• Non ci sono risultati.

L A VIOLENZA SENZA LIMITI DEL XX SECOLO TRA PROGRESSO TECNOLOGICO E RADICALIZZAZIONE IDENTITARIA

LA BRUTALITÀ INEDITA DEI CRIMINI “INTERNAZIONALI”: NATURA E CULTURA DELLA VIOLENZA SENZA LIMITI NEL

B. L A VIOLENZA SENZA LIMITI DEL XX SECOLO TRA PROGRESSO TECNOLOGICO E RADICALIZZAZIONE IDENTITARIA

Più di altri secoli, il Novecento è stato oggetto di molte definizioni assolute, quasi onnivore. Si tratta spesso di «etichette» che tendono a ricondurre la complessità di cento anni di storia difficile a un solo elemento, a un carattere per così dire specifico. Che il Novecento sia stato ricco di eventi straordinari è fuori dubbio. L’economia, la scienza, la tecnologia, la politica, i costumi sono solo alcuni settori nei quali si sono registrati cambiamenti (positivi o negativi) di portata epocale.

Quali di questi può assumere il ruolo di motore principale di quella che in una parola è per molti “la modernità”? In realtà, il problema di ogni definizione non è di stabilire gerarchie ma rintracciare il segno che possa racchiudere il senso di un secolo. La definizione di «secolo delle guerre» è, tra le varie proposte205, una delle più forti e calzanti ed è probabile che, questa percezione, sia stata fortemente condizionata da una sorta di terribile coincidenza geografica: i Balcani, come inizio e fine

204HANNAH ARENDT, Sulla violenza, cit., pp. 49-61.

205Cfr. ERIC J. HOBSBAWM, Il secolo breve, 1914-1991, (Il secolo: uno sguardo a volo di uccello – dodici giudizi sul ventesimo

77

di cento anni di violenza. Le soluzioni che il sistema vestfaliano206 e lo jus publicum europaeum207 si erano sforzati di offrire al problema della violenza – le chiare distinzioni tra pace e guerra, combattenti e non combattenti, neutrali e non neutrali – sono già tutte venute meno. Il sistema vestfaliano cadrà sotto i tremendi colpi di un evento bellico senza precedenti (la Prima guerra mondiale) che ingoierà al suo interno, come un’autentica «genizah208 della violenza», gran parte dell’impalcatura codicistica

e normativa dello jus in bello209.

La violenza del Novecento – e il Novecento è stato, come pochi altri, secolo di violenze – non ha conservato niente dell’impianto classico delle guerre (e delle concezioni della guerra) trascorse. Scompariva l’ideale romantico del guerriero, della lotta marziale tra uomini, per lasciare il posto a una scenografia dove i veri attori protagonisti erano le nuove tecnologie applicate agli armamenti. In questo sfondo gli uomini erano ridotti a merce e, proprio come qualsiasi altro materiale mobilitato al fronte, finivano in questa «turbìna alimentata dal sangue» che era la «terra di nessuno210». La «guerra civile europea» del Novecento è stata l’incarnazione più compiuta della guerra senza limiti: perché nessun limite è stato rispettato; perché il superamento dei limiti è stato giustificato e, non di rado, celebrato da milioni di individui e centinaia di intellettuali211. Le stime concernenti i morti, provocati dai conflitti novecenteschi variano a seconda delle fonti e vanno da un minimo di 100 fino a 107 milioni. Le due guerre mondiali hanno da sole contribuito per oltre metà. La prima guerra mondiale provocò la morte di 10 o 12 milioni di persone (per lo più militari); la seconda tra i 30 e i 50 milioni, gran parte dei quali civili. Sono cifre impressionanti alle quali va naturalmente accostato l’identico vertiginoso ritmo con cui è avanzato il progresso tecnico e tecnologico. L’elemento tecnologico è

206L’ordinamento politico giuridico moderno, classico, fu la ricerca di un argine all’epidemia della violenza senza limiti dei conflitti confessionali ed alla barbarie delle guerre civili di religione del medioevo. La definizione di «vestfaliano» non significa che la pace di Vestfalia (1648) sia l’origine del sistema interstatale, ma soltanto che attorno ad essa si addensarono i mutamenti politici e giuridici che lo produssero in un modo lento e discontinuo. La politica internazionale si organizzò essenzialmente come politica interstatale, per la stessa ragione per la quale la guerra riprese forma soltanto come guerra tra Stati. Il principio di sovranità si impose come il principio normativo fondamentale della politica internazionale moderna. Cfr. ALESSANDRO COLOMBO, La guerra ineguale. Pace e violenza

nel tramonto della società internazionale, cit., pp. 173-175.

207Il diritto internazionale moderno, come primo passo verso la limitazione della guerra. Gli Stati come unici titolari della piena legittimità internazionale, in quanto soggetti esclusivi dello ius publicum europaeum. Ibid., p. 177.

208Forma allegorica per descrivere la terribile vastità e profondità della violenza. La parola in ebraico significa «contenitore» o «tomba delle cose scritte». Lì dove i libri vanno quando muoiono, in un luogo buio e senza fine. Cfr. MATTHEW BATTLES, Biblioteche. Una storia inquieta, Carocci, Roma 2004, p. 153.

209Tradizione dottrinale che si sforza di fissare limiti morali o giuridici al modo in cui la guerra è condotta, persino nei casi in cui il ricorso a essa venga ritenuto moralmente o giuridicamente legittimo. Norme e regole dirette a impedire che i contendenti possano usare qualunque mezzo, in qualunque luogo e in qualunque momento contro chiunque. I principi e le norme dello jus in bello definiscono quello che, in termini archetipici, può essere definito il «codice cavalleresco» della guerra. In: ALESSANDRO COLOMBO, La guerra ineguale, cit., pp. 130-131.

210È utilizzato soprattutto per descrivere, nella prima guerra mondiale, l'area situata tra due trincee nemiche in cui nessuna delle due parti voleva muoversi apertamente o che nessuno voleva prendere per paura di essere attaccato dal nemico durante l'azione: con questo senso fu coniato il termine in lingua inglese no man's land.

78

dunque decisivo perché consente la moltiplicazione in termini assoluti delle vittime. Basterà ricordare un esempio tra i più significativi. Le battaglie più cruente della prima guerra mondiale (come quella della Somme212 con un milione di morti) lasciano sul campo un numero di vittime di gran lunga superiori a quelle dell’età napoleonica o, termine di raffronto ancora più pertinente, all’ultimo grande scontro dell’Ottocento, ovvero quello di Sedan213 dove persero la vita 26.000 uomini tra francesi e

tedeschi. Ma al di là degli aspetti quantitativi, è fondamentale accettare l’idea che il fattore tecnico e tecnologico ha prodotto forme di morte mai conosciute prima, caratterizzate dalla sistematicità e serialità. Tutte queste armi, con la loro capacità distruttiva, contribuiranno a realizzare quello che Barbara Bracco ha definito l’«annientamento industriale del corpo»214 e che non produrrà solo morti,

ma una quantità di feriti le cui gravissime mutilazioni e conseguenti menomazioni sopravanzeranno la fine stessa del conflitto. I campi di battaglia della Grande Guerra diventeranno una vera e propria fabbrica di morte con l’impiego dei nuovi mezzi di distruzione di massa e la scienza e la tecnologia diventeranno meri strumenti al servizio di un piano di annientamento dell’altro215. La civiltà europea

era capitalista nell’economia, liberale nella struttura istituzionale e giuridica, borghese nell’immagine caratteristica della classe che deteneva l’egemonia sociale. Era una società che si gloriava dei progressi della scienza, del sapere e dell’istruzione e che credeva nel progresso morale e materiale; era anche profondamente persuasa della centralità dell’Europa, luogo d’origine delle rivoluzioni nelle scienze, nelle arti, nella politica e nell’industria; la sua economia si era diffusa in tutto il mondo così come i suoi soldati avevano conquistato e assoggettato la maggior parte dei continenti. La popolazione europea (se si considerano gli ampi flussi migratori dall’Europa e i discendenti degli emigrati di origine europea) era cresciuta fino a formare un terzo della razza umana e i maggiori stati del continente europeo costituivano il sistema della politica mondiale216. E del Novecento, il 1914 è

l’anno simbolo dell’inizio di una lunga fase di guerre, violenze politiche, drammi sociali e crisi

212Offensiva intrapresa dagli Anglo-Francesi durante la Prima guerra mondiale nella zona della Francia attraversata dal fiume Somme (Piccardia) per porre termine all’azione tedesca su Verdun. L’attacco alleato, iniziato il 24 giugno 1916, si sviluppò su un fronte di 40 km dando luogo a una lunga e cruenta battaglia di logoramento durata fino al 26 novembre; le perdite complessive risultarono imponenti, superando il milione di uomini (410.000 Inglesi, 341.000 Francesi, circa 500.000 Tedeschi). In http://www.treccani.it/enciclopedia/battaglia-della-somme/.

213La battaglia di Sedan fu combattuta il 1° settembre 1870 fra l'armata francese di Châlons e le armate tedesche 3ª e 4ª durante la guerra franco-prussiana. È sicuramente fra le più importanti battaglie della storia, per le molte considerazioni di ordine strategico e tattico cui ha dato motivo e per le sue conseguenze politiche. L'esercito francese, dopo essere stato parzialmente battuto nelle regioni di confine (Alsazia e Lorena) durante le due prime settimane della campagna, tentava disperatamente di riprendere l'iniziativa delle operazioni e di riguadagnare spazio nella direzione della piazzaforte di Metz circondata dal nemico. Il tentativo fallì in modo disastroso. In http://www.treccani.it/enciclopedia/sedan.

214BARBARA BRACCO, La patria ferita. I corpi dei soldati italiani e la Grande Guerra, Giunti, Firenze-Milano 2012, p. 23. 215BARBARA BRACCO, il Novecento: guerre e rappresentazioni dell’orrore, in Marina Calloni (a cura di), Violenza senza legge.

Genocidi e crimini di guerra nell’età globale, Utet, Torino 2006, pp. 5-6.

216ERIC J. HOBSBAWM, Il secolo breve, 1914-1991, (Il secolo: uno sguardo a volo di uccello – dodici giudizi sul ventesimo

79

economiche che darà il via ad un periodo di lutti e distruzioni che si concluderà solo nel 1945 con una «guerra infinita in due atti» (1914-1918 e 1939-1945), di una «guerra dei trent’anni»217 resa particolarmente sanguinosa e devastante dallo sviluppo degli armamenti e dal coinvolgimento senza precedenti delle popolazioni civili218. Le società che usciranno dal primo conflitto mondiale saranno

non solo ferite profondamente da una guerra quant’altre mai distruttive e veramente “totale”, ma anche agitate da divisioni che separano e scavano, che solcano le collettività nazionali sino nei più remoti anfratti culturali e identitari219. Non sarà la fine dell’umanità, sebbene ci siano stati momenti

nel corso di quei trentun anni di conflitto mondiale che vanno dalla dichiarazione di guerra alla Serbia da parte dell’Austria il 28 Luglio 1914 alla resa senza condizioni del Giappone il 14 Agosto 1945 – otto giorni dopo lo scoppio della prima bomba atomica – in cui la fine di una gran parte del genere umano non sembrò lontana. Il grande edificio della civiltà ottocentesca crollerà tra le fiamme ed il fuoco delle armi e i suoi pilastri rovineranno al suolo.

Così, per quanti saranno cresciuti prima del 1914, il contrasto con il passato sarà estremamente drammatico e, molti di coloro che in quella generazione vissero nell’Europa centrale, si rifiuteranno di scorgere alcuna forma di continuità con esso. «Pace» significherà «gli anni precedenti il 1914»; dopo quella data verrà un’epoca che non meriterà mai più l’aggettivo di pacifica. Prima del 1914, per un secolo intero non c’era stata una guerra generale, cioè una guerra nella quale fossero coinvolte tutte le maggiori potenze, o almeno la maggior parte di esse. Non c’erano state guerre mondiali durante l’Ottocento. La cesura provocata dal conflitto 1914-1918, oltre ad avere una natura geopolitica ed economica, ebbe anche e soprattutto una sostanza mentale e culturale. A partire dal 1914 ci fu una netta regressione dei livelli di civiltà che venivano considerati normali nei paesi progrediti e nelle classi medie e che si credeva fiduciosamente avrebbero potuto diffondersi nelle aree più arretrate e tra gli strati meno illuminati della popolazione.

La prima guerra totale avrebbe interrotto e parzialmente vanificato il processo di civilizzazione umana proceduto sino ad allora, con un significativo ritorno al primitivismo – alla violenta istintività della natura umana – sia nel combattimento al fronte che nella vita politica del turbolento dopoguerra europeo, assimilata a una battaglia da concludersi con la sconfitta, talora l’eliminazione, del nemico. L’indifferenza verso la morte, l’abitudine alla violenza, la predisposizione al frequente ricorso alla

217CLAUDIO PAVONE, La guerra dei trent’anni, 1914-1945, in BRUNA MICHELETTI e PIER PAOLO POGGIO (a cura di), L’Italia in

guerra 1940-43, «Annali della Fondazione LUIGI MICHELETTI», 1990-91, n. 5, Brescia, 1992.

218LUCA BALDISSARA, Giudizio e castigo. La brutalizzazione della guerra e le contraddizioni della “giustizia politica”, in LUCA BALDISSARA e PAOLO PEZZINO (a cura di), Giudicare e punire. I processi per crimini di guerra tra diritto e politica, cit., pp. 7-8.

80

forza, l’esaltazione dell’autenticità della lotta contro l’artificiosità della civiltà moderna220: tali

sentimenti e rappresentazioni esprimeranno la brutalizzazione tanto della guerra stessa quanto della lotta politica, e costituiranno una fonte primaria dell’ideologia fascista (come poi di quella nazista) e della totalizzante cultura della guerra che si andrà manifestando, dove la nobiltà del combattimento cavalleresco lascerà via via spazio alla disumanizzazione e barbarizzazione del nemico, non solo da sconfiggere, ma da distruggere, annichilire, annientare221. E per limitarne gli effetti, gli europei, nei

primi decenni del ventesimo secolo, mobiliteranno tutte le risorse culturali significanti a disposizione che permettessero di rendere coerente e comprensibile l’esperienza stessa della guerra222.

Il Novecento, letto da molti come un secolo lungo, ma insieme brevissimo – è stato costellato da diversificate tipologie di conflitti armati e da intenti classificatori miranti a definire le diverse forme di violenza organizzata in rapporto allo sviluppo economico e tecnologico. L’uso di armi di distruzione di massa, la corsa agli armamenti nucleari, la contrapposizione ideologica, l’emergere di nuovi interessi finanziari, l’insorgere di nazionalismi e fondamentalismi, lo sterminio di intere popolazioni hanno in effetti contrassegnato l’evolversi di conflitti mondiali prima e delle guerre identitarie poi. Nelle nuove guerre l’identità e la ridefinizione sanguinaria delle appartenenze culturali sono diventate cruciali per l’affermazione di interessi miranti al controllo di risorse e di territori, nella commistione fra violenza pubblica e privata: da stupri e torture fino a genocidi e crimini contro l’umanità. Forme di bellicismo sofisticati (come ad esempio le cosiddette bombe intelligenti che hanno occupato la scena, in luogo delle deflagranti e ingombranti bombe atomiche) e complessi sistemi informatici si sono congiunti a forme di violenza «primitiva», privata, di genere, di sopraffazione dell’altro, divenuto il diverso, il nemico da punire e sopraffare. Quelli che erano stati i vicini di casa si trasformano in carnefici, uccidendo con macheti i loro conoscenti, come è accaduto in Rwanda. Ragazzi, educati in classi miste, diventano stupratori di donne della loro età, oltre che di altri uomini, nel disprezzo assoluto della dignità umana, così come è accaduto nella guerra della ex Jugoslavia. Ciò che si nota sono nuove forme congiunte di violenza privata e pubblica, come è anche accaduto per le torture e le sevizie sessuali nel carcere di Abu Grahib, dove l’immaginario pornografico dell’Occidente diventa manifestazione violenta della sopraffazione politico-militare, dell’abuso sessuale e del disprezzo dell’«altra» umanità. Genocidi e crimini di guerra continuano ad essere drammatiche realtà del nostro tempo, a persistere nonostante i «progressi» delle civiltà, le

220ERIC J. LEED, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1985.

221LUCA BALDISSARA, Giudizio e castigo, La brutalizzazione della guerra e le contraddizioni della “giustizia politica”, in LUCA BALDISSARA e PAOLO PEZZINO (a cura di), Giudicare e punire. I processi per crimini di guerra tra diritto e politica, cit., p. 31.

81

mobilitazioni della società civile per la pace, l’evoluzione del diritto internazionale umanitario e la centralità del discorso pubblico sui diritti umani. Nell’ondata di violenza globale che contraddistingue il Novecento non ci sono più leggi che tengano.

Le tradizionali norme che regolavano tanto lo jus ad bellum223 quanto lo jus in bello sono state

messe in discussione: da un lato il diritto internazionale, determinato dal rapporto fra Stati sovrani, sembra perdere i suoi connotati tradizionali nell’affermazione – ad esempio – di organismi para- militari; dall’altro le leggi della guerra, determinate da convenzioni adottate a livello internazionale, non soltanto vengono ripetutamente violate, ma sono difficilmente applicabili nei casi in cui non sono più solo i militari a subire violenze e dunque a dover essere tutelati, bensì sono i civili le maggiori vittime della violenza armata. Il corpo del nemico/della nemica non è più quello ricoperto dalla divisa militare, bensì quello vestito con abiti che denotano supposte caratteristiche identitarie. Diventa dunque ora alquanto difficile tracciare una netta distinzione tra combattenti e civili: tutti diventano potenziali partecipanti alla nuova guerra globale, dislocata su scenari imprevedibili, non immediatamente identificabile con campi di battaglia, reticolati o barriere: qualsiasi piazza può diventare un nuovo spazio di conflitto, quando diventa centro di attacchi o di attentati. In tal modo la violenza diventa amorfa in componenti e struttura: è indefinita e ubiqua, prevaricando i confini degli Stati sovrani224. Bisogna riflettere su questo punto perché è fondamentale comprendere il carattere del Novecento e non solo delle sue guerre. E ancora, e al di là dell’aspetto tecnologico, il secolo ha visto, dunque, la costruzione dell’identità, dell’immagine del nemico in termini assoluti, con tratti ora grotteschi ora demoniaci, ma sempre come altro da sé irriducibilmente diverso, pericoloso, quindi da eliminare. La cultura europea ha portato alle estreme conseguenze le moderne teorie razziali che dal Settecento in poi avevano permeato la edificazione dei caratteri nazionali, riconducendo la diversità prima ad ancestrali fattori storici e poi a differenze biologiche225. L’attribuzione infatti di tratti somatici ridicoli, deformi, orripilanti, sempre e comunque respingenti è la materializzazione di un giudizio storico-politico-morale assoluto: il nemico è dentro e fuori irriducibilmente diverso,

223Forma di ritualizzazione della guerra che nel linguaggio della tradizione occidentale si traduce nel concetto di «guerra giusta» nel senso che nessun contesto sociale può tollerare che la decisione di ricorrere alla violenza sia limitata soltanto da circostanze di fatto. Al contrario, la prima preoccupazione di qualunque società internazionale è quella di limitare il diritto stesso di ricorrere alla guerra, vietando che chiunque possa farlo in qualunque momento e fino a

qualunque esito: che la guerra sia dichiarata dalla «autorità legittima»; che abbia una «giusta causa»; che sia

combattuta con una «buona intenzione»; che costituisca un «estremo ricorso»; che una volta vinta non venga resa «ingiusta» dall’inflizione di una punizione eccessiva allo sconfitto (come avvenne per la Francia della Restaurazione all’indomani delle guerre napoleoniche e come, non a caso, non avvenne più per la Germania di Weimar all’indomani della Prima guerra mondiale). Da ALESSANDRO COLOMBO, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, cit., pp. 125-126.

224MARINA CALLONI, Quale ruolo nella ricerca nell’affrontare questioni globali?, in MARINA CALLONI (a cura di), Violenza

senza legge. Genocidi e crimini di guerra nell’età globale, cit., pp. XV-XXI.

82

pericoloso, orribile. Il Novecento vede l’apice della conclusione tragica di questo processo con il campo di sterminio nazista. Un processo di radicalizzazione identitaria che, in effetti, la vita internazionale del dopo guerra fredda continua a registrare, attraverso avvenimenti drammatici emblematici e al tempo stesso portatori di una trasformazione politico-culturale. Le vicende della ex Jugoslavia sembrano riportare l’orologio della storia indietro di un secolo. Non è così: la storia non si ripete. Semmai rivela quanto forti siano le culture politiche. E l’idea della guerra – non solo e non tanto come strumento di risoluzione dei nodi internazionali – sostenuta dalla convinzione che «l’altro» rappresenti il male assoluto, è parte dell’immaginario novecentesco. Si è molto insistito sulla costruzione culturale del nemico, sia esso territoriale o ideologico, etnico o religioso, come fase costituente di una mobilitazione popolare che renda accettabile e condiviso l’uso della forza e il ricorso alla violenza. Si è insistito sui diversi livelli di partecipazione e sui differenti gradi di responsabilità che concorrono al successo e alla concretizzazione di atteggiamenti violenti e criminali. Ma si è anche sottolineato più volte come nella storia del Novecento il momento centrale rimanga sempre, in ultima analisi, quello del potere politico, delle élite di governo, delle forze organizzate che lottano per conquistarlo. Sono loro, sono determinati e riconoscibili gruppi politici a ideare, decidere, programmare, effettuare e fare eseguire le violenze più terribili che hanno segnato il XX° secolo.

In realtà, con la fine della Guerra Fredda, fa da contraltare, a dispetto delle apparenze, il consolidarsi di quella che adesso chiamiamo la cultura dei diritti, e cioè una particolare attenzione e sensibilità per il rispetto dei diritti umani sanciti da organismi internazionali universalmente riconosciuti. Si assiste, quindi, ad uno sforzo che ha accompagnato l’umanità insieme ai conflitti, alle guerre e alle brutalità endemiche di cui essa è stata protagonista, nel classificare la violenza illegale e sanzionarla giuridicamente, cercando di risolvere con accordi internazionali il problema di crimini