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L’atto suicida ha da sempre interessato gli studiosi che si occupano di psicopatologia e cercano di approfondire i complessi meccanismi della mente.

Tra i primi ad analizzare il fenomeno fu Jean Esquirol il quale, in "Des Maladies Mentales"61 (Parigi,1838), sostenne che i suicidi erano persone alienate che attentavano alla loro vita solo in fase delirante.

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Sigmund Freud62 considerava il suicidio alla stregua di un omicidio mancato: il soggetto che attenta alla propria vita introietterebbe una persona per lui significativa nei cui confronti prova sentimenti ambivalenti (amore- odio), per poi ucciderla, nella sua immaginazione, attraverso il suicidio; l’odio provato nei confronti dell’altro, verrebbe pertanto reindirizzato verso se stesso ottenendo, inoltre, l’espiazione dei sensi di colpa determinati dall’esser cosciente di tale ostilità.

Il duplice vantaggio inconscio sarebbe pertanto rappresentato da:

- la punizione dell’oggetto d’amore interiorizzato e l’espiazione della colpa;

- la colpevolizzazione della persona affettivamente significativa per la quale si compie l’atto suicida.

Tale interpretazione risulta diametralmente opposta a quella del sociologo francese Durkheim, il quale, infatti, sosteneva che l’individuo è spinto al suicidio dall’inclinazione collettiva e non dall’istinto di morte, proprio della natura umana.

Entrambi gli autori sono tuttavia accomunati da una visione deterministica del comportamento umano: le azioni individuali rappresenterebbero infatti il risultato di forze soverchianti il controllo dell’uomo rappresentate rispettivamente dall’inconscio o dalla società.

Il contributo della psicoanalisi all’interpretazione delle condotte suicidarie proseguì nel secondo dopoguerra soprattutto con Adler e Sullivan che continuarono ad evidenziare l’importanza della valenza interpersonale dell’atto suicida.

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A tal proposito, Alfred Adler (1937)63 individua nel suicidio una forma di comunicazione attraverso la quale si costringe gli altri ad apprezzare colui che hanno perduto e ciò che rappresenta. Di fronte a stati penosi dell’essere, in cui si assiste ad una svalutazione fisica, morale e sociale dell’Io, allo stesso modo della paura, della fuga, della lotta, il comportamento del togliersi la vita rappresenta quindi un tentativo estremo di difesa.

Anche Harry Stack Sullivan (1953),64 sottolineando la componente interpersonale del gesto suicida, lo considera come un “fatalità dovuta al caso” nella quale il reale obiettivo dell’autosoppressione è rappresentato da un individuo che nel passato ebbe una influenza altamente negativa, distruttrice per il soggetto che decide di farla finita.

Dal punto di vista junghiano, Wahl65 evidenzia la connessione tra l’atto suicida e il desiderio di reincarnarsi, scelta mistica di una nuova vita e regressione individuale basata su aspetti magici ed onnipotenti.

Anche James Hillman66 focalizza l’attenzione sul rapporto intercorrente tra suicidio ed anima in una più vasta ottica che include la legge, la Chiesa e la società in generale. Egli infatti evidenzia come il diritto lo abbia giudicato per molto tempo un reato, la religione un peccato e la società lo rifiuti, tendendo a sottacerlo o a giustificarlo con la pazzia, quasi rappresentasse la più grande delle aberrazioni antisociali.

Per l’autore invece, il significato del gesto è esclusivamente di natura personale ed il tentativo di comprenderlo passa necessariamente attraverso l’apertura verso la morte, l’intima conoscenza e l’immedesimazione.

63 Adler A., (1967), Aspirazione alla superiorità e sentimento comunitario, Edizioni Universitarie

Romane, Roma, 2008.

64 Sullivan H.S., (1953), Teoria interpersonale della psichiatria, Milano- Feltrinelli, 1977. 65

Wahl, (1957), Suicide as a magical act, in Shneidman E.S., Farberow N.L. (a cura di), Clues to

suicide, McGraw-Hill, New York.

66 Hillman J., (1964), Suicide and the Soul, Harper and Row, New York

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Il suicidio è inteso quale percorso per entrare nella morte, determinato dalle più profonde fantasie dell’anima individuale. Esso rappresenta non soltanto una via di uscita dalla vita, ma anche un percorso di ingresso nella morte. La conseguente rigenerazione dell’anima fa sì che l’atto suicida possa esser considerato non come gesto “contro” il vivere, bensì come soddisfacimento di un soverchiante bisogno di una esistenza più piena. Hillman sottolinea, quindi, come il rifiuto dell’esperienza della morte renda incompiuta la nostra vita. In quest’ottica, l’impulso alla morte può rappresentare la richiesta di un incontro con la realtà assoluta, una trasformazione completa, radicale, l’espressione dolorosa ma al contempo “vitale” di un anima che non procede di pari passo con la vita bensì va oltre ad essa, per passare da un lento e faticoso divenire ad un improvviso “essere”.

Suicidio come unica via d’uscita da un’esistenza vissuta nell’impossibilità di nutrire un’anima affamata.

Conseguentemente, lo sviluppo dell’individualità determinerebbe un aumento di probabilità dell’atto suicida. Per Hillman infatti gli individui che si lasciano meno influenzare dal gruppo rappresentano i soggetti più coraggiosi e, in quanto tali, maggiormente propensi a sperimentare la morte quale possibile alternativa: a tal proposito l’autore fa uno specifico riferimento ai soggetti schizoidi o alle personalità creative, avendo questi una maggiore intuizione riguardo il proprio sé.

Anche se poi lo stesso Hillman, parecchi anni dopo corregge questa opposizione tra lo sviluppare l’anima ed il vivere la vita affermando che non è indispensabile uccidersi per cancellare l’idea dell’individualità, bensì possiamo comprenderla sino a far sì che si estingua e ci permetta di giungere alla comprensione di quell’”anima mundi” alla quale noi tutti siamo intimamente connessi.

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Complessa appare la visione del suicidio da parte di Karl Menninger (1933)67 il quale sosteneva che devono coesistere tre componenti psichiche

perché si possa giungere al suicidio:

- l’istinto di morte, cioè il desiderio di uccidere determinato dall’aggressività primaria;

- il desiderio di morire per i sensi di colpa e come ricerca dell’espiazione;

- il desiderio della morte per trovare rifugio dalle circostanze avverse della propria vita e per porre termine ai propri conflitti.

Pertanto, secondo Menninger, almeno tre desideri possono concorrere ad un atto suicida:

1. il desiderio di uccidere; 2. il desiderio di essere uccisi; 3. il desiderio di morire.

Il desiderio di uccidere un altro individuo potrebbe anche non esser diretto verso un oggetto interno: difatti, anche l’esperienza clinica conferma come l’atto suicida sia a volte finalizzato alla distruzione dell’esistenza dei sopravvissuti.

L’autore individuò quindi le seguenti tipologie di suicidio:

- Suicidio cronico: il soggetto cronicizza comportamenti autodistruttivi, infliggendosi sofferenze che causano il graduale deterioramento delle proprie funzioni vitali (alcolismo, masochismo, anoressia-bulimia,

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disturbi comportamentali ecc.). In tal modo egli procede “dilazionando” il suo morire.

- Suicidio localizzato: il comportamento autodistruttivo è focalizzato su una singola parte del corpo (onicofagia, chirurgofilia, frigidità, impotenza ecc.);

- Suicidio organico: sviluppo di patologie organiche indotte da fattori conflittuali di origine psicogena (patologie oncologiche ecc.).

Gregory Zilboorg68, sviluppando alcuni aspetti teorici di Menninger, sostenne che in ogni atto suicida sono presenti una inconscia componente di ostilità ed una grande incapacità di amare gli altri. Egli individuò inoltre l’aspetto narcisistico di tale gesto primitivo considerandolo un mezzo attraverso il quale l’individuo cerca di rendere concrete le proprie istanze fantastiche di immortalità.

Otto Fenichel nota come il suicidio possa rappresentare il soddisfacimento di un desiderio di riunificazione all’oggetto amato perduto oppure un unione narcisistica con un’amata figura superegoica.69 A tal proposito basti ricordare i risultati di dati statistici che evidenziano una correlazione fra il suicidio e l’anniversario della morte di una figura cara. Infatti, qualora autostima ed integrità del sé di un individuo dipendano dall’attaccamento ad un oggetto perduto, il suicidio potrebbe apparire al soggetto l’unica strada percorribile per ritrovare la coesione del sé.

68 Zilboorg G., (1936), Suicide Among Civilized and Primitive Races, American Journal of

Psychiatry, n.92, p.362.

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Anche Franco Fornari (1967)70 considera di fondamentale importanza, nella fenomenologia dell’atto suicida, le ansie depressive causate dalla perdita dell’oggetto di amore e, conseguentemente, il suicidio risulterebbe il disperato tentativo di vedere riaffermato il proprio rapporto con l’oggetto perso.

Inoltre l’autore sottolinea l’aspetto metacomunicativo dell’autoaggressione che il suicida rappresenterebbe con “una negazione della morte”, ritenendo infatti che il suicida ricerchi disperatamente il suo rapporto col mondo, sebbene in apparenza neghi tale rapporto.

Lo stesso Erwin Stengel,71 oltre agli aspetti aggressivi, individua nel suicidio ulteriori motivazioni non distruttive con particolare riferimento al desiderio di poter incidere sui sentimenti altrui. Evidenzia pertanto nel gesto suicidario una sorta di funzione di appello, quindi di richiamo inconscio per ottenere l’attenzione dell’ambiente. Inoltre l’autore evidenzia come nel gesto suicida non vi sia sempre la lucida determinazione nel farla finita: questo sarebbe invece spesso determinato da uno stato di confusione. L’autore arriva quindi a concludere che, la maggior parte delle persone suicide non vogliono né vivere né morire bensì fare entrambe le cose contemporaneamente.

Gabriel Deshaies, in “Psicologia del suicidio” (1951),72 considera il suicidio come il risultato di una integrazione di fattori psicologici, sociali e fisici. Egli illustra le seguenti sei tipologie di suicidio: il suicidio difensivo nei confronti di una situazione insostenibile; quello autopunitivo, determinato da un fortissimo senso di colpa; il suicidio autoaggressivo, attraverso la interiorizzazione di un atto aggressivo; quello ablativo, quale “atto

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Fornari F. (1967), Osservazioni psicoanalitiche sul suicidio, Rivista di psicoanalisi (1967). Rivista di Psicoanalisi, 1967, Vol.13-n.1, pp.21-36.

71 Stengel E., (1977), Il suicidio e il tentato suicidio. Feltrinelli. Milano. 72 Deshaies D. (1951), Psicologia del suicidio, Astrolabio - Roma.

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sacrificale”; il suicidio ludico, per imitazione o curiosità ed infine il suicidio tanatologico, determinato dall’istinto di morte.

Ludwig Biswanger73, fondatore dell’analisi esistenziale, focalizza l’attenzione sulla frammentazione della dimensione temporale del soggetto suicida, sottolineandone l’incapacità di proiettarsi in una dimensione futura. Herbert Hendin74 sostiene che la sola psicopatologia depressiva non sia

sufficiente a spingere il soggetto a compiere la condotta suicida, ipotizzando che diverse organizzazioni psicodinamiche possano essere implicate nel suicidio: riunione con l’oggetto amato; morte come vendetta verso l'altro; suicidio come autopunizione ed espiazione di colpe; suicidio come fantasia di rinascita.

Cesare Musatti75 considera l’aggressività verso se stessi l’essenza costitutiva della melanconia, che può procedere da aspetti ed elaborazioni prettamente psicologiche sino a giungere alla sua forma fisica più estrema rappresentata dal suicidio. In merito alla eziopatogenesi del suicidio, l’autore individua i due seguenti meccanismi di innesco: il primo è rappresentato dallo squilibrio psicologico causato dalla impossibilità di andare oltre l’investimento libidico per l’oggetto amato e perduto, con la conseguente identificazione soggettiva con quest’ultimo e la sua eliminazione attraverso l’autosoppressione. Il secondo consiste nell’incapacità dell’individuo psicologicamente fragile di fronteggiare la realtà esterna, con la conseguente reazione liberatoria di trasformazione della propria eteroaggressività in autoeliminazione.

73 Bínswanger L.(1973), Il caso Ellen West e altri saggi, Bompiani, Milano, 1973. 74 Hendin H., (1963) Suicide. J Nerv Ment Dis., n.136, pp. 236-244.

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Jean Baechler76 elabora una teoria che integra alcuni aspetti di psicologia dinamica ed altri di natura biologica. L’ipotesi di base è che ogni individuo in relazione alle proprie capacità di apprendimento ed alle proprie funzioni biologiche, tenda a sviluppare una modalità reattiva in relazione a specifiche condizioni ambientali. In linea con tale assunto, l’autore individua le seguenti cinque modalità (strategie) alle quali il soggetto può ricorrere al fine di trovare la soluzione di qualsiasi problema esistenziale:

1. la strategia razionale: tesa a modificare le oggettive condizioni che hanno determinato il problema;

2. la strategia irrazionale: finalizzata ad edificare una realtà personale diversa dalla realtà oggettiva;

3. la strategia del rifiuto con l’evasione: attuata nel caso in cui l’individuo rifiuta di sottostare alle regole del gioco che per lui hanno determinato una realtà negativa, abbandonando la realtà. Situazione tipica in cui viene commesso il suicidio;

4. la strategia del rifiuto con l’inganno: in tal caso il soggetto aggira le regole del gioco “barando”;

5. la strategia dell’annichilimento: viene attuata quando l’individuo decide deliberatamente di distruggere la fonte del problema.

Per tale teoria, il suicidio tenderebbe ad essere compiuto nelle seguenti tre situazioni:

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- nel caso in cui le soluzioni razionali siano eccessivamente esigue;

- nel caso in cui i problemi risultino di una tale gravità da far superare la soglia di sopportazione individuale e quindi la capacità personale di fronteggiarli;

- nel caso in cui vi sia la definitiva compromissione delle capacità vitali del soggetto.

Lo psicologo Edwin Shneidman,77 uno dei massimi studiosi viventi di suicidologia, ha elaborato una teoria integrativa tridimensionale anche nota come “teoria del cubo”. Egli evidenzia come spesso il suicidio rappresenti l'unica via di fuga nel momento in cui le capacità cognitive e reattive dell’individuo sono sopraffatte da un intenso dolore psicofisico, da un forte turbamento (registrabile in base alla intensità dello stress soggettivamente percepito) e da un elevato grado di coazione.

Tale formulazione teorica risulta innovativa nella sua schematizzazione geometrica secondo il modello, tridimensionale, del cubo dal quale ne riprende la denominazione.

Dal punto di vista eziologico, l’autore avanza l’ipotesi che i comportamenti suicidari possano esser riconducibili, in modo schematico, alle tre dimensioni di questa figura geometrica che appunto coinciderebbero con: 1) Il dolore: inteso come soggettiva esperienza di una insopportabile

sofferenza psicologica;

2) Il turbamento: stato psicologico generale proprio di una persona disturbata. E’ inteso come relativa capacità dell'individuo di controllare l’agitazione, gli impulsi e la tendenza ad agire in modo compulsivo.

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Quest’ultimo aspetto, per l’autore, sarebbe decisivo in relazione alla letalità dell’atto suicida.

3) La coazione: considerata come fattore determinante le reazioni psicologiche individuali in riferimento ai pensieri, ai sentimenti ed ai comportamenti. Questa corrisponderebbe, pertanto, alla risultante delle influenze sul soggetto sia dei rapporti intrasoggettivi che di quelli sociali.

Shneidman attribuisce ad ognuna di queste tre variabili un livello di possibile intensità a partire da un valore minimo (1) ad un valore massimo (5). E’ evidente come il massimo del dolore, del turbamento e della coazione, rappresenti la situazione di rischio suicidario a più alto livello di probabilità.

Shneidman sostiene che l’individuo non commette suicidio se non in presenza della combinazione di una elevata intensità di ciascuna di queste tre componenti interagenti.

L’atto suicida si determinerebbe dalla compresenza di una esplosione di energia psichica (successiva ad una situazione di forte distress), di una intensa sofferenza psichica e dalla sensazione di impotenza di fronte ad eventi esterni percepiti soggettivamente come soverchianti.