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R IGENERAZIONE E PREVENZIONE NELLA CONCEZIONE SISTEMICA

DIMENSIONE COLLOCAZIONE

2.1.4 R IGENERAZIONE E PREVENZIONE NELLA CONCEZIONE SISTEMICA

Lia Marchi, Roberto Pennacchio∗∗, Francesca Thiébat∗∗∗

I sistemi complessi e i sistemi edilizi

Negli ultimi decenni, le nostre città e le comunità in esse insediate hanno sof- ferto l’effetto di forti trasformazioni di origine ambientale, economica e sociale per cui i sistemi antropizzati sono sempre più spesso chiamati a gestire partico- lari condizioni di incertezza e di indeterminatezza.

In questo quadro, l’ambiente costruito non è solo oggetto di perturbazioni, ma è da considerare esso stesso come fattore che genera fragilità e che, in molti casi, ha contribuito a mandare in crisi assetti naturali, equilibrati e stabili. Infat- ti, il consumo di suolo, lo spreco di risorse naturali e l’aumento di emissioni inquinanti, sono solo alcuni dei molteplici agenti perturbanti gli ecosistemi na- turali, in larga parte imputabili agli insediamenti umani (Saporiti et al., 2012).

A ciò si aggiungono fattori di criticità di origine e natura prevalentemente sociale: la ormai decennale crisi socio-economica ha fatto registrare un espo- nenziale aumento della vulnerabilità di alcune fasce, come bambini e anziani, in relazione all’aumento della povertà (Saporiti et al., 2012), e l’intensificarsi dei fenomeni migratori ha condotto a profonde e continue trasformazioni della cul- tura dell’abitare.

Per trovare risposte efficaci a un problema tanto complesso, le tendenze in atto puntano a incrementare la resilienza dei sistemi, e a migliorare la loro ca- pacità di affrontare eventi distruttivi o quantomeno a limitarne gli effetti; ma anche a mettere in campo azioni di tipo preventivo. Così, i principi di resilienza si sono rapidamente diffusi in letteratura e nella progettazione urbanistica (Sha- rifi and Yamagata, 2014). Ma alla scala architettonica, come può il progetto tecnologico - sia esso applicato a nuove costruzioni o al patrimonio edilizio esi- stente - incrementare la resilienza dell’ambiente costruito?

Prima ancora di capire quali strategie attuare, è necessario individuare i fat-

Lia Marchi è dottoranda di ricerca presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di

Bologna.

∗∗ Roberto Pennacchio è assegnista di ricerca post-doc presso il Dipartimento di Architettura e

Design del Politecnico di Torino.

∗∗∗ Francesca Thiébat è assegnista di ricerca post-doc presso il Dipartimento di Architettura e De-

tori di criticità che caratterizzano i sistemi edilizi, poiché solo conoscendone le fragilità gli interventi potranno essere incisivi (Lucarelli et al., 2017) ed effica- ci. In termini generali, a scala di edificio, le vulnerabilità registrabili possono essere classificate secondo almeno due famiglie principali:

- criticità spaziali, che interessano la incapacità dei sistemi ambientali di esse- re adattati nel tempo per ospitare funzioni diverse con esigenze d’uso diverse; - criticità tecnologiche, per cui l’edificio o il componente non possono essere

adattati per soddisfare nuove esigenze di matrice umana.

Su questa base, le strategie progettuali per gestire la trasformazione dell’ambiente costruito dovranno essere calibrate per sostenere le trasformazio- ni dei sistemi antropici, tenendo conto della loro crescente instabilità, del veri- ficarsi di eventi acuti (urgenza) ed eventi cronici (prevenzione), nonché della connessione tra i sistemi e le scale su cui tali situazioni producono effetti (Who- ley, 2015).

Elementi di novità nella trasformazione dei sistemi costruiti

I recenti fenomeni che hanno colpito il territorio nazionale (terremoti, alluvioni, così come intensi flussi migratori) hanno mostrato la difficoltà dell’approccio progettuale tradizionale di tipo causale-deterministico, a rispondere in maniera tempestiva ed efficace al cambiamento. Perciò le modalità operative richieste per governare le trasformazioni dell’ambiente costruito, a scala tecnologica, si stanno orientando verso sistemi in grado di integrare nella progettazione princi- pi di resilienza. Tuttavia, questa nuova concezione non implica soluzioni pre- confezionate e stabilite a priori, ma richiede un atteggiamento flessibile, capace di generare adattamento rispetto alle condizioni particolari del contesto, sia fisi- co che spaziale (Wholey, 2015), dal momento che non si può progettare una reazione specifica a un’azione incognita. Un’analisi condotta su oltre 100 città (The Rockefeller Foundation, 2014), dimostra infatti che la resilienza si misura a seconda del contesto e delle sue priorità. Perciò, le strategie e i dispositivi da adottare per gestire la trasformazione del costruito saranno efficaci solo se adat- tabili e personalizzabili caso per caso.

Dunque si rende necessario un approccio progettuale integrato, su più livelli e in grado di coinvolgere i diversi stakeholder locali, permettendo loro di far fronte rapidamente ai cambiamenti circostanziali. Occorre cioè fortificare l’autonomia e la capacità delle comunità di sfruttare risorse e tecnologie del luogo, attraverso sistemi flessibili e adattabili alla variabilità introdotta dal fat- tore tempo. Sia attraverso una gestione ex-ante, di prevenzione, sia ex-post, di urgenza.

Perciò, le modalità operative di gestione del patrimonio edilizio necessitano di una robusta indagine conoscitiva sul contesto, per individuare “l’attitudine alla resilienza” dei sistemi edilizi, valutarne il livello di adattabilità/flessibilità e

quindi proporre azioni correttive, a partire da ciò di cui si dispone. Quindi, l’analisi dei fattori di criticità può essere utile per definire una matrice valutati- va e propositiva a supporto delle trasformazioni dell’ambiente costruito, in gra- do di regolare e al contempo promuovere atteggiamenti “resilienti” del sistema, cioè agire secondo la logica del “miglior compromesso”.

In quest’ottica, la sempre più frequente integrazione dei principi di resilien- za nei rating systems (RS) di sostenibilità, intesi sia come mezzi valutativi che come strumenti progettuali aperti, sembra una risposta idonea per gestire la complessità dei sistemi edilizi. Infatti, alcuni studi e dispositivi recentemente sviluppati negli U.S.A. si stanno orientando in tale direzione.

È il caso dell’“US Resiliency Council®” (USRC), fondato con l’intento di promuovere lo sviluppo di RS che valutano il comportamento resiliente degli edifici in caso di eventi estremi e facilitino l’applicazione delle migliori prati- che e degli standard tecnici da parte di tutti gli stakeholder (quali proprietari, affittuari, comunità). In questo quadro, la divisione di ricerca interna ad Arup ha sviluppato il protocollo “Resilience-based Design Initiative” (REDi™), per valutare la resilienza dei sistemi edilizi in caso di terremoto, e attualmente è impegnata nell’adattamento del dispositivo sviluppato ad altre catastrofi natura- li, come le alluvioni. L’obiettivo di questi protocolli è diffondere la consapevo- lezza dei possibili danni derivanti dalle condizioni di fragilità e indeterminatez- za dei sistemi antropici, quindi valutare il livello di criticità e problematicità cui un edificio è potenzialmente sottoposto, e fornire un repertorio di criteri e indi- cazioni utili a incrementarne la resilienza in situazioni di urgenza (ridurre i danni economici e attivare rapidi tempi di recupero a disastro avvenuto), ma anche di prevenzione.

Un analogo protocollo di certificazione è RELi (Wholey, 2015), strumento utile ai progettisti per realizzare edifici in grado di resistere a calamità naturali e cambiamenti climatici. La certificazione, sviluppata dallo studio Perkins+Will in collaborazione con l’Università del Minnesota (Wholey, 2015), ha l’ambizioso obiettivo di integrare e completare due dei più diffusi RS america- ni, LEED e l’ “Institute for Sustainable Infrastructure’s Envision program”, de- finendo le caratteristiche di resilienza degli edifici e associando possibili azioni di prevenzione o di mitigazione dei danni, a seconda delle situazioni. In aggiun- ta, i ricercatori hanno dimostrato che integrare principi e strategie resilienti nel- la progettazione o rigenerazione degli ambienti costruiti, comporta, sul lungo periodo, anche vantaggi economici.

La ricerca della resilienza per azioni preventive e correttive efficaci

Una delle maggiori sfide della comunità internazionale del nostro tempo è il rinnovamento delle strategie di ristrutturazione urbana e sociale in contesti fra- gili. Negli ultimi due decenni infatti più di 220 persone sono state colpite, ogni

anno, da catastrofi naturali che hanno causato sia la perdita di vite umane e la distruzione di infrastrutture economiche e sociali, sia il grave danneggiamento di ecosistemi naturali. Diversi programmi internazionali hanno affrontato il problema dell’emergenza cercando nuove metodologie e piani di azione per prevenire e affrontare catastrofi naturali.

L’approccio per la ricerca o il conferimento dei requisiti di resilienza appli- cato a situazioni di crisi può contribuire non solo a ridurre i danni procurati da calamità naturali, ma anche al miglioramento della capacità di ripristino dei si- stemi. Le misure ordinarie di riduzione del rischio tendono spesso a concentrar- si su un’emergenza specifica, tralasciando pericoli e vulnerabilità provocati da altri fattori, mentre l'approccio in questione consente di considerare diversi li- velli di rischio.

Il gruppo di lavoro UN-Habitat delle Nazioni Unite (United Nations Centre for Human Settlements), attivo dagli anni 70 per promuovere lo sviluppo soste- nibile delle città e delle persone, ha recentemente istituito il “City Resilience Profiling Programme” (CRPP). Tale programma intende sostenere i governi locali per implementare e potenziare le proprietà di resilienza degli ambienti antropizzati, attraverso lo sviluppo di un approccio completo e integrato di pia- nificazione e di gestione urbana, e, al contempo, attraverso la definizione di strumenti per misurare e definire il livello di resilienza urbana per ogni tipo di rischio. In particolare gli obiettivi raggiunti finora sono:

- ricerca e definizione del quadro operativo: indagare sui sistemi di urbanistica attuali, mappare i rischi esistenti e le tecniche di mitigazione e sviluppare un modello di sistema urbano che sia adattabile a qualsiasi insediamento uma- no;

- definizione del profilo: definire un set di indicatori e standard per regolare e calibrare la capacità dei sistemi urbani in fase di crisi e mettere a punto un insieme di profili di resilienza da verificare su alcune città pilota;

- sviluppo di strumenti e software: sviluppare un'interfaccia software per i pro- fessionisti per sviluppare i profili di resilienza urbana;

- definizione del quadro normativo: definire standard globali per la resilienza urbana e un nuovo quadro normativo per il monitoraggio dei sistemi urbani a livello globale.

Gli stessi obiettivi sono oggetto di altre iniziative che promuovono metodo- logie e politiche per prevenire e affrontare condizioni di emergenza. In America il Research Resilient Institute ha promosso l’adozione da parte del sistema di valutazione LEED di tre indicatori pilota da considerare in fase di progettazio- ne. I tre crediti pilota sono stati elaborati per garantire che già durante le prime fasi di progetto si possano tenere in considerazione gli aspetti legati alla vulne- rabilità del costruito in relazione ai fattori di rischio, come ad esempio la fun- zionalità dell’edificio in caso di interruzione a lungo termine dell’energia elet- trica o del combustibile per la climatizzazione (Wilson, 2015).

al progetto dell’emergenza secondo un approccio di tipo resiliente (tecniche di prevenzione da utilizzare), mentre la finalità del terzo indicatore è quella di ga- rantire che gli edifici mantengano la loro funzionalità, incluso l’accesso all’acqua potabile, in caso di interruzione di corrente prolungata o mancanza di energia.

Da diverse decadi enti e gruppi di lavoro internazionali composti da ricerca- tori, associazioni no profit, governi e altri soggetti si stanno muovendo per in- dividuare i fattori di criticità e le strategie da adottare in situazioni di crisi. A livello architettonico, il gruppo di lavoro Architecture & Renewable Energy Sources (ARES) dell’Union Internationale des Architectes (UIA) ha invitato architetti e ricercatori a sviluppare una metodologia progettuale adattabile a di- versi contesti per prevenire e intervenire in caso di emergenza ambientale.

Dai risultati ottenuti sono emersi alcuni fattori di criticità riconducibili in particolare al luogo e al fattore tempo. Nel progettare e pianificare soluzioni efficaci ci si trova di fronte, da una parte, all’impossibilità di conoscere a priori il luogo dove il disastro colpirà, dall’altra, alla necessità di aver pronta in breve tempo una soluzione che deve essere universale al fine di rispondere alle pro- blematiche climatiche e di confrontarsi con le tematiche sociali e culturali.

Formulare una risposta progettuale, facendo ricorso a materiali e tecnologie innovativi per fronteggiare le situazioni estreme del più ampio spettro di condi- zioni climatiche e luoghi di intervento potrebbe sembrare la scelta migliore. Esistono decine di esempi di rifugi studiati nel dettaglio, prodotti industrial- mente, leggeri, efficienti nell’isolamento. Tuttavia, difficilmente si sono rivelati un successo. Spesso sono arrivati troppo tardi sul sito o le popolazioni colpite li hanno trovati culturalmente inadeguati. Il principale problema di questo tipo di interventi, è legato agli enormi costi di trasporto di materiali e prodotti impiega- ti, alle difficoltà di fruizione di una tecnologia completamente aliena alle utenze “per le quali è stata studiata” e alle enormi difficoltà di manutenzione e gestio- ne, sia sotto l'aspetto tecnologico, che sotto quello economico. Soprattutto con- siderando che molto spesso o quasi sempre, insediamenti nati in seguito a even- ti catastrofici e pensati per essere temporanei, finiscono per durare decine di anni, quando non divenire del tutto permanenti. Un esempio è quello delle strutture progettate dalla Croce Rossa e dalla Bayer negli anni 70. Quando un terremoto colpì in Nicaragua, vennero prodotti 500 rifugi. Per quanto il tempo di assemblaggio richiedesse soltanto 2 ore per ogni unità, essi arrivarono solo 5 mesi dopo il disastro. Ne furono utilizzati solamente il 45%: la popolazione aveva già ricostruito la propria casa o li reputava inappropriati rispetto alla pro- pria cultura (Davis and Alexander, 2016).

Tuttavia, l’applicazione tout-court di soluzioni low-tech, basate su materiali e tecnologie locali, spesso non riesce a soddisfare le esigenze di abitazioni ade- guate in situazioni di emergenza, specie in tempi ridotti e in condizioni climati- che estreme. Se da un lato è vero che tecnologie elementari locali possono co- stituire la risposta per ragioni pratiche e culturali, l’integrazione di tali tecnolo-

gie con strumenti e componenti universali è preferibile al fine di ottenere un processo di produzione che possa essere applicato velocemente nel più ampio ventaglio di situazioni.

Proporre una soluzione efficace è quindi un lavoro finalizzato a tenere in- sieme gli estremi, trovando un compromesso tra l’high-tech e il low-tech, l’universale e il particolare, il materiale locale e le tecnologie innovative facil- mente trasportabili, considerando il fatto che si dovrebbe operare secondo la logica della sufficienza e non della soluzione ideale.

Una metodologia da adottare potrebbe essere coniugare materiali tipici del luogo con un kit di componenti (ad es. elementi di fissaggio reversibili, isola- mento termico, ecc.) e attrezzi (strumenti da carpentiere, ecc.) per facilitare e velocizzare la lavorazione di tali materiali e la costruzione degli edifici low-

tech1. Ogni gruppo/insediamento di unità abitative low-tech, può essere affian-

cato da un’unità mobile di emergenza high-tech, trasportata sull’area del disa- stro a supporto del nuovo insediamento. Produzione, trasformazione e stoccag- gio di energia e acqua, nonché un laboratorio che può offrire attrezzi e know-

how utili al processo di autocostruzione, in cui personale specializzato si mette

al servizio delle comunità colpite, con competenze tecniche e linee guida pro- gettuali (Thiebat et al., 2008).

In questa ipotesi, le soluzioni tecnologiche possono essere molto varie2

(mentre alcune non sono in grado di soddisfare i requisiti imprescindibili di adattabilità e partecipazione, altre sembrano riconducibili all’approccio siste- mico della resilienza) e portano a confrontarsi con alcuni criteri operativi, tra cui:

- la valutazione del rischio in funzione del luogo e della disponibilità di risorse in termini di energia, di materiali ed economiche;

- la disponibilità locale dei materiali da costruzione;

- l’autosufficienza energetica per un numero di giorni predefinito creando si- stemi di produzione e stoccaggio;

- la disponibilità di acqua potabile creando sistemi di raccolta, depurazione e stoccaggio;

- il coinvolgimento delle popolazioni interessate dall’evento calamitoso nella realizzazione delle abitazioni e dei servizi;

- il funzionamento passivo dell’edificio per garantire un livello di comfort ambientale adattativo (la comfort zone si estende per garantire una livability

zone);

- il coinvolgimento di esperti e fornitura di sistemi tecnologici innovativi (fa- cilmente e velocemente trasportabili) per ottimizzare le operazioni di costru- zione e gestione.

1 Cfr. metodologia proposta da PAT in risposta al programma ARES dell’UIA per affrontare

l’emergenza abitativa in caso di catastrofe naturale in Nicaragua, che si fonda su tale approccio (Thiebat et al., 2008).

La resilienza nella progettazione in contesti in via di sviluppo

Nonostante la ricerca sul tema della resilienza applicata alla progettazione ar- chitettonica e tecnologica, si stia concentrando prevalentemente su contesti ur- bani, caratterizzati velocità di trasformazione alte, anche gli ambienti rurali, spesso fortemente isolati in termini di infrastrutture, in particolar modo se in via di sviluppo, e che presentano ritmi di rinnovamento più lenti, risultano partico- larmente vulnerabili alle minacce poste dal cambiamento climatico e, anzi, maggiormente esposti alle conseguenze distruttive di eventi disastrosi che pos- sono metterne a repentaglio la stessa sopravvivenza.

La crescita della domanda di materie prime e di prodotti alimentari, l’aumento della difficoltà di accesso all’acqua, hanno già tuttora - e la tendenza sembra essere esponenzialmente in crescita per il futuro - un forte impatto sulle comunità rurali, in genere fortemente legate e dipendenti dal proprio territorio e dal proprio ecosistema di riferimento (World Resources Institute, 2008). In realtà di questo tipo, sistema economico, strutture socio-culturali, attività e rit- mi di vita, sono strettamente interconnessi e dipendono marcatamente dai carat- teri distintivi del territorio, dall’alternarsi delle stagioni e dalle disponibilità e dall’accessibilità di risorse naturali e materie prime. Tali caratteristiche rendono queste comunità particolarmente vulnerabili ai cambiamenti soprattutto quando le risorse naturali a disposizione sono scarse o poco differenziate; Folke (Folke at al., 2006) sottolinea come la ridondanza, o, meglio ancora, la diversità di mezzi disponibili contribuiscano in modo sostanziale a determinare la capacità resiliente delle comunità ai disastri.

Le definizioni di resilienza reactive bounce-back, proposte a partire dagli anni 70 fino al 2008 circa, sono state recentemente messe in discussione dalla ricerca internazionale, attraverso un nuovo approccio, definito proactive human

agency. Questo nuovo approccio non si limita al tentativo di prevenire singoli

episodici eventi disastrosi ma è teso piuttosto a costruire abilità e capacità in- terne, attraverso un atteggiamento proattivo delle comunità, che permetta di sintetizzare nuove conoscenze provenienti da diverse fonti con le risorse e le potenzialità del territorio e della cultura locale, per adattarle a un contesto che si riconosce in continuo cambiamento (Skerratt, 2013).

Questo dovrebbe consentire il rafforzamento di abilità che permettano una maggiore e trasversale capacità di adattamento, in modo da rendere la società rurale, capace «di facilitare il processo di resilienza quando necessario» (Norris et al. 2008), in un’ottica di progressivo e continuo sviluppo resiliente che sfrutti a pieno le risorse a disposizione e che coinvolga nel processo diversi stakehol-

der e attori locali.

Berkes e Ross (2013) fanno notare inoltre, come la tendenza delle comunità stesse a realizzare progetti di sviluppo partecipati, che permettono di rafforzare la coesione sociale, e allo stesso tempo raggiungere risultati tangibili, come ad

esempio il miglioramento di infrastrutture, possa considerarsi come una forma strategica per la costruzione di resilienza.

L’obiettivo generale di questo approccio “proattivo” è quindi quello di forti- ficare l'autonomia e la capacità di sviluppo resiliente dei villaggi rurali sul lun- go periodo e a largo raggio, indipendentemente da episodi catastrofici e da si- tuazioni di emergenza.

Come va interpretato dunque un approccio in chiave resiliente alla progetta- zione di sistemi edilizi in contesti rurali in via di sviluppo, dove la maggior par- te degli edifici, specialmente abitativi, fanno riferimento a tecnologie vernaco- lari locali e le risorse disponibili sono limitate a quelle offerte dal territorio?

La maggior parte dei piani e delle linee guida sviluppati per il disaster ma-

nagement, riguardano strutture urbane. Gli stessi paradigmi espressi dai proto-

colli che stanno cercando di introdurre nuovi indicatori per la valutazione di principi di resilienza, nella progettazione edilizia e in casi di disastri, rischiano di essere difficilmente applicabili, in contesti in cui anche il riferimento a codici normativi locali risulta complicato, e i costi di costruzione di moderni sistemi edilizi, in grado di erogare risposte resilienti a potenziali eventi disastrosi, sono decisamente fuori dalla portata degli abitanti.

Secondo CRAterre (Garnier et al., 2013), i meccanismi più efficaci di adat- tamento ai disastri hanno profonde radici nelle culture costruttive locali, che, attraverso costanti e graduali modifiche derivate da un approccio trial and er-

ror, hanno subito un processo evolutivo che le ha portate a «un dinamismo con-

gruente con la struttura socio-economica contemporanea» (Gautam et al.,

2016) e ad incorporare caratteristiche resilienti a diverse tipologie di disastro.

Diversi studi recenti3 (Gautam et al. 2016; Schwarz et al. 2011) hanno pro-

vato a valutare il comportamento di tecnologie vernacolari a fronte di eventi