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Ci stiamo soffermando sulla testimonianza di Monnier perché essa presenta, in maniera esemplarmente condensata (anche nella sua tonalità polemica), i due temi che negli ultimi anni hanno “plasmato” il dibattito sul giovane Blanchot, costringendone l‟evoluzione in una precisa direzione: il rapporto tra politica e letteratura nella sua produzione giornalistica degli anni Trenta e il significato dell‟intervento di Blanchot nel dibattito sulla sua giovinezza, ormai non più solo all‟insegna della pratica di un enigmatico silenzio, ma attraverso dichiarazioni frammentarie, frammenti di scrittura non meno sibillini. Su quest‟ultimo tema, Leslie Hill ha fornito un contributo fondamentale, che ha costretto il dibattito a un improvviso raffinamento, mostrando come «what matters, then, for Blanchot, is not autobiographical confession or avowal, but the responsability of writing».156 Leslie Hill prova a disinnescare l‟ordigno della polemica sulla memoria autobiografica blanchotiana157 riconducendo il discorso alla complessità radicale della sua generale strategia linguistica, tentativo di scardinare i tradizionali privilegi del soggetto della narrazione (finzionale o autobiografica che essa sia) a

155Cfr. Maurice Blanchot, Regards d’outre-tombe, in FP, p. 240: «Certains tirent orgueil de leurs confidences

humiliantes: c‟est par fois le cas de Rousseau. Mais le plaisir peut être d‟un ordre plus subtil et plus redoutable. L‟on met ainsi de la complaisance à se regarder sans complaisance, on trouve une volupté trouble à tout tirer au clair, et la rigueur devient faiblesse. Plus on sera franc, plus la franchise satisfera la duplicité du fond du cœur. Plus on se montrera exact avec soi, et plus cette exactitude sera source de dangereuses écarts. Il y a un péché de la confession, que nulle confession ne peut rattraper, puisqu‟il se commet en s‟avouant et s‟aggrave dès que l‟on absout : la faute est ici liée à la justification, à l‟innocence , et cependant vouloir cette innocence, cela est nécessaire, l‟on ne peut non plus s‟en dispenser, en sorte que tout est faute et l‟aveu et refus de l‟aveu».

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Leslie Hill, Blanchot estreme contemporary, cit., p. 20.

157 In cui ben presto si inserirà autorevolmente anche la voce di Jacques Derrida, attraverso un‟operazione di

decostruzione del rapporto tra testimonianza e finzione nel blanchotiano L’instant de ma mort, racconto di un episodio occorsogli durante l‟Occupazione (cfr. supra, p. 26n). Ma la sua lettura non ha convinto tutti, sia quando insiste sul valore assoluto di testimonianza autobiografica del testo di Blanchot, che invece è “strutturalmente” finzionale, sia quando, simmetricamente, insiste sul valore “finzionale” della sua politica dell‟anteguerra, tacciando di incomprensione i suoi accusatori politici. Cfr., ad esempio, Jacques Derrida,

Demeure, Paris, Galilée, 1998, tr. it. Dimora, Bari, Palomar, 2001, p. 125: «Essi non hanno certo torto ad

interessarsi alla politica di Blanchot Ŕ al contrario. Ma dovrebbero prima almeno leggerlo ed imparare a leggerlo. In particolare laddove la finzione gioca un ruolo così pericoloso e disorientante con la serietà e la veridicità della testimonianza». Per un rapido riassunto della querelle che oppone, su tale questione, Derrida ai suoi critici, cfr. Jean-Louis Jeannelle, André Malraux et Maurice Blanchot à l’instant de la mort, «Europe», août-septembre 2007, (940-941), pp. 127-129 e le note a pp. 139-140.

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favore di una frammentarietà che ne renda polifonica, antiautoritaria, la funzione testimoniale. Disgregare la forma classica della “deposizione” autobiografica è, per Blanchot, un modo non per ritirarsi dalla Storia, ma per contestare ogni pretesa di ricostruzione monolitica di una verità assoluta da parte del soggetto biografico; pretesa impossibile, secondo Blanchot, messa in crisi dalla pluridimensionalità temporale implicata dal double bind di testimonianza e finzione, tempo della storia e tempo del racconto. Ma in tale detronizzazione del soggetto autobiografico Blanchot legge non una “passività” dell‟autore, quanto piuttosto la condanna alla “futuribilità” del suo discorso politico, passato e presente; nessuna deresponsabilizzazione è dunque, secondo Hill, all‟opera nella sua pratica frammentaria della memoria autobiografica:

History, then, is not established truth, and provides no authorized translations; indeed, in some cases, Blanchot implies, history itself may turn out simply to have borrowed, in an act of plagiarism, the totalizing impetus sometimes to be found within literary narrative itself. But equally, if history is at times just a displaced version of an oppressive, all-inclusive fiction, so, too, in the encounter with historical experience, fictional narrative sometimes also meets its limits. […] These reservations with regard to narrative representation do not amount to a withdrawal from political exigencies, nor an abandonment of the obligation to bear historical witness. To read history, as does Blanchot, as a discontinuous space, irreducible to chronological narrative, is, by rejecting temporal closure, to affirm the necessary futurity of politics and political responsibility.158

Per quanto riguarda invece l‟altro tema implicato da Monnier, l‟esistenza negli anni Trenta di due Blanchot, l‟analyste désintéressé di letteratura, il polemiste sanglant e féroce della politica, esso resiste ancora oggi come una delle letture più frequenti del suo schizoide temperamento giovanile. L‟esistenza di una separazione netta tra politica e letteratura già negli anni Trenta permette facilmente di spiegare il passaggio alla fase successiva, quella in cui la sua vita a été entièrement vouée à la littérature et au silence qui lui est propre… È dunque, il più delle volte, un‟esigenza retrospettiva a motivare una lettura degli anni Trenta blanchotiani che, per il resto, non è sostenibile, né a livello biografico, né a livello testuale, né a livello interpretativo, come cercherò di mostrare, più avanti, in questo lavoro. Soprattutto quando vi è implicata una più o meno evidente connotazione morale Ŕ letteratura “buona” vs politica “cattiva” Ŕ, è impossibile non scorgere in questa lettura un‟ulteriore coniugazione di quella rassicurante mitologia blanchotiana che abbiamo già avuto modo di incontrare.

Uno degli esempi dell‟affermazione di questo “bilinguismo” del giovane Blanchot ci viene fornito, nel 1996, da Jeannine Verdès-Leroux, all‟interno del suo prezioso studio generazionale sulla gioventù di estrema destra degli anni Trenta. Refus et violences. Politique

et littérature à l’extrême droite des années Trente aux retombées de la Libération159

è un testo molto importante; se si eccettua il discusso e discutibile studio di Sternhell, è forse la prima volta in cui si ritorna, trent‟anni dopo Loubet del Bayle, su un luogo tanto controverso con una lettura tanto personale e innovativa. La prospettiva metodologica utilizzata è sicuramente uno degli elementi più interessanti di questo studio: il rifiuto di una storiografia “positivistica”, basata sull‟autorità di un inventario di documenti spesso svuotati di vita, la precedenza accordata alle testimonianze dell‟epoca e dei reduci di quell‟epoca, nella loro forma orale, nella quale ciò che conta non è tanto ciò che viene detto ma il modo in cui il tono

158 Leslie Hill, Blanchot estreme contemporary, p. 7. Hill cita in questo luogo il seguente brano da Après coup:

«L‟histoire ne détient pas le sens, pas plus que le sens, toujours ambigu Ŕ pluriel Ŕ ne se laisse réduire à sa réalisation historique, fût-elle la plus tragique et la plus considérable» (AC, p. 96). La lettura di Hill è dunque molto diversa da quella di Derrida; ne è, forse, una implicita risposta, visto che il testo derridiano del 1998 è in realtà la riproposizione di una conferenza tenuta a Louvain nel 1995, dal titolo Fiction et témoignage. Inoltre, essa mi sembra molto più vicina alla (già citata) espressione di una piena, incondizionata responsabilità dello scrittore che Blanchot stesso espone in Les intellectuels sont toujours responsables, risposta all‟inchiesta di «Combat» del 1946.

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stesso della voce è capace di ricostruire, “atmosfericamente”, una certa obiettività dell‟epoca storica.160 L‟unico rischio di tale metodo “impressionistico” (di cui non si vuole tuttavia svalutare l‟effettiva utilità) è che l‟illuminante capacità di restituire la complessità stratificata delle ideologie, delle dottrine, delle sensibilità e delle contingenze di quest‟epoca, si coniuga spesso con una compiaciuta e manifesta confessione dell‟impossibilità di comprenderla Ŕ quando nemmeno quelli che ci vivevano hanno dimostrato di esserne capaci…161

Certamente, per rendere una realtà storica del genere un metodo positivistico non serve a molto ma, solo in alcuni casi, la candida e appassionata confessione della Verdès-Leroux di non riuscire a spiegare tutto assomiglia tanto alla pretesa di averlo fatto. A volte si rimpiangono le inevitabili tare dello storico che, con le sue incomprensioni e le sue ingiustizie, cerca comunque di scendere più in profondità, fornendo delle ipotesi interpretative; magari, improntate a “un impressionismo della profondità”, non fondato, azzardato, a volte senza reti protettive, ma intellettualmente più onesto anche quando deforma la realtà attraverso l‟esegesi personale. In alcuni casi, manca alla Verdès-Leroux proprio il coraggio di un‟ipotesi personale, di una lettura trasversale che tradisca la realtà che essa ci presenta nella sua frastagliata superficie, dandocene un senso profondo che la perfori; ne resta, pertanto, vittima, sperduta nell‟incomprensibilità dell‟epoca, mimeticamente coinvolta dalla stessa mancanza di vie d‟uscita del mondo che descrive:

C‟est le tentative sans espoir de « dissidents » (selon le mot de Maurice Blanchot), désespérés par leur époque et désabusés, sans l‟exprimer ouvertement, par l‟archaïsme, l‟inertie de logorrhée du Maître. Thierry Maulnier, Maurice Blanchot sont les plus talentueux porte-plume de ces milieux, traversés de violences sincères, de rébellions sans cause, atteints aussi d‟un besoin irrépressible d‟écrire. […] Si on les lit soigneusement, on voit que ce ne sont pas des fascistes. Le sens du monde et leur propre destinée sont, pour eux, insupportables ; ils cherchent mais leurs impatiences et leurs désirs sont insatiables. Ils ont une envie furieuse d‟autre chose, mais ils sont sans projet exprimable […]. « Il ne faut pas qu‟il y ait de repos » : cette phrase exprime la hantise de ce courant et dévoile l‟absence de but. Ces rebelles refusent avec horreur la démocratie, sa classe dirigeante, son « abjection » (mot fréquent sous la plume de Maurice Blanchot) ; ils rejettent avec horreur le communisme et ils ne se rallient à rien […]. Ce sont des accusateurs, et ils ne savent pas agir. Seulement écrire. […] Prêts à des actions « forcenées », prêts à détruire, ils sont avant tout des désespérés. Leur désespoir n‟a pas de source dans des malheurs personnels particuliers, dans des malheurs exceptionnels, dans de grandes déceptions : leur désespoir est historique.162

La troppa insistenza sul titanismo confuso e disperato della Jeune Droite (che, indubbiamente, è un dato di fatto), sull‟assenza di progettualità che ne caratterizza la pratica militante, è forse la causa della difficoltà che la Verdés-Leroux incontra nel trovare un filo

160 Cfr. ibid., p. 7: «Cela permet de lire des textes qui semblaient parfois incompréhensibles, absurdes ou

insupportables, et qu‟on lisait avec des lunettes d‟aujourd‟hui Ŕ après Auschwitz. Les entretiens poussent aussi à la prudence ; l‟époque étudiée a été si dramatique, porteuse d‟apocalypse, qu‟on ne peut la décrire et la juger péremptoirement ou avec désinvolture. C‟est une difficulté immense que de saisir la confusion de l‟époque, ses couleurs, son climat, d‟en donner à entendre le bruit et la fureur ; il faut décrire des fractures, des déraisons, des aveuglements, des hontes aussi, et des actes criminels, avec distance et sérieux. Rien me paraît plus détestable et sot que le ton sarcastique ou jubilatoire que tant d‟“historiens” ont adopté pour parler, par exemple, des années quarante, de la cour de Vichy, ou de la vie quotidienne à Paris».

161 L‟inevitabile impressione che spesso si ricava è quella di un certo giustificazionismo, forse non volontario,

ma non per questo da accettare acriticamente. Cfr., ad esempio, ibid., p. 29: «Les années Trente sont encore difficiles à comprendre aujourd‟hui Ŕ car on n‟en connaît surtout les manifestations explicites, extérieures, sans arriver à bien déceler les mécanismes qui les régissaient ; elles étaient largement opaques pour beaucoup d‟intellectuels d‟alors. […] Qui comprend bien son temps? Comment savoir la vérité et qu‟est-ce qui pousse à

vouloir savoir la vérité ? Pourquoi des littérateurs, des journalistes, de rares écrivains se croient-ils détenteurs

d‟une autorité permettant de parler de tout, de donner des leçons et pensent-ils avoir la capacité de juger le problème ? Pour ma part, je souscris à des propos récents de Claude Lévi-Strauss : “Au XIXe siècle, certains intellectuels vivaient encore sur une tradition qui remonte à Voltaire. Un Victor Hugo pouvait se croire capable de juger tous les problèmes du temps. Je ne crois plus cela possible”».

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conduttore che fornisca di un senso progettuale la scrittura blanchotiana,163 afflitta da una letterale schizofrenia, di contenuti e di linguaggi:

Maurice Blanchot sentait-il le vide de sa pensée politique furieuse ? J‟ai parlé tout à l‟heure d‟homme double : en même temps qu‟il écrivait ses papiers politiques, il tenait une critique littéraire souvent sereine, approfondie, ayant peu de rapport avec ses passions politiques ; ainsi il lit avec attention Rilke (25 août 1937), Virginia Woolf (29 septembre 1937), Thomas Mann (14 avril 1937), Bernanos (16 juin 1937). Parfois, pourtant, il soutient, admire, célèbre Drieu, Maurras, Massis. Maurras, il faut le rappeler, était souvent reconnu comme écrivain dans de nombreux milieux ; les dithyrambes de Blanchot ne sont donc pas étranges. Mais son ton est étrange, comme est étrange ce qu‟il découvre dans la pensée de Maurras. […] La dévotion que Maurice Blanchot témoigne pour L’Honneur de servir, d‟Henri Massis, est encore plus bizarre. […] les ouvrages qui seront jugés dans cette rubrique [le Lectures de l’Insurgé] seront des ouvrages ayant «l‟aptitude de correspondre au plus grand destin où nous nous efforçons et même de le devancer». Il paraît fort difficile de conclure que les ouvrages jugés par Blanchot rentrent dans cette catégorie, quand il s‟agit de Maurras, Massis, ou Drieu, ou Chardonne.164

La difficoltà dell‟interprete sta dunque nel riconoscimento di un duplice “bilinguismo”, la compresenza nel giovane Blanchot di un delirio politico violentemente svuotato di senso e una riflessione letteraria serena e profonda, a sua volta divisa da un discutibile gusto critico, amante dei massimi campioni della letteratura internazionale come di quella nazionalistica. Ma ciò che, come vedremo in seguito, tiene insieme nella critica di Blanchot Maurras e Virginia Woolf, Massis e Thomas Mann, è proprio un‟idea di letteratura non dissociabile da un progetto rivoluzionario, da una rivoluzione, politica e spirituale, che consista nella stessa operazione con cui il poeta domina la materia del mondo, del linguaggio e del proprio stesso io, per dare vita alla perfezione dell‟opera. Si spiega in tal senso la permanenza, nel discorso blanchotiano e della Jeune Droite, di un ideale prometeico, armonico e classicista (Maurras) all‟interno della volontà di distruggere e rivoluzionare l‟esistente, espressione di un‟esigenza non negoziabile, ma che si rivelerà infine incompatibile, nella teoria e nella pratica, con il loro progetto rivoluzionario. L‟unico bilinguismo sarà Ŕ indecisione mortale, per la Jeune Droite Ŕ l‟incapacità di trovare una coniugazione che non sia controrivoluzionaria per un anelito sinceramente e concretamente rivoluzionario: contraddizione che, più che attraversare sia la politica che la letteratura, è dovuta alla loro unione preliminare nel mito impossibile di una congiunzione di Violenza e Intelligenza, di distruzione rivoluzionaria e classicismo prometeico.

Gli studi di Leslie Hill e Jeannine Verdés-Leroux sono due ottimi esempi di come recentemente il dibattito sul giovane Blanchot e il non-conformismo degli anni Trenta sia decisamente evoluto, in termini qualitativi, e verso quali direzioni. Anche in termini quantitativi il progresso è stato visibile: è ormai improponibile, pertanto, un inventario esaustivo e dettagliato di tutti gli studi dedicati al giovane Blanchot, che negli ultimi anni si sono moltiplicati esponenzialmente. Se l‟interesse e la passione degli studiosi nei confronti di tale questione sono indubbiamente un segnale positivo, ciò non sempre è coinciso, come è comprensibile, con un miglioramento in termini assoluti del dibattito in corso. Negli ultimi anni, anzi, non diversamente che in altre epoche, sembra talvolta che non esistano, che non esistano ancora le condizioni per affrontare con la necessaria serenità ermeneutica la questione della scrittura politica e critico-letteraria del giovane Blanchot. Il dibattito sui suoi anni Trenta è stato sempre all‟insegna di una tensione attualizzante: nulla di sorprendente, o di invalidante per la comprensione dell‟oggetto dell‟analisi, se non quando questo si è

163 Oltre a sembrarne, a volte, l‟apologia. Anche in questo caso, la nostra impressione è che il velleitarismo

dilettantesco di Blanchot, Maulnier e soci si configuri come un‟implicita giustificazione, come se una “scusabilità” del loro progetto politico dipendesse dal fatto che esso è fallito. Si tratta, lo ripetiamo, solo di una nostra impressione; tuttavia, ciò non toglie che se in fondo Blanchot e Maulnier non sono catalogabili come “fascisti” è per delle ragioni più complesse e sostanziali di quelle presentate qui dalla Verdès-Leroux.

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trasformato in mero strumento di un interesse rivolto altrove, quando la ricerca è servita non a comprendere ma esclusivamente a costruire postulati per future dimostrazioni. Non ha aiutato nemmeno il fatto che, in maniera troppo rapida, da argomento scomodo, difficile, la questione si sia trasformata in argomento troppo “facile”, a volte in una pietra dello scandalo da scagliare in maniera meramente esibizionistica, senza nessun altro scopo che il desiderio di dissacrare brutalmente ciò che sino ad allora era velato da una altrettanto morbosa sacralità. Il genio pallido della letteratura è diventato sin troppo visibile: che tabù dell‟immagine e iconoclastia siano due facce della stessa medaglia è, d‟altronde, sin troppo facile da comprendere. Uno degli ultimi effetti della complicata storia della scoperta del passato di Blanchot è stato Ŕ amara ironia Ŕ che il suo discutibile giornalismo degli anni Trenta è diventato fatalmente preda del giornalismo dei nostri tempi, a volte non meno discutibile:165 ulteriore (ma, in questo caso, desolante) esempio della maledizione del “mimetismo”, l‟aderenza al suo stile a cui la lettura di Blanchot sembra costringere il suo interprete, ineluttabilmente, anche quando questi cerchi di smarcarsene, come se non possa scrivere di lui se non scrivendo come lui.166

Da un certo punto di vista, dunque, il moltiplicarsi di studi sul giovane Blanchot ha anzi nuociuto alla possibilità di una comprensione complessiva del suo percorso politico e culturale, soprattutto quando, proprio in nome della riscoperta della globalità di questo itinerario, si è proceduto con un‟enfasi velenosamente inquisitoria: ottenendo in tal modo invece che la rivelazione della verità, l‟effetto opposto, una maggiore oscurità, effetto inevitabile quando si cerca di accecare il lettore con il fascino dello scandalo. Un esempio, in tal senso, è costituito da Maurice Blanchot. Le sujet de l’engagement; il lavoro del 1996 di Philippe Mesnard si pone, come abbiamo già accennato, sostanzialmente nella scia della prospettiva inaugurata da Mehlman,167 preoccupandosi solo di “riverniciarla” con un vocabolario filosoficamente più raffinato. Ma l‟idea che l‟intera parabola della scrittura blanchotiana del dopoguerra sia dettata da una dialectique de l’oubli,168 che un senso di colpa latente nei confronti dell‟ebraismo determini l‟esistenza stessa di tutta la sua riflessione post-

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Per alcuni esempi di un interesse “scandalistico” della stampa per la vita di Blanchot, cfr. Christophe Bident,

Maurice Blanchot partenaire invisible, cit., pp. 535-536. Come esempio, invece, di “sbrigative” recensioni

giornalistiche alla sua opera, non molto interessate a una ricostruzione precisa del suo percorso politico, cfr. Fabrice Adjadj, Faut-il blanchir Blanchot?, «Le Figaro littéraire», 25 octobre 2007. Oppure, la reazione della stampa, nel 1996, in seguito all‟affaire con il suo editore, Bruno Roy, dovuto alla sua scelta di pubblicare per Fata Morgana un testo di Alain de Benoist, teorico dell‟estrema destra, antisemita e vicino al Front nationale:

cfr. Christophe Bident, Maurice Blanchot partenaire invisible, cit., p. 573n: « Le 2 septembre, il [Blanchot] écrit

à Bruno Roy une lettre par laquelle il dénonce l‟antisémitisme de Benoist et annonce sa rupture avece les éditions: “du moins aussi longtemps que vous ne l‟aurez pas rayé de votre catalogue, et retiré de la vente”. À cette lettre en forme d‟ultimatum, Bruno Roy répond par une menace de chantage : rappeler les textes politiques