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impartite dall’alto a condizione che le stesse siano legittime, cioè conformi all’interesse delle controllate58.

Per quanto la responsabilità in parola sembri configurarsi come responsabilità oggettiva, per la quale rileverebbe soltanto la partecipazione consapevole al vantaggio, la dottrina l’ha ricostruita come responsabilità per colpa.

La responsabilità dei componenti dell’organo amministrativo non è responsabilità meramente da posizione, ma richiede l’accertamento dei requisiti di cui all’art. 2392 c.c. e, quindi, sostanzialmente di una violazione del criterio di diligenza.

In definitiva, utile dire che l’esistenza del gruppo determina una maggiore esposizione degli amministratori, tanto della società dominante, che di quella controllata, ai rischi inerenti al proprio incarico, imponendo una maggiore ponderazione delle scelte di gestione.

4. La quantificazione del danno. Rinvio.

Nel sistema generale della responsabilità civile59, il perimetro delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili è disegnato dall’art. 1223 c.c., secondo il quale il debitore è tenuto a risarcire i danni subiti dal creditore che siano “conseguenza immediata e diretta” del mancato o inesatto adempimento.

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TOMBARI U., Poteri e doveri dell’organo amministrativo di una s.p.a. “di gruppo” tra

disciplina legale e autonomia privata (appunti in tema di corporate governance e gruppi di società), in Riv. soc., 2009, I, 129.

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Fra i numerosissimi contributi si segnalano ALPA G., La responsabilità civile. Parte

generale, Milanofiori Assago, 2010; DI MAJO A., Profili della responsabilità civile, Torino, 2010; FRANZONI M., L’illecito, in Trattato della responsabilità civile, Milano, 2004; SCOGNAMIGLIO R., Responsabilità civile e danno, Torino, 2010.

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Tale norma, in forza del richiamo contenuto nell’art. 2056 c.c., si applica anche al caso di responsabilità extracontrattuale.

Ponendo il generalissimo criterio della riparazione integrale del danno, la norma, priva di significativa portata precettiva, sembra assumere una funzione più di norma di principio (richiamata spesso in funzione declamatoria per rafforzare il dispositivo o le motivazioni della sentenza): più che soccorrere l’interprete nella determinazione concreta del danno, rileva piuttosto per attribuire al risarcimento una funzione compensativa da commisurarsi al pregiudizio effettivamente subito.

La dottrina e la giurisprudenza concordemente ritengono che per perdita subita (cd. danno emergente) debba intendersi il depauperamento del patrimonio della vittima derivante dal fatto del danneggiante; diversamente il mancato guadagno (cd. lucro cessante) consisterebbe nella perdita dell’utilità che il danneggiato avrebbe conseguito se non si fosse verificato il fatto illecito.

Salvo alcune implicazioni in ambito tributario, la distinzione generalmente non ha decisiva portata pratica, pur considerando le maggiori complessità che implica la prova del lucro cessante in ambito probatorio, richiedendo verosimilmente il ricorso a valutazioni di tipo equitativo (si consideri che casi tipici sono la perdita di un affare o il mancato godimento di un bene).

Maggiore interesse suscita il criterio in base al quale può essere risarcito solo il danno che sia conseguenza immediata e diretta del fatto illecito: è l’annosa questione legata alla dimostrazione del nesso causale, ovvero il rapporto causa-effetto tra il fatto e le conseguenze dannose dello stesso60.

60

Secondo la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza di legittimità, il giudizio causale si sviluppa su due fasi: la prima (cd. causalità naturale, materiale o di fatto) tende alla ricostruzione del fatto dannoso, e cioè alla ricerca del collegamento materiale tra la condotta e l’evento, essa costituisce l’an e si sostanzia nell’individuazione del responsabile; la seconda (cd. causalità giuridica), risolto il nesso naturale tra fatto ed evento, costituisce il quantum e si sostanzia nella determinazione del contenuto dell’obbligazione risarcitoria mediante la ricerca del collegamento giuridico tra il fatto (evento) e le conseguenze dannose risarcibili (Cass.

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Queste semplici regole si presentano come di ardua applicabilità se calate all’interno della responsabilità gestoria, e soprattutto nelle concrete situazioni di crisi d’impresa, nelle quali di solito l’azione di responsabilità viene esperita61.

La valutazione delle condotte degli organi sociali si colloca usualmente molto in avanti nel tempo rispetto al momento in cui le stesse sono state poste in essere.

Queste condotte si sono inoltre accavallate e mescolate tra loro, il tutto in un momento critico, se non esiziale, della gestione sociale in cui il grado di disordine (anche documentale e contabile) è usualmente aumentato.

Nella realtà dei fatti, il quadro si presenta quindi assai confuso ed intricato: a fronte del principio basilare secondo il quale è necessario provare il nesso di causalità tra condotte e danni, la sua concreta dimostrazione può divenire di difficile e faticosa attuazione e ciò espone inevitabilmente al rischio di tentativi, anche non condivisibili, di semplificazione più o meno accentuata.

Si consideri, ad esempio, che con la rimozione del divieto legale di intraprendere nuove operazioni al verificarsi di una causa di scioglimento, ispirata dalla cultura del salvataggio dell’impresa in esercizio, verrebbe a cadere il già labile nesso presuntivo tra violazione del divieto e ulteriore depauperamento.

In caso di perdite che abbiano intaccato il capitale sociale per oltre un terzo, quindi, gli amministratori sarebbero senza dubbio responsabili per non aver adottato i provvedimenti di cui all’art. 2446 c.c. Più in generale si ritiene che,

17.9.2013 n. 21255, in Giust. civ. Mass., 2013; Cass. 30.4.2010, n. 10607, in Giust. civ. Mass. 2010, 4, 646; Cass. 23.12.2010, n. 26042, in Giust. civ. Mass. 2010, 12, 1645 ; Cass. Sez. Un. 11.1.2008, n. 576, in Giust. civ. Mass. 2008, 1, 31; Cass. 10.5.2000, n. 5962, in Resp. civ. e

prev., 2001, 91).

61

Per una panoramica degli arresti giurisprudenzaili e dottrinali di maggiore interessi si veda il recente ARATARI F.–IANNACONE L., La responsabilità degli amministratori di società

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quando si avverta uno stato di difficoltà economica, i gestori sono tenuti a gestire la società con prudenza, compiendo operazioni non rischiose, monitorando costantemente la situazione economico-finanziaria e, se del caso, presentando istanza di fallimento per non aggravare le perdite.

Inutile dire come in questi casi risulti assai complessa un’esatta quantificazione del danno che rispetti i principi generali in materia di risarcimento del danno.

Di fronte a questo quadro, la giurisprudenza e la dottrina hanno cercato di individuare alcune parametri presuntivi per orientare gli operatori nella determinazione dei danni, primo fra tutti il criterio del c.d. deficit fallimentare.

Trattandosi di problemi che assumono una precipua connotazione in materia di responsabilità nella crisi e viepiù in materia di procedure concorsuali, se ne rinvia la specifica trattazione nei prossimi capitoli.

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IIC

APITOLO

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A RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI DI S

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DI FRONTE ALLA CRISI