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«L’emergere di una giustizia penale internazionale segna il passo a una società più individualista, per la quale la vita di un uomo, indipendentemente dalla sua appartenenza nazionale, culturale o politica, ha enorme valore. Essa inaugura una nuova identificazione: non più nel corpo sacro del sovrano, bensì nel corpo sofferente della vittima. Dapprima le persone fisiche non appartenevano alla scala del diritto internazionale, che non conosceva altro che gli Stati. Gli imputati del tribunale della storia non potevano che essere Stati o nazioni, ossia dei gruppi politicamente organizzati. Ed ecco che sono sconfitti da una giurisdizione che, al contrario, non può che giudicare gli uomini, delle persone fisiche. L’apparizione di una giustizia penale internazionale segna la fine della supremazia della sovranità concepita come un’organizzazione gerarchica e simbolica. La sovranità si vede offuscata dal primato accordato alla dignità umana. L’unità del diritto internazionale non è più il corpo collettivo, ma la cellula, i corpi fisici; non più lo Stato, ma le persone; non più la materia, bensì l’atomo»115. La giustizia sarà tanto più credibile e rispettata quanto più saprà

valorizzare la specificità delle relazioni internazionali. Il ruolo della giustizia umanitaria non è quindi quello di sostituirsi a una sovranità fallita – sostituzione necessariamente imperfetta – ma di stimolarla. Lungi dall’umiliare la sovranità, la funzione della giustizia è quella di responsabilizzarla ingiungendole di non reiterare i propri errori. La società internazionale è infatti segnata dalla potenza, quale stato di natura a cui non ha mai rinunciato: come riservare un posto alla giustizia in tale contesto? In un mondo che, come noto, è caratterizzato dalla supremazia degli Stati Uniti? Forse armonizzando la responsabilità degli Stati e la responsabilità della potenza. La giustizia penale internazionale non va considerata un nuovo potere, ma il segno del riarticolarsi del potere verso un riferimento esterno e indisponibile: quello dei diritti umani. Essi «costituiscono il patrimonio comune da preservare come postulato normativo e da inscrivere nella storia»116. «Vengono sanciti sotto forma

115ANTOINE GARAPON, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, cit. pp. 84-85.

116MICHAËL FOESSEL, conferenza tenuta all’Insitut des Hautes Etudes sulla giustizia il 27 giugno 2000. Autore citato in ANTOINE GARAPON, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, cit. p. 272.

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di principi sempre sovraordinati rispetto alla formulazione giuridica positiva. È la sovranità a renderli effettivi e a iscriverli dunque nella storia. La sovranità, quale libertà e potenza, non è morta, ma subisce l’imposizione di componenti indisponibili.

Il diritto è la componente di effettività, e come tale imperfetta, che consente la realizzazione dell’esigenza di giustizia. Ed è inoltre ciò che limita la sovranità dandone una definizione. Mostra le sue origini, legifera sul suo esercizio e ne delinea i confini. Il diritto vive quindi una relazione polemica con la sovranità, poiché quest’ultima innanzitutto istituisce il potere di decidere senza condizionamenti da parte di un’istanza superiore (non vi è possibilità di appello)117.

Se il crimine contro l’umanità è stato definito come l’annullamento della società civile ad opera dello Stato, la giustizia ha la funzione di preservare le distanze fra la società civile e lo Stato, fra una comunità politica e la sovranità dello Stato. La giustizia non tocca direttamente la sovranità, ma ne sanziona l’uso criminale. Tutto si gioca, quindi, non in un rapporto di esclusione reciproca fra la sovranità e i diritti umani, ma nella necessità di pensare un nuovo rapporto. Il divieto di compiere crimini contro l’umanità deve essere analizzato come un’idea regolatrice – e non distruttrice – della sovranità, come un principio di separazione»118. La giustizia penale internazionale è caratterizzata, più di ogni altra forma di giustizia, dall’assenza di limiti dovuta al contesto internazionale in cui si muove, e da cui deriva una piena libertà dai contropoteri (politici) che qualsiasi autorità giudiziaria incontra sul piano interno. In nessun paese, nemmeno nei più liberali, la giustizia è del tutto indipendente. Un controllo da parte del potere politico viene sempre esercitato sulla magistratura, seguendo talvolta metodologie diverse a seconda delle culture giuridiche. Non vi è nulla di scioccante in questo, anzi sono le condizioni in forza delle quali la giustizia può contribuire a garantire i diritti muovendosi nell’ambito di un sistema democratico. In ragione di questo alcuni – a iniziare dall’amministrazione americana – dubitano dell’opportunità di lasciare delle questioni di politica internazionale della maggiore importanza alle valutazioni di una nuova casta di giuristi internazionali, privi di qualsiasi controllo democratico. Ecco perché nello statuto della CPI è previsto che il Consiglio di Sicurezza possa sospendere le inchieste per un anno rinnovabile sine die. Washington teme che la Corte penale internazionale offra una tribuna ulteriore a tutti coloro che intendono nuocere all’immagine degli Stati Uniti. Non si dimentichi che, proprio prima dell’11 settembre, si temeva la pietosa Conferenza di Durban119, in cui risultava evidente come anche le cause più nobili, su cui si

117FOESSEL, conferenza citata.

118ANTOINE GARAPON, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, cit. pp. 270-273.

119La conferenza mondiale del 2001 si è tenuta a Durban, in Sudafrica, dal 31 agosto all'8 settembre 2001, ed è stata intitolata "Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l'intolleranza". La conferenza ha occupato la maggior parte del tempo nella discussione del trattamento dei palestinesi da parte degli israeliani. Il 2001 è stato dominato da scontri nel Medio Oriente e dall'eredità della schiavitù e, in particolare, segnata

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attendeva un largo consenso, potessero essere manipolate a fini eminentemente politici. Sono numerosi gli antiamericani, gli antisraeliani o gli antioccidentali intenzionati ad approfittare di alcune occasioni ufficiali per portare avanti un progetto di dequalificazione politica. Ma, si risponderà, non è forse questo il prezzo della potenza? Ciò non impedisce che il successo della Corte dipenderà dal credito di cui godrà presso tutti, potenti e cittadini comuni, e che qualsiasi eccesso sarà pane benedetto per coloro che intendono dequalificare la giustizia penale internazionale in toto. L’immaginario democratico su cui poggia la giustizia penale internazionale si fonda su di un nuovo rapporto con la realtà, con la sofferenza e con l’universale.

La rappresentazione penale pone i nazionalisti o gli ideologi di ogni sorta di fronte ai danni che hanno provocato. L’utopia della giustizia universale rende evidente anche la sconfitta dei proclami politici: dà voce in capitolo alle vittime che hanno subito un progetto politico inneggiante alla violenza con simboli omicidari; questo è il tratto distintivo dei crimini contro l’umanità. Essa sarà tanto più forte quanto più saprà restare al suo posto e resistere alla tentazione di ampliare la propria competenza erigendosi a guardiano della moralità internazionale. La spirale dialettica non può che nuocere al progetto di questa giustizia, che deve impegnarsi a non confondere diritto e morale, giustizia e politica. La giustizia penale internazionale rappresenta una grande sfida e il suo ruolo non può che uscire rafforzato se riesce a offrire il suo apporto specifico in relazione a questioni estremamente attuali e fra loro connesse: il terrorismo e il crimine organizzato. I casi di terrorismo evidenziano la necessità di cooperazione internazionale, e in particolare dello scambio di informazioni, di unificazione delle incriminazioni e di coordinamento delle indagini. Tuttavia, la giustizia penale internazionale, come attualmente concepita, scrupolosa di giungere a un epilogo pacifico per i crimini di massa, non sembra adatta alla guerra attuale contro il terrorismo. È possibile immaginare un presidente americano che chiede a un procuratore – indipendente – di mettere sotto accusa questo o quel terrorista che ha sfidato l’integrità politica americana? La giustizia internazionale, nella sua forma attuale, può trovare applicazione solo in relazione a conflitti determinati e conclusi. Nei casi di terrorismo, il nemico non è né totalmente identificato né, a fortiori, può essere arrestato. La lotta contro il terrorismo e contro il crimine organizzato reclama una giustizia

da attacchi ad Israele e da manifestazioni anti-Israele parallelamente alla conferenza da parte di organizzazioni non governative. Gli Stati Uniti e Israele hanno abbandonato la conferenza per un progetto di risoluzione che accusava Israele di critiche e equiparava il sionismo - il movimento per creare e mantenere uno stato ebraico - al razzismo. Inoltre durante la conferenza, i paesi africani, guidati dalla Nigeria e dal Zimbabwe, e le organizzazioni non governative afro-americane, hanno chiesto scuse individuali da ogni nazione responsabile della schiavitù, il riconoscimento di essa come un crimine contro l'umanità e riparazione del crimine subito. Ciò che gli stati africani hanno ottenuto dagli europei è stato il sostegno per la New African Initiative, la riduzione del debito, i fondi per la lotta contro l'AIDS, il recupero dei fondi governativi trasferiti in Occidente da parte di ex dittatori, e la fine della tratta degli esseri umani. Ma la parola riparazione non è rimasta. Da: http://www.un.org/WCAR/durban.

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repressiva internazionale: l’obiettivo è di impedire alle reti terroristiche internazionali di nuocere,

nonché di prevenire efficacemente eventuali nuove minacce. Tale finalità puramente repressiva rivela, a contrario, la specificità del settore umanitario, nonché l’originalità della prospettiva ricostruttiva che sino ad oggi ha animato la giustizia penale internazionale. Di qui l’importanza di distinguere bene le sfere di competenza – nazionale o internazionale – e le forme di giustizia – repressiva o restauratrice. Vi è posto, sul piano internazionale, per una giustizia puramente repressiva e, allo stesso modo, assistiamo allo sviluppo di una giustizia ricostruttiva120 sul piano interno. Queste

giurisdizioni, che perseguono scopi ben distinti, devono svilupparsi in modo parallelo, con competenze precise, piuttosto che fondersi in un’unica grande giurisdizione dotata di competenza generale in materia penale121-122. Qual è, dunque, oggi, la vera identità del diritto penale internazionale, e in quale sfondo i precetti normativi che lo compongono si collocano nella prospettiva di diventare anello determinante di congiunzione nella dialettica interstatale fra i componenti di una società sopranazionale che, talvolta, tende a disarticolare i propri obiettivi di giustizia o, come suggerisce la semantica marinara, di navigare a vista? La domanda impone una ricostruzione storica puntuale che fornisca la chiave di lettura sulla effettiva capacità del diritto, oggi come ieri, di ricomporre le controversie internazionali o, meglio ancora, di fungere da efficace strumento per l’elaborazione, anche attraverso politiche punitive e ricostruttive, di crimini gravissimi commessi in danno di un’umanità sempre più al centro di conflitti di varia entità e natura. La risposta dovrà fornire anche l’ordine di grandezza attraverso il quale si misura, nel nostro tempo, la sua capacità (del diritto penale internazionale e delle sue articolazioni giudiziarie) di influenzare, indirizzare o impedire ai componenti della comunità internazionale degli Stati, e soprattutto a quelli che non ne riconoscono giuridicamente la forza, di agire arbitrariamente al di fuori delle sue regole. Perché, proprio per questi ultimi attori, per queste voci fuori dal coro, le prerogative di civiltà del diritto e la forza del suo altissimo valore tecnico-giuridico, impongono alle potenze statuali recalcitranti di architettare ed argomentare una deontologia politica che li tenga lontani e li protegga anche solo dai suoi potenziali effetti, a par loro negativi: il giudizio di condanna e la pubblica riprovazione internazionale.

Le ragioni che hanno determinato l’emergenza di nuove forme di politica del passato in età contemporanea vanno collocate nel contesto di un quadro internazionale che non è più quello eurocentrico degli stati sovrani stabilizzatosi nel sistema vestfaliano. «Alla fine delle guerre napoleoniche gli stati europei avevano restaurato l’ordine internazionale, cercando di ristabilire un

120ANTOINE GARAPON, FRÉDÉRIC GROS, THIERRY PECH, Et ce sera justice Punir en démocratie, Odile Jacob, Parigi 2001.

121In diritto, infatti, si distingue fra le giurisdizioni a cui viene attribuita una competenza limitata ad alcune questioni ben definite e quelle a cui si conferisce una competenza generale.

122ANTOINE GARAPON, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, cit., pp. 89, 257-261.

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equilibrio tra le potenze appellandosi a principi di legittimità e non a politiche punitive. Il principio di sovranità escludeva qualsiasi forma d’intervento esterno negli affari interni di uno stato ed escludeva che un conflitto internazionale si concludesse con un processo davanti a una corte di giustizia123. Il quadro nel frattempo è significativamente cambiato. Con il XX secolo, nel corso del

quale la logica della sovranità ha conosciuto estremizzazioni senza precedenti con esiti catastrofici, si sono messe in moto significative controtendenze. Gli stati a) hanno creato una serie di nuove corti internazionali e corpi quasi giudiziari; b) si sono impegnati in modo particolare a istituire e riconoscere tribunali indipendenti, non semplicemente arbitrati; c) hanno riconosciuto, spesso non formalmente, e in numero sempre maggiore, la giurisdizione di queste corti; d) vi hanno fatto ricorso in maniera crescente. La novità non è di scarso rilievo. La valutazione di questi sviluppi richiede tuttavia circospezione. Certo, essi possono a un primo esame apparire un’innovazione radicale, in quanto contraddicono la sovranità degli stati. In realtà, in una fase caratterizzata dalla riduzione contrattata e reciprocamente garantita delle funzioni di sovranità dei singoli stati e dall’edificazione di regimi di sovranità condivisa, l’esistenza di tribunali indipendenti costituisce in primo luogo una risorsa e una garanzia per gli stati. Le corti servono a stabilizzare la fiducia nei trattati e negli accordi cooperativi124. D’altro canto non si può dire che la proliferazione di nuovi tribunali e il nuovo protagonismo giudiziario abbiano portato a innovazioni strutturali nel sistema internazionale, dal momento che, per limitarsi alla considerazione dei due soggetti più rilevanti, la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia125 ha continuato a essere complessivamente lenta e piuttosto

123Cfr. HANS KELSEN, Il problema della sovranità, Giuffrè, Milano 1989. STEPHEN D. KRASNER, Sovereignty Organized

Hipocrisy, Princeton University Press, Princeton 1999. PIER PAOLO PORTINARO, Il labirinto delle istituzioni nella storia

europea, Il Mulino, Bologna 2007.

124Questo a patto, argomentano in molti che ci si guardi dal “trasporre in modo automatico il funzionamento della giustizia interna a livello internazionale, quasi a cancellare l’insormontabile ostacolo della sovranità degli stati, che resta la sola dimensione capace di coniugare la forza e il diritto”. La funzione della giustizia internazionale non è di negare la sovranità degli stati ma di “responsabilizzarla ingiungendole di non reiterare i propri errori” (ANTOINE GARAPON, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, cit., p. 257). La sua funzione rientra quindi nell’ambito della globalizzazione del principio di responsabilità, che accanto alla dimensione economica, ecologica, politica, ha necessariamente una componente penale. Nota a piè pagina n. 10 in PIER PAOLO PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, cit., p. 17.

125Organo giurisdizionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, elencato tra gli organi principali nell’art. 7, par. 1 della Carta dell’ONU. Ha sede all’Aia. Lo Statuto della Corte è annesso alla Carta delle Nazioni Unite. Tutti gli Stati membri dell’ONU sono pertanto aderenti allo Statuto della Corte, mentre gli Stati non membri dell’Organizzazione possono aderirvi alle condizioni stabilite, caso per caso, dall’Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza. La Corte è formata da 15 giudici, eletti, a prescindere dalla nazionalità, fra persone di alta levatura morale, che possiedano i requisiti richiesti nei rispettivi Stati per la nomina delle più alte cariche giudiziarie, o che siano giureconsulti di riconosciuta competenza. I giudici durano in carica 9 anni e sono rieleggibili. La composizione della Corte – che si rinnova per un terzo ogni 3 anni, con l’elezione di 5 giudici – deve assicurare la rappresentanza delle principali forme di civiltà e dei principali sistemi giuridici del mondo. I giudici devono svolgere le loro funzioni in modo indipendente e imparziale, e a tal fine godono dei privilegi e delle immunità diplomatiche. La Corte ha due competenze principali: competenza contenziosa, relativa alla soluzione di controversie internazionali, e competenza consultiva, per la formulazione di pareri richiesti dagli organi a ciò autorizzati. Per quanto concerne la competenza contenziosa, solo gli Stati possono essere parti nei processi, essendo escluse dalla giurisdizione della Corte le organizzazioni internazionali. La

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ininfluente sulle scelte della grande politica, mentre l’efficacia della Corte penale internazionale, il cui statuto non è stato sottoscritto dalle maggiori potenze imperiali (a cominciare dagli Stati Uniti), resta, per quanto si possa giudicare, dopo quindici anni circa di operatività, piuttosto limitata. Più tappe vanno tenute distinte nello scandire l’evoluzione del sistema internazionale in direzione di un nuovo assetto.

La prima, che si apre a Versailles con la messa sotto accusa della Germania additata come responsabile della Prima guerra mondiale, vede la nascita della società delle nazioni e del primo tribunale internazionale126 dotato di poteri non soltanto arbitrali. Il suo esito, però, è per varie ragioni fallimentare. Le condizioni per l’affermazione di una giurisdizione penale internazionale evidentemente non sussistevano ancora: accanto a norme primarie che vietavano determinati comportamenti, qualificandoli come crimini di guerra, le convenzioni esistenti non prevedevano ancora norme secondarie che disponessero concrete sanzioni penali. Si dovette pertanto far ricorso ancora a tribunali nazionali. Per quanto i processi di Lipsia sui crimini commessi da militari tedeschi nel corso del conflitto costituiscano un interessante laboratorio nella ricerca di una definizione giudiziaria del crimine di guerra, si trattò nel complesso di un fallimento, risultato deludente di quella che è stata definita “giustizia dei vinti in concessione”127. Le Corti internazionali permanenti della

competenza contenziosa della Corte è subordinata alla condizione che gli Stati parti di una controversia abbiano espressamente accettato la sua giurisdizione. La competenza consultiva della Corte internazionale di giustizia è disciplinata dall’art. 65 dello Statuto della Corte stessa e dall’art. 96 della Carta dell’ONU, che consentono all’Assemblea generale e al Consiglio di sicurezza di chiedere alla Corte un parere su qualsiasi questione giuridica, mentre gli altri organi delle Nazioni Unite e gli istituti specializzati delle Nazioni Unite possono chiedere pareri solo su questioni giuridiche che sorgono nell’ambito delle loro attività, previa autorizzazione dell’Assemblea generale. http://www.treccani.it/enciclopedia/corte-internazionale-di-giustizia/. Sulla Corte internazionale di giustizia è stato di recente proposto un bilancio piuttosto negativo, sottolineando la sua scarsa produttività, legata al fatto che gli stati frequentemente si rifiutano di sottomettersi alla sua giurisdizione o di dare esecuzione alle sue sentenze, e rilevandone quindi il declino, di cui si fornisce una spiegazione sia in termini geopolitici sia in termini istituzionali: i giudici per un verso appaiono alle grandi potenze troppo indipendenti e scarsamente sensibili ai loro interessi e alle loro funzioni di garanti dell’ordine planetario, per l’altro vengono dagli stati più deboli sospettati di essere non sufficientemente imparziali e troppo condizionati da una cultura giuridica comunque plasmata dagli interessi delle potenze occidentali: cfr. ERIC POSNER, The decline of the international Court of justice, in STEFAN VOIGT, MAX ALBERT and DIETER SCHMIDTCHEN (a cura di), International conflict resolution, Mohr Siebeck, Tubingen 2006, pp. 111-142; Id., The

perils of global legalism, The University of Chicago Press, Chicago 2009. Autori richiamati in PIER PAOLO PORTINARO, I

conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, cit., p. 18.

126In realtà, sia l’istituzione della Corte permanente di arbitrato durante la stagione delle conferenze di pace dell’Aja, sia le risoluzioni del trattato di Versailles, atto conclusivo della Prima guerra mondiale che tentò di mettere sul banco degli imputati il Kaiser Guglielmo II, insieme alla società delle nazioni, posero le basi, un po’ esili per la verità, per la costruzione di un organismo giudiziario internazionale; ma questo organismo, la Corte permanente di giustizia internazionale, era frutto di complessi e rigidi accordi – e di tormentate discussioni, dibattiti e dell’avvicendarsi di proposte da parte delle comunità intellettuali e accademiche europee nel corso di oltre sessant’anni – all’interno di una “comunità internazionale” che rispondeva alle esigenze più viscerali degli interessi politici gerarchici degli Stati». In LEONIDA TEDOLDI, La giustizia internazionale. Un profilo storico-politico dall’arbitrato alla Corte penale, cit., pp. 12-