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Una proposta metodologica di quantificazione del danno basata sul

CAPITOLO 3: Individuazione del danno risarcibile: illecita prosecuzione

3.6. Una proposta metodologica di quantificazione del danno basata sul

Nonostante le numerose e convinte adesioni a favore dell’impostazione che fa derivare la stima del danno dal confronto tra patrimoni netti, essa può risultare criticabile e non condivisibile sotto il profilo economico-aziendale. Ciò in quanto i patrimoni netti che risultano dagli schemi di bilancio, anche se sottoposti a rettifiche, non sono in grado di esprimere la reale perdita di valore che l’azienda ha subito nel periodo intercorrente tra la condotta illecita degli amministratori e dei sindaci e la loro cessazione dalla carica o la sentenza di fallimento.

Anziché sulla base di un differenziale “contabile”, la stima del danno dovrebbe essere effettuata ricercando un differenziale di “valore” tra il momento in cui sorge la responsabilità degli organi sociali, per aver violato i propri obblighi al verificarsi della perdita del capitale, e quello corrispondente alla cessazione dalla carica dell’amministratore o del sindaco oppure, qualora tale ultimo evento non si sia verificato, alla sentenza di fallimento126.

La quantificazione di un differenziale di valore comporta, sotto il profilo operativo, la necessità di prendere in considerazione, in entrambi i momenti rilevanti sopra indicati, il capitale di liquidazione e il capitale economico dell’azienda.

Più precisamente, sia quando sorge la responsabilità degli organi sociali per aver proseguito l’attività, sia nel momento in cui gli amministratori o i sindaci decadono o si verifica il fallimento, l’impresa ha un valore che certamente non è identificabile nel suo patrimonio netto contabile, anche se rettificato. Piuttosto

126 Per ulteriori approfondimenti si rimanda a “La responsabilità degli amministratori di s.p.a. per operazioni successive alla perdita del capitale”, in Le Società, n. 3, 2009.

un’impresa che si trova in uno stato di disequilibrio127, come è il caso di una società con un capitale inferiore al minimo di legge, presenta sia un possibile valore di liquidazione, espresso dall’ammontare netto delle risorse monetarie che sarebbero disponibili con la cessione delle attività e il regolamento delle passività, sia un valore di capitale economico, stimabile secondo differenti criteri e che esprime il valore dell’impresa considerata quale istituto economico destinato ancora, ricorrendone i presupposti, a perdurare nel tempo nonostante le difficoltà riscontrate.

Nel caso in cui si verifichi la perdita del capitale sociale, le possibili decisioni dell’organo gestorio consistono nello smembramento del complesso aziendale, la cessione in blocco dell’azienda, oppure l’avvio di un tentativo di turnaround. La scelta di procedere alla liquidazione dei singoli assets e all’estinzione dei debiti, nella misura possibile, piuttosto che al mantenimento in vita dell’azienda, tramite la sua vendita a terzi o con un processo di risanamento, dovrebbe essere fondata sul confronto tra la somma ricavabile dalla liquidazione e il valore del capitale economico dell’impresa in funzionamento, optando per l’alternativa che restituisce il maggior valore.

Al fine di stimare il danno cagionato dalla prosecuzione illecita dell’attività, si deve quindi valutare sia il capitale di liquidazione, sia il capitale economico dell’impresa nel momento in cui si è verificata la condotta illecita degli organi sociali: l’ammontare più elevato tra i due è da considerarsi il valore dell’azienda nell’istante in cui è sorta la responsabilità degli organi sociali.

Da tale valore si deve sottrarre il valore dell’azienda nel momento il cui il componente dell’organo gestorio o di controllo è cessato dalla carica oppure è intervenuto il Tribunale con una sentenza di fallimento; anche il secondo valore

127 Per ulteriori approfondimenti sul concetto di stato di squilibrio si rimanda a L'impresa in crisi: Soluzioni offerte dal nuovo diritto fallimentare, Alfonso Badini Confalonieri, Alessandro Faroli, Marco

da prendere quale riferimento per la stima del danno va identificato nel maggiore tra il capitale di liquidazione e il capitale economico dell’impresa128.

Ovviamente, perché possa ritenersi che l’illegittima prosecuzione dell’attività sociale abbia procurato un danno è necessario che il valore dell’azienda quando è avvenuta la cessazione della carica o si è verificato il fallimento risulti inferiore al valore dell’azienda quando gli amministratori e i sindaci avrebbero potuto accorgersi della causa di scioglimento. Solo se vi è stato il decremento in parola potrebbe infatti ipotizzarsi una responsabilità in capo agli organi sociali per un danno commisurato alla distruzione di valore verificatasi; in caso contrario la continuazione dell’attività con modalità non conservative da parte degli amministratori non ha comportato effetti negativi per la società e i suoi creditori. Non vi è dubbio che la stima dei valori di liquidazione e di capitale economico in più momenti presenta elementi di notevole complessità, soprattutto in considerazione della necessità di effettuare valutazioni ex post spesso riferibili a momenti lontani nel tempo, avendo per lo più a disposizione informazioni incomplete per una stima “ora per allora” con criteri economico-finanziari. Tuttavia, questo appare l’unico approccio in grado di stimare correttamente l’eventuale danno causato alla società e ai suoi creditori dalla condotta illecita degli organi sociali in relazione agli obblighi di legge disattesi.

Nella pratica professionale accade non di rado di dover rinunciare a seguire l’approccio suggerito, proprio per le concrete difficoltà applicative, e quando anche il Tribunale chiede ai suoi consulenti di stimare il danno nelle azioni di responsabilità per illegittima prosecuzione dell’attività sociale in seguito alla perdita del capitale questi tendono ad aderire al criterio, di più facile applicazione, della differenza tra i patrimoni netti contabili, con alcune eventuali rettifiche.

128 Nel momento della sentenza di fallimento è infatti teoricamente ipotizzabile che il valore del complesso aziendale unitariamente considerato possa essere più elevato del ricavato ottenibile con la liquidazione e quindi risulti maggiormente conveniente procedere alla cessione in blocco del complesso aziendale.

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