modificativi, rispettivamente, degli artt. 183 bis e 192 c.p.p. del 1930, era stato fortemente criticato dagli organismi istituzionali cui l‟articolato era stato sottoposto. Prima tra tutte era venuta un‟autorevole censura della Corte di Cassazione: nel commento formulato in relazione alla disciplina dell‟impugnazione

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22

dell‟imputato (contenuta, appunto, nell‟art. 564 c.p.p.) aveva ritenuto auspicabile la soppressione della previsione che imponeva il rilascio dello specifico mandato, con la contestuale modifica dell‟art. 175 c.p.p., nella parte in cui sanciva la preclusione della richiesta di restituzione da parte dell‟imputato ad opera dell‟impugnazione del difensore. La pioggia di critiche17 cadute sull‟indirizzo scelto dal legislatore, ordinario e delegato, non riuscì ad evitare quella che, a molti operatori del settore, appariva una contraddizione in termini, una “controriforma” nella riforma: da un lato, si prospettava una nuova (ed indispensabile, come aveva dimostrato la Corte europea dei diritti dell‟uomo18) garanzia di tutela dell‟imputato, attraverso l‟innovativa disciplina della restituzione in termini; dall‟altro, una contraddizione interna alle regole sull‟impugnazione dell‟imputato comportava che, in caso di sentenza contumaciale, il potere del difensore, normalmente ritenuto autonomo e parallelo a quello dell‟imputato, fosse qualificato come alternativo e preclusivo della richiesta, da parte di quest‟ultimo, del beneficio della restituzione stessa.

Il nuovo bilanciamento tra le esigenze dell‟autodifesa dell‟imputato e quelle della difesa tecnica (definito, dalla Relazione al nuovo codice di procedura penale, come <<autentica scelta politica>>), proseguì, così, il suo cammino verso l‟approvazione definitiva: l‟entrata in vigore della l. 22/1989 precedette di qualche mese quella del nuovo

17

Espressero parere contrario alla formulazione dell‟art. 564 c.p.p., tra gli altri, anche i magistrati della prima sezione penale della Corte d‟appello di Bari, il Consiglio giudiziario della Corte d‟appello di Roma, la Facoltà di giurisprudenza dell‟Università di Palermo, quella di Parma ed in Consiglio nazionale forense.

18

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23

codice di rito, ormai promulgato e pubblicato. All‟interno di quest‟ultimo, però, la materia della contumacia veniva ad inserirsi all‟interno della generale clausola di adeguamento alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall‟Italia, imposto, com‟è noto, dal “preambolo” dell‟art. 2 della legge 16 febbraio 1987 n. 81. La rispondenza della disciplina ricavabile dall‟intrecciarsi degli artt. 175 co. 2 e 571 co. 3 c.p.p. ai parametri dettati dalle norme internazionali già ricordate, però, non era mai risultata pacifica: per alcuni19 tale scelta rappresentava l‟accoglimento della sesta “regola minima” raccomandata dal Comitato dei ministri del Consiglio d‟Europa (Risoluzione n. 11 del 21 maggio 197520), ponendosi, peraltro, nel rispetto dell‟art. 6 par. 3 lett. c Cedu (con il quale si ribadisce il diritto dell‟imputato ad autodifendersi o ad usufruire della difesa tecnica di fiducia); per altri21, invece, il nuovo regime d‟impugnazione delle sentenze contumaciali, nel quale la remissione nei termini era subordinata alla mancanza di colpa del condannato, si poneva in contraddizione proprio con l‟art. 2 l. 81/1987 poiché, secondo tale impostazione, l‟art. 14 co. 3 lett. d Patto internazionale sui diritti civili e politici (qui di seguito: Patto internaz. dir. civ. pol.) e l‟art. 6 par. 1 Cedu (nell‟interpretazione che, di quest‟ultimo, ha offerto la Corte europea) sancirebbero il diritto, desumibile anche dall‟art. 24 co. 2

19

Vedi De Roberto G., Commento all‟art. 571 c.p.p., in Commento Lattanzi – Lupo, edizione V, Milano, 1997, pag. 131.

20

<<…i termini del ricorso non devono decorrere che a partire dal momento in cui il condannato ha avuto conoscenza effettiva della sentenza notificata, salvo che sia accertato che egli si sia sottratto volontariamente alla giustizia.>>.

21

Vedi Ubertis G., Come rendere giusto il processo senza imputato, in Legisl. pen., 2004, pag. 606 e ss.

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Cost., per l‟imputato ad essere presente al dibattimento di merito che si svolge nei suoi confronti.

L‟incidente di costituzionalità sulla nuova disciplina non tardò ad essere sollevato: ciò avvenne proprio ad opera della stessa Corte di Cassazione22, la cui diffidenza in materia è già stata ricordata. Chiamata a pronunciarsi su di una questione riguardante l‟art. 192 co. 3 c.p.p. del 1930 così come modificato dalla l. 22/1989 (tanto sotto i profili degli artt. 3 e 24 Cost., quanto sotto quello dell‟art. 6 Cedu), nella parte in cui non consentiva al difensore del contumace irreperibile l‟impugnazione della sentenza in assenza di specifico mandato, la Corte Costituzionale23 ritenne, però, che l‟aver privilegiato, ai fini dell‟esercizio del diritto d‟impugnazione, l‟autodifesa rispetto alla difesa tecnica fosse in linea con la sesta “regola minima” raccomandata dal Comitato dei ministri del Consiglio d‟Europa con la Risoluzione 11 del 21 maggio 1975, escludendosi anche la contrarietà dell‟art. 192 co. 3 c.p.p. del 1930 alla norma dell‟art. 6 Cedu (pur non assurgendo, questa, al rango di norma costituzionale, secondo una confermata giurisprudenza).

Per tanto, il “nuovo” art. 571 co. 3 c.p.p., già nei primi mesi d‟applicazione, venne a ricevere un‟indiretta delibazione costituzionale, attraverso l‟avallo dell‟analoga disciplina introdotta nel vecchio rito dalla l. 22/1989: la Corte ne diede, infatti, una lettura che

22

Corte Cass. ordinanza del 25 settembre 1989, Pres. Saja, ric. Madonna, in G. U., n. 22, prima serie speciale, 1990, dove, tra l‟altro, si affermava come, <<nei casi estremi d‟irreperibilità>>, escludere l‟autonomo potere d‟impugnazione del difensore equivalesse ad estromettere, di fatto, dal processo la difesa tecnica.

23

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25

ne esaltava il valore di garanzia per il principio dell‟autodifesa dell‟imputato, sgombrando il campo da possibili critiche riguardo un‟insufficiente attenzione del legislatore per i parametri dettati in materia dalla fonti di carattere internazionale.

A fronte di una così chiara ed univoca giurisprudenza costituzionale, se ne era, tuttavia, formata una da parte della Corte di Cassazione, copiosa ma contraddittoria24, alimentata tanto dalle perplessità che nel mondo scientifico avevano, da sempre, accompagnato il nuovo equilibrio tra restituzione in termini ed impugnazione, quanto dalla conflittualità interna tra le diverse sezioni della Corte di Cassazione stessa, sfociata anche in una ripetuta disattenzione nei confronti del dato normativo letterale.

Da parte della dottrina25 si è sottolineato, infatti, come alcuni collegi giudicanti ribadivano il valore di garanzia che la previsione dello “specifico mandato” integrava, altri, di fatto ignorando il dato normativo26, escludevano che tale mandato potesse essere conferito prima della pronuncia della sentenza contumaciale27, così trasformando la previsione legislativa in un doppio ostacolo

24

Di quest‟avviso vedi Quattrocolo S., Commento all‟art. 46 l. 479/1999, in Legisl. pen., 2000, pag. 552 e ss.

25

Vedi ancora Quattrocolo S., Commento all‟art. 46 l. 479/1999, in Legisl. pen., 2000, pag. 552 e ss.

26

<<il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato rilasciato al momento della nomina o anche successivamente, nelle forme per questa previste.>>.

27

Cass., Sez. I, 26 febbraio 1993: <<Ed, allora, l‟ipotesi dello specifico mandato rilasciato con la nomina può trovare applicazione unicamente a condizione che, comunque, la sentenza contumaciale, di cui si conferisca lo specifico mandato ad impugnare, sia già stata pronunciata.>>.

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all‟esercizio dei rimedi previsti contro quest‟ultima; tale affermazione derivava dall‟erronea supposizione che lo “specifico mandato” dovesse assumere la veste della procura speciale, in relazione alla quale si richiede la previa esistenza del provvedimento oggetto della procura. L‟autorevole suggello delle Sezioni Unite era intervenuto a ripristinare il dato letterale, ribadendo la sufficienza del rispetto delle forme indicate dall‟art. 96 co. 2 c.p.p.28

e precisando come potesse stimarsi rispettata la previsione dello specifico mandato quando dalla nomina resa all‟autorità procedente, oppure consegnata dal difensore o trasmessa per raccomandata, emergesse in modo chiaro ed univoco la volontà d‟impugnare29. A conferma dell‟incertezza e del dubbio che da sempre circondavano la previsione dello “specifico mandato”, la ricordata pronuncia delle Sezioni Unite non riuscì a ridurre ad unità le posizioni diametralmente opposte delle diverse sezioni dell‟organo, tanto che, a soli due mesi di distanza30, il requisito dello “specifico mandato” si vide nuovamente attribuita natura di procura speciale.

28

Corte Cass., Sez. Un., 12 ottobre 1993, Ric. Durante, in Foro it., vol. 117, parte seconda, giurisprudenza penale, 1994, pagg. 1/2 - 7/8.

29

Corte Cass. sent. n. 69 del 21 febbraio – 3 marzo 1994, in G. U., prima serie speciale

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27

1.5 Il successivo intervento del legislatore tramite la l. 479/1999: la ricollocazione della disciplina della contumacia negli artt. 420ter e 420quater c.p.p. ed il rinvio contenuto nell’art. 484 co. 2bis c.p.p. La problematica dello “specifico mandato” del difensore viene nuovamente affrontata ma non risolta

Abbiamo visto come, a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell‟uomo del 12 febbraio 1985, ricorrente Colozza, la disciplina interna veniva modificata parzialmente con la l. 23 gennaio 1989 n. 22, elaborata contemporaneamente al nuovo codice di rito, di cui, sia pure solo in modo parziale, anticipava le soluzioni date al processo contumaciale ed al rito degli irreperibili nel contesto dei doveri ai quali lo Stato italiano era vincolato in virtu‟ della Cedu. In attuazione della delega, la nuova disciplina della contumacia era stata originariamente dettata dagli artt. 486 e 487 c.p.p., relativi alla fase dibattimentale, e, a seguito delle modifiche introdotte dagli artt. 19 e 39 della l. 16 dicembre 1999 n. 479, è stata ricollocata negli artt. 420ter e 420quater c.p.p., relativi all‟udienza preliminare, applicabili anche alla fase dibattimentale, in quanto compatibili, per il rinvio contenuto nell‟art. 484 co. 2bis c.p.p.

Esiste, pertanto, una piena corrispondenza tra la disciplina della contumacia contenuta nell‟abrogato codice di rito del 1930, dopo le modificazioni apportate dalla l. 22/1989, e quella del codice vigente. Entrambe stabiliscono che il dibattimento deve essere rinviato non solo in mancanza di una valida notificazione dell‟atto di convocazione

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ed in presenza della prova di un legittimo impedimento, ma anche quando appare probabile che (fuori dai casi della notificazione a norma degli artt. 159, 160 co. 4 e 169 c.p.p.) l‟imputato non abbia avuto conoscenza di tale atto o che la sua assenza sia dovuta ad un‟assoluta impossibilità di comparire (artt. 420bis e 420ter c.p.p.). Sono stati, inoltre, ampliati i casi di rinnovazione in appello dell‟istruzione dibattimentale quando l‟imputato prova di non essere potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore o per non aver avuto conoscenza del decreto di citazione a giudizio, sempre che, in tal caso, il fatto non sia dovuto a sua colpa o, quando l‟atto di citazione per il giudizio di primo grado è stato notificato mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli artt. 159 e 161 co. 4 c.p.p., non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento (come previsto dal testo allora vigente dell‟art. 603 co. 2 c.p.p.).

Infine, se dimostra di non aver avuto conoscenza del processo, il contumace può chiedere di rendere dichiarazioni anche quando è in corso il giudizio di cassazione o quello di revisione, oppure nella fase dell‟esecuzione (art. 489 c.p.p.).

La restituzione nel termine per proporre impugnazione31 e la rinnovazione dell‟istruzione dibattimentale in appello sono entrambe

31

Come enunciato dal testo allora vigente dell‟art. 175 co. 2 c.p.p., è prevista la restituzione nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale quando l‟imputato prova <<di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento, sempre che l‟impugnazione non sia stata proposta dal difensore ed il fatto non sia dovuto a sua colpa, ovvero, quando la sentenza contumaciale è stata notificata mediante

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volte a garantire al contumace “incolpevole” quel “nuovo processo” che, di solito, negli atti e nelle sedi internazionali viene richiesto per riconoscere, sotto vari profili, la validità di una condanna in contumacia.

La l. 22/1989 e l‟originaria previsione codicistica stabilivano, poi, che, contro una sentenza contumaciale, il difensore dell‟imputato poteva proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato (art. 571 co. 3 c.p.p. allora in vigore32), ciò al fine di evitare che l‟eventuale esercizio del potere d‟impugnazione da parte del difensore del contumace (anche quello nominato d‟ufficio), all‟insaputa di quest‟ultimo, precludesse poi la possibilita‟ d‟impugnazione per l‟imputato, venuto a conoscenza della condanna solo in seguito all‟arresto per l‟esecuzione della pena. La previsione di uno specifico mandato al difensore, quindi, sottintendeva l‟esigenza di un‟effettiva riconducibilità dell‟impugnazione alla volontà dell‟imputato. Peraltro, l‟art. 46 della legge 16 dicembre 1999 n. 479 ha abrogato questa disposizione, sul presupposto che essa potesse costituire un‟indebita limitazione per il difensore33.

Sono, così, aumentati i casi nei quali la persona condannata, senza averne avuto conoscenza, si è trovata nell‟impossibilità di ottenere,

consegna al difensore nei casi previsti dagli artt. 159, 161 co. 4 e 169, l‟imputato non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento>>.

32

Come affermato dalla Corte di Cassazione, quale espressione dell‟orientamento interpretativo dell‟art. 571 c.p.p. di parte della giurisprudenza di legittimità, portata ad equiparare la nozione di “specifico mandato” a quella di procura speciale, il cui rilascio presuppone l‟avvenuta pronuncia del provvedimento alla cui impugnazione è funzionale il conferimento della procura speciale.

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30

mediante l‟impugnazione, un nuovo processo e, parallelamente, l‟avvocatura è stata gravata dell‟onere di proporre impugnazione (talora infruttuosa in assenza dell‟autodifesa dell‟imputato e del suo apporto conoscitivo) avverso tutte le sentenze contumaciali, anche al fine di scongiurare possibili forme di responsabilità disciplinare con esiti, peraltro, paradossali in ordine alla possibilita‟ del contumace tardivamente comparso di ottenere la restituzione nel termine ed indubbi effetti inflattivi del complessivo carico penale.

La constatazione che la presenza dell‟imputato al processo è predisposta essenzialmente in funzione della sua autodifesa, importa che il primo momento dal quale occorre verificare quale sia la sua posizione rispetto al processo di merito (se, cioè, presente, assente o contumace) è quello dell‟udienza preliminare, fase che, nell‟assetto codicistico ridisegnato ad opera della l. 479/1999, si caratterizza per un potenziamento complessivo delle garanzie di giurisdizionalita‟ e nella quale l‟obiettivo dell‟imputato non è più soltanto quello di evitare il rinvio a giudizio, ma, propriamente, quello di ottenere una declaratoria che escluda il fondamento dell‟imputazione in una forma non dissimile dalle regole tipiche del giudizio34. E‟ stato, infatti, osservato che se il giudice dell‟udienza preliminare dovrà, nel caso

34

Di questo avviso, tra gli altri, Filippi L., Commento all‟art. 19 l. 479/99, in Dir. pen. proc., 2000, pag. 189 e ss. L‟autore afferma che la modifica dell‟udienza preliminare, che non comporta una reale garanzia per l‟imputato, potrebbe essere collegata con l‟aumento del tasso di “istruttorieta‟” della stessa, nella quale il giudice, nel caso d‟investigazioni incomplete, dovrà indicarne ulteriori e potrà disporre, anche d‟ufficio, l‟assunzione delle prove delle quali gli pare evidente la decisività ai fini del non luogo a procedere, con conseguente maggiore importanza attribuita alla presenza dell‟imputato e conseguente necessità di aumentare i controlli sulle ragioni della sua mancata presenza.

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d‟investigazioni non complete, indicarne d‟ulteriori e potrà disporre, anche d‟ufficio, l‟assunzione di prove delle quali gli sarà apparsa evidente la decisività ai fini del non luogo a procedere, è ovvio che maggiore importanza assumerà l‟intervento dell‟accusato in questa fase, con conseguente necessità di aumentare i controlli e le procedure volti a garantire tale circostanza.

La stessa Corte Costituzionale35 ha ritenuto che, a seguito delle trasformazioni subite (quali la modifica del parametro per il rinvio a giudizio e la possibilita‟ di pronunciare sentenza anche all‟esito del riconoscimento della sussistenza delle attenuanti generiche o nelle ipotesi di difetto d‟imputabilità), l‟udienza preliminare non sia più un mero momento processuale, in quanto l‟alternativa decisoria, che si offre al giudice quale epilogo di questa fase del processo, riguarda una valutazione del merito dell‟accusa non più distinguibile, quanto ad intensità e completezza del panorama delibativo, da quella propria di altri momenti processuali36.

Queste considerazioni inducono a ritenere poco persuasiva la tesi di quanti37, di contro, sostengono che l‟innesto, in questa fase, della disciplina in tema di assenza e di contumacia, il cui ambito di operatività è stato tradizionalmente limitato dal legislatore alla fase del giudizio, costituisca il residuo di quanto contenuto nel testo di un progetto di legge elaborato dalla Commissione Giustizia della Camera

35

Vedi sent. Corte Cost. 4-6 luglio 2001 n. 224 e sent. Corte Cost. 8-12 luglio 2002 n. 335.

36

Vedi Filippi L., Commento all‟art. 19 l. 479/99, in Dir. pen. proc., 2000, pag. 189 e ss.

37

Vedi tra gli altri, Scalfati A., La riforma dell‟udienza preliminare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, in Cass. pen., 2000, pag. 2812 e ss.

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dei deputati38, il cui obbiettivo era sostituire il titolo dedicato all‟udienza preliminare con uno diverso contenente una disciplina autonoma in tema di „udienza predibattimentale”39

. Tuttavia, la riforma realizzata nel 1999, pur nella nobiltà d‟intenti perseguiti, non è andata immune da critiche, la principale delle quali muove dalla constatazione che l‟intervento di “ortopedia” legislativa è stato realizzato percorrendo strade già note. Di fatto, ci si è limitati ad anticipare a questa fase, pur con alcuni adattamenti imposti dal peculiare momento processuale (attraverso l‟inserimento degli artt. 420ter e 420quater c.p.p.), la disciplina sulla contumacia e sull‟assenza già dettata per il dibattimento agli artt. 485, 486, 487 e 488 c.p.p. In conseguenza di quest‟innesto, la normativa di riferimento, che si applica soltanto alla figura dell‟imputato, “topograficamente retrocessa” all‟udienza preliminare (fase nella quale la tutela della partecipazione assume, in ogni caso, minore pregnanza rispetto a quella di elaborazione probatoria destinata a tradursi nell‟alternativa tra proscioglimento e condanna), si pone quale modello rispetto alle regole dibattimentali che, ad essa rimandano, in quanto compatibili (art. 484 co. 2bis c.p.p.).

38

Progetto di legge n. 1182 presentato dall‟ on. Saraceni il 23 maggio 1996 alla Camera dei deputati.

39

Nell‟ambito di tale udienza, da svolgersi in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore dell‟imputato, un rafforzato potere d‟integrazione probatoria da parte del giudice si combinava con l‟attuazione della disciplina riguardante le formalità introduttive del giudizio dibattimentale: in sostanza, da una parte, l‟udienza si presentava come un istituto volto ad anticipare un segmento della fase successiva per accelerare e semplificare l‟eventuale svolgimento del giudizio e, dall‟altra, ad offrire al giudice un novero di strumenti da utilizzare nell‟ottica di deflazionare il dibattimento.

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L‟innovazione ha, così, finito per assumere la veste di garanzia solo apparente, poiché la disciplina normativa è rimasta pressoché immutata rispetto al passato, soprattutto con riguardo ai profili legati all‟effettiva conoscenza della citazione a giudizio ed ai relativi meccanismi di controllo giurisdizionale. L‟unica novità di rilievo che interessa l‟imputato riguarda la possibilita‟ di disporre il differimento dell‟udienza, ex art. 420ter co. 3 c.p.p., nell‟ambito dell‟udienza preliminare, anche qualora la sua mancata presenza, per assoluta impossibilità di comparire, si verifichi nelle udienze successive alla prima, diversamente da quanto era dato desumere dal combinato disposto dei previgenti artt. 420 co. 4 e 486 co. 1 e 2 c.p.p. Nonostante, quindi, le buone intenzioni, la riforma realizzata nel 1999, quanto ai presupposti che legittimano la celebrazione del giudizio in contumacia o in assenza dell‟imputato, si è mantenuta lungo le linee tracciate dal legislatore del 1988. Ciò comporta che i presupposti per i quali il giudice dell‟udienza preliminare, ai sensi dell‟art. 420quater co. 1 c.p.p. (disciplina estendibile anche alla fase del giudizio, sia esso ordinario o “speciale”), può dichiarare la contumacia dell‟imputato erano ancora individuabili nei seguenti elementi: un atto giuridico negativo (la mancata comparizione dell‟imputato), un fatto giuridico positivo (la validità della citazione) ed un altro atto giuridico negativo (la mancata prova) che si ricollega ad un fatto anch‟esso negativo (la mancanza dell‟impedimento a comparire). Ad essi bisogna, poi, aggiungere la mancanza di una manifestazione di volontà dell‟imputato di non volersi sottoporre al processo. Qualora, infatti,

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l‟imputato, ancorché impedito, manifesti, in modo esplicito, sotto forma di “richiesta”, o implicito, sotto forma di “consenso”, la volontà di non partecipare al processo, si ricadrebbe nell‟ambito di applicazione dell‟istituto dell‟assenza, che soggiace ad un regime giuridico parzialmente differente e meno favorevole della contumacia sotto il profilo delle garanzie afferenti, per lo più, ai meccanismi di recupero delle facoltà connesse all‟esplicazione della difesa personale. L‟art. 46 della l. 479/1999 è il secondo degli articoli contenuti nel capo dedicato alle impugnazioni ed all‟opposizione al decreto di condanna ed incide su di una materia estremamente delicata, sulla quale, come abbiamo in precedenza visto, il dibattito scientifico aveva preceduto, accompagnato e seguito l‟emanazione del codice di procedura penale del 1988.

La modifica dell‟art. 571 co. 3 c.p.p., nel quale vengono soppresse le parole <<Tuttavia>> sino alla fine, rubricato <<impugnazione dell‟imputato>>, infatti, chiama in causa la complessa e controversa disciplina della contumacia, avendo escluso la necessità dello “specifico mandato” al difensore, richiesto ai fini dell‟impugnazione, da parte di quest‟ultimo, della sentenza contumaciale.

Neanche l‟ulteriore intervento sulla questione dello “specifico mandato” del difensore ad appellare la sentenza contumaciale effettuato mediante l‟art. 46 della l. 479/1999, riesce a sciogliere completamente le perplessità che ancora sorgono attorno alle garanzie attualmente previste contro la sentenza emessa al termine di un giudizio reo absente, posto che la novella, pur incidendo sulla

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disciplina del giudizio senza imputato, non da adito ad aperture nei confronti delle scelte già sperimentate da altri ordinamenti, come, ad esempio, l‟esclusione del passaggio in giudicato della sentenza contumaciale.

Dalle altre disposizioni della presente legge non sembra potersi ricavare che le novità introdotte presentino collegamenti concettuali con la “decurtazione” subita dall‟art. 571 co. 3 c.p.p.: in particolare, l‟art. 19 della l. 479/1999 si limita ad anticipare la pronuncia dell‟ordinanza di contumacia al momento dell‟udienza preliminare (ovviamente, nei procedimenti in cui essa verrà celebrata), tenendo fermi i presupposti e gli adempimenti già contemplati dall‟art. 487 c.p.p.40 Soprattutto, però, non è dato riscontrare, nel corpo della legge, alcun mutamento della disciplina della restituzione in termini, in relazione alla quale la garanzia dello “specifico mandato” al difensore era stata elaborata. Come abbiamo già avuto modo di analizzare, se fin dalla sua prima formulazione l‟art. 571 c.p.p. era stato censurato proprio nel suo combinarsi con l‟art. 175 c.p.p., deve ritenersi incongrua la mancata soppressione di quella parte del secondo comma del suddetto articolo, nella quale si preclude all‟imputato la presentazione della richiesta di restituzione nei termini per l‟impugnazione della sentenza contumaciale, qualora il difensore abbia già depositato autonomo atto d‟impugnazione.

La ratio dell‟amputazione operata sul testo dell‟art. 571 co. 3 c.p.p. va ricercata nell‟opportunità di rendere i rimedi offerti all‟imputato

40

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sempre più aderenti ai parametri stilati in sede internazionale, ma si deve ritenere che, proprio in tale ottica, l‟intervento in primo luogo auspicabile fosse, piuttosto, la rimozione del discusso limite alla

restitutio41.

Neanche gli interventi di novellazione contestualmente apportati alle disposizioni del codice di procedura penale dedicate al difensore sono tali da incidere nel rapporto tra questi e l‟assistito contumace, dovendosi, quindi, ritenere che, di fronte al permanere del rischio di esclusione dal beneficio previsto dall‟art. 175 c.p.p., viene meno il “potere di controllo” del primo sull‟iniziativa del secondo.

Di fronte ai dubbi che già toccavano i rapporti tra la precedente disciplina e gli artt. 6 Cedu e 14 Patto internazionale sui diritti civili e politici (per ricordare solo le più autorevoli tra le fonti di livello internazionale che si occupano della materia), sarà ora forse ipotizzabile, proprio nel momento in cui alcuni dei principi della stessa Cedu fanno il loro prepotente ingresso nel nostro ordinamento, un ulteriore contrasto tra l‟art. 571 c.p.p., come rimaneggiato, nel suo combinato disposto con l‟art. 175 c.p.p. e le citate fonti internazionali. Comunque, anche volendo escludersi profili di contrarietà con la

41

L‟art. 175 co. 2 c.p.p., così come vigente nel 1999, verrà sostituito ad opera dell‟art. 1 co. 1 lett. a del d.l. 21 febbraio 2005 n. 17, convertito, con modificazioni, nella l. 22 aprile 2005 n. 60. Inoltre, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 317 del 4 dicembre 2009, dichiarerà l‟illegittimità costituzionale di questo comma nella parte in cui non consente la restituzione dell‟imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel corso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato.

(37)

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nuova formulazione dell‟art. 11 Cost., non appare remota la possibilita‟ che la nuova disciplina sia sottoposta ad incidenti di legittimità nei confronti dello stesso art. 24 Cost., la cui formulazione viene sempre più spesso riempita di significato attraverso il riferimento proprio alla portata dell‟art. 6 Cedu, nel suo complesso.

(38)

38

CAPITOLO SECONDO

L’ISTITUTO DELLA CONTUMACIA ED IL PROCESSO REO ABSENTE TRA NORMATIVA INTERNA ED

INTERNAZIONALE

Sommario: 2.1 Il ruolo della conoscenza reale degli atti del processo – 2.2 Il rapporto intercorrente tra l‟istituto giuridico della contumacia e quello dell‟assenza – 2.3 C‟è compatibilità tra l‟istituto della contumacia ed i principi dell‟equo processo sanciti nella Costituzione? 2.4 L‟indirizzo interpretativo in tema di costituzionalità delle norme nazionali relative al processo in absentia intrapreso dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 399 del 1998 e n. 117 del 2007 – 2.5 L‟art. 6 Cedu, l‟art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e la Risoluzione n. 11 del 1975 del Comitato dei Ministri del Consiglio d‟Europa quali norme internazionali di fondamentale importanza in tema di partecipazione dell‟imputato al processo che lo riguarda

2.1 Il ruolo della conoscenza reale degli atti del processo

E‟ di fondamentale importanza fare una breve riflessione sul tema, strettamente connesso con la contumacia, della conoscenza degli atti del procedimento penale. L‟imputato deve essere posto in grado di poter scegliere tra il consentire che il processo penale si svolga in sua

(39)

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assenza ed il partecipare all‟udienza esercitando un diritto riconducibile all‟art. 6 Cedu.

Perché l‟imputato possa scegliere liberamente, però, è necessario che sia preventivamente informato, che sia messo, cioè, a conoscenza del processo penale a suo carico.

Il non comparire in giudizio può anche essere ritenuta una garanzia ulteriore, rientrante nella previsione di cui all‟art. 24 co. 2 Cost.1

, ma ciò non può esimere dall‟osservare come, per essere considerata tale, dovrebbe assumere i crismi di una scelta consapevole2. Diversamente, sarebbe un mero comportamento processuale inconsapevole che l‟imputato, presumibilmente, non avrebbe tenuto se fosse stato adeguatamente informato del procedimento attivato a suo carico. Un soggetto “informato”, infatti, è un soggetto libero di poter assumere il comportamento che ritiene più confacente ai propri interessi all‟interno del processo, con la consapevolezza di non essere “in balia” dell‟autorità procedente. Senza considerare che una partecipazione attiva, cioè pienamente consapevole, in ordine ai propri diritti e doveri si rifletterebbe in senso positivo anche sull‟economia del processo, il cui apparato informativo va inteso come strumento idoneo ad attuare quel sistema di garanzie di cui il processo è la naturale sedes materiae.

1

L‟art. 24 co. 2 Cost. recita: <<La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.>>.

2

Di questo avviso Lattanzi G, Costretti dalla Corte di Strasburgo, in Cass. pen., 2005, pag. 1125 e ss.

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