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Risalendo nell'argomento di Crumley, partiamo dal primo punto e vediamo come è arrivato dalla carità alla discriminazione debole. Crumley comincia dal terzo dogma, scomponendo l'argomentazione dell'articolo di Davidson e individuando nove punti nell'argomentazione contro gli schemi concettuali. Il punto centrale, che per Crumley concediamo a Davidson, è il

quarto, ossia:

(4) La verità non può essere separata dalla traducibilità.95

Per Crumley questo punto non è così pacifico come sembra, anzi va in primo luogo elaborato con la clausola della traducibilità nella nostra lingua, questo perché quando è in gioco la nozione di verità per Davidson si deve andare a cercare la convenzione (V). Crumley cita il passaggio dell'articolo di Davidson dove viene compiuta la connessione96 . Il problema si deve quindi presentare nei termini di un linguaggio e di un metalinguaggio. Per la precisione il metalinguaggio accoglie in sé le traduzioni di enunciati del linguaggio oggetto.

Il passaggio è abbastanza complesso, però il punto saliente è che la verità come intesa dallo schema (V) lega enunciati di un linguaggio ai corrispettivi nomi nel metalinguaggio. Dato questo passaggio, si attua una traduzione tra linguaggio e metalinguaggio che rende possibile l'uso della definizione di verità per il linguaggio di partenza. Crumley sottolinea che il punto è la traducibilità nella “nostra lingua” appunto perché questo piccolo particolare gli permette di avanzare nell'argomentazione, nella fattispecie lo porta a chiedersi quale sia la via per giustificare che

(4*) La verità non può essere separata dalla traducibilità nella nostra

lingua.97

La via per poter parlare di traducibilità nella nostra lingua è per 95 Crumley, 1989, pg. 350. “(4) Truth cannot be divorced from translatability.” 96 Davidson, 1982, pg. 76. Crumley fa riferimento all'edizione del 1982. Nella

versione italiana, 1994, pg. 278.

97 Crumley, 1989, pg. 353. “(4*) Truth cannot be divorced from translatability

Crumley quella dell'interpretazione. Guardando il lato pratico dell'attività del comunicare, l'interpretazione è per Crumley la chiave: dato che, per la carità, ci capiamo quando “simultaneamente assegniamo significati e attribuiamo credenze”98. La domanda quindi viene riformulata così:

C'è una qualche ragione per pensare che possiamo ritenere che un agente abbia credenze e allo stesso tempo ritenere che potremmo essere incapaci di interpretare queste credenze?99

Riassumendo, dal fatto che la verità non può essere separata dalla traducibilità Crumley è passato alla chiosa sulla traducibilità nella nostra lingua. Questo perché Davidson esclude che la verità per un parlante possa darsi se non nella lingua in cui lui stesso sta parlando.

Per capire meglio, seguiamo l'esempio di Crumley: la verità di un enunciato in svedese non sarebbe per me, che parlo italiano, comprensibile anche se avessi un manuale di traduzione ed un dizionario bilingue di svedese-cinese. Senza capire né lo svedese né il cinese, io rimarrei comunque incapace di dare valore di verità all'enunciato svedese di partenza.

La verità e la traduzione si portano dietro la specifica lingua del parlante perché si tratta di azioni che un agente compie nel momento della comunicazione e dell'interpretazione. Da qui in avanti l'argomento di Crumley infatti spinge l'acceleratore sull'agente linguistico, cioè su chi compie le azioni di interpretazione e comunicazione.

98 Crumley, 1989, pg. 353.

99Crumley, 1989. Pg 354. “Is there any reason for thinking that we might hold that an agent does have beliefs and at the same time hold that we might be unable to interpret any of these beliefs?”

La prima tappa in cui Crumley si ferma sono le condizioni che un agente soddisfa quando ha una credenza. Infatti l'interpretazione prende l'avvio quando tentiamo di capire ciò che qualcuno vuole comunicare, in altri termini quando assegnamo credenze che hanno, per loro natura, dei contenuti. La comunicazione, e di riflesso l'interpretazione, sono di qualcosa. C'è un contenuto che veicoliamo parlando e non ci sono credenze che possiamo esprimere che siano vuote di contenuto. Poi tra una credenza sulla porta di casa e una sulla morte di Gwen Stacy corrono parecchie differenze, ma non c'è caso di credenza vuota.

Quali sono le condizioni per cui un agente ha una credenza? La risposta di Crumley è semplice: un agente deve essere in grado di discriminare tra le sue credenze in base a sé stesse, cioè al loro contenuto. Crumley per questo punto si rifà a Gareth Evans e chiama la capacità di discriminare il principio di discriminazione debole. Vediamo nei dettagli.

Le credenze sono di qualcosa, quindi avviene una distinzione tra loro in base a ciò intorno a cui vertono. Per esempio, abbiamo due credenze diverse quando parliamo di scalini e di discese: non sono la stessa cosa. In generale ho una credenza sugli scalini ed è differente da quella che ho sulle discese, per esempio i primi non tenterei mai di farli in bici né tenterei di contare i pianerottoli di una discesa. Anche pensando alla credenza più semplice sugli scalini, cioè la loro presenza nel mio palazzo e il mio vederli quando arrivo al pianerottolo, per parlarne ed essere capita non posso confonderli con l'ascensore e dire che “ho chiamato le scale, ma erano occupate”.

poter distinguere una credenza da un'altra sulla base del loro contenuto. Il compito non è impegnativo ed anzi è riduttivo nel considerare la discriminazione solo sulla base del contenuto, ma in prima istanza è necessario. Il principio di discriminazione debole è una condizione necessaria e non sufficiente perché ci sia interpretazione, perché lega le credenze con i loro contenuti, ma non garantisce che ci sia comunicazione tra più agenti. E prima di arrivare a questo punto, la formulazione del principio di discriminazione debole:

Si può dire che un soggetto S ha una credenza g con un contenuto c solo se in certi casi, S è capace di distinguere g da qualche g* con contenuto c*100

In questa formulazione, e in tutta l'argomentazione, contenuto e credenza viaggiano in coppia nel senso che sono inscindibili, le credenze inglobano i loro contenuti e i contenuti da soli, semplicemente, non hanno senso.

Riflettendo sulla discriminazione debole però emerge la condizione di non sufficienza: un agente con credenze discriminabili può comunque insistere che queste non sono interpretabili. Il punto della discriminazione infatti è poter distinguere tra ciò che è correlato ad una credenza e ciò che 100 Crumley, 1989, 354. “(WDP) A subject S may be said to have a belief g with content c only if in some range of cases, S can discriminate g from some g* with content c*”.

Di passaggio faccio notare come la distinzione che qui viene presentata è nella modalità sostanzialmente diversa dalla discriminazione forte: la discriminazione debole funziona come la descrizione delle condizioni per poter parlare di credenze con uno specifico contenuto. Non implica in nessun modo la necessità che il soggetto abbia tali credenze o che queste credenze debbano essere necessarie per il soggetto, a differenza delle credenze descritte nella discriminazione forte.

non lo è, ma questo non significa che poi un agente con una credenza sia in grado di farsi capire automaticamente. Crumley sottolinea che anche un relativista ha una teoria per cui un agente è portatore di credenze e le distingue tra loro; anche se poi restano incomprensibili altri agenti con altri schemi.