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"Bosniaco? Serbo geneticamente deforme". Gli effetti del patteggiamento negoziato nel processo di riconciliazione attraverso l'attivita' del Tpij. I casi Plavsic e Bralo.

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(1)

U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

D

I P A R T I M E N T O D I C I V I L T À E F O R M E D E L

S

A P E R E

C

O R S O D I

L

A U R E A

M

A G I S T R A L E I N

S

T O R I A E

C

I V I L T À

p e r c o r s o c o n t e m p o r a n e o

TESI DI LAUREA

«Bosniaco? Serbo geneticamente deforme». Gli effetti del patteggiamento

negoziato nel processo di riconciliazione attraverso l’attività del Tpij.

I casi Plavšić e Bralo.

A

NNO

A

CCADEMICO

2016

-

2017

Relatore

PROF.LUCA BALDISSARA

Controrelatore

PROF.GIANLUCA FULVETTI

Candidato

(2)

5

I

NDICE

Indice p. 5

Elenco delle abbreviazioni p. 7

Introduzione – Tre popoli per tre RE: REtributive, REstorative,

REconciliation p. 9

1. L

A

G

IUSTIZIA PENALE INTERNAZIONALE p. 18

A. Dal processo panellenico al Trattato di Losanna p. 18

B. L’eredità di Norimberga p. 22

C. Il destino messianico degli Stati Uniti e il declino del

primato europeo p. 27

D. I Tribunali ad hoc per la ex Jugoslavia e per il Ruanda

e la Corte Penale Internazionale dell’Aja p. 36 E. I Tribunali ibridi, misti o di comunità: dalle “Special

Panels” di Timor Est, alla “Special Court” for Sierra

Leone, ai Gacaca del Rwanda p. 42

F. La nuova identità della giustizia penale internazionale nel suo rapporto con la sovranità, la politica e le forme

più recenti di violenza terroristica p. 46

2. L

A TERZA VIA ALLA RESA DEI CONTI

:

DAL MODELLO ARCAICO DEL RYB ALLE COMMISSIONI VERITÀ E RI

-

CONCILIAZIONE

p. 58

A. Oltre il processo penale classico: nuove forme di giu-

stizia di transizione p. 58

B. Le Commissioni per la verità e la riconciliazione in

in America latina p. 64

C. L’esperienza sudafricana: la Truth and Reconcilation

Commission p. 67

3. L

A BRUTALITÀ INEDITA DEI CRIMINI INTERNAZIONA

LI

:

NATURA E CULTURA DELLA VIOLENZA SENZA LI

-

MITI NEL NOVECENTO p. 73

A. La violenza nella demarcazione tra natura e cultura

umana p. 73

B. La violenza senza limiti del XX secolo tra progresso

(3)

6

C. I crimini di guerra, contro la pace (di aggressione) e

contro l’umanità p. 85

D. La genealogia della violenza nazista p. 105 E. Apartheid: la parabola del razzismo p. 110 F. Lo stereotipo della violenza balcanica p. 117

4. L

A GIUSTIZIA DI TRANSIZIONE NEL CONFRONTO TRA

LE DIVERSE LOGICHE DI DECOSTRUZIONE DELLA VIO LENZA

:

TEDESCA

,

SUDAFRICANA E BALCANICA

.

I CA

SI PLAVŠIĆ E BRALO p. 130

A. La Vergangenheitsbewältigung p. 132

B. Perdonare per non dimenticare p. 157

C. Balcani: storia ed utopia di un’integrazione mai com-

piuta p. 170

D. Balcani: il TPIJ, un ansiolitico per l’opinione pubblica

occidentale p. 181

E. Un nuovo modello di giustizia di transizione: conver- genze tra la retributive justice e la restorative justice. La pratica del plea bargaining nei casi Biljana Plavšić

e Miroslav Bralo p. 187

Conclusioni p. 206

Bibliografia p. 213

Riviste p. 229

(4)

7

E

LENCO DELLE ABBREVIAZIONI

A

BA Associazione Avvocati Americani (American Bar Association)

A

NC Partito del Sudafrica (Afrikaans nasionale party)

B

RD Repubblica Federale di Germania (Bundesrepublik Deutschland)

C

IG Corte Internazionale di giustizia (International Court of Justice, ICJ)

C

LSS Sezione per il servizio di interprete e traduzione (Conference and Language Services)

D

DR Repubblica Democratica tedesca (Deutsche Demokratische Republik)

E

ULEX Missione dell’Unione Europea per lo sviluppo di un sistema politico democratico in Kosovo (European

Union Rule of Law Mission in Kosovo)

G

G Costituzione tedesca - Legge fondamentale (Grundgesetz)

H

DZ Unione Democratica Croata (Hrvatska demokratska zajednica)

H

VO Consiglio di difesa croato (Hrvatsko Vijece Obrane)

K

FOR Forza di intervento Nato (Kosovo Force)

I

CC Corte penale internazionale (CPI) (International Criminal Court)

I

CTY Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (TPIJ) (International Criminal Tribunal for the former

Jugoslavia)

I

CTR Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR) (International Criminal Tribunal for Rwanda)

I

FP

Partito Inkata per la Libertà (Inkatha Freedom Party)

I

MT Tribunale Militare Internazionale di Norimberga (TMI) (International Military Tribunal)

I

MTFE Tribunale militare internazionale per l'Estremo Oriente di Tokyo (TMIT) (International Military Tribunal for

the Far East)

I

TV Televisione commerciale indipendente britannica (Indipendent Tele Vision)

J

NA Esercito federale jugoslavo (Jugoslovenska Narodna Armija)

M

ICT

Meccanismo Internazionale per i tribunali criminali (Mechanism International Criminal Tribunals).

M

RTA

Movimento Rivoluzionario armato peruviano Tupac Amaru (Movimiento Revolucionario Tupac Amaru)

N

ATO Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (North Atlantic Treaty Organization)

N

GK Chiesa riformata olandese (Nederduitse Gereformeerde Kerk)

N

P Partito Nazionale degli afrikaner (National Party)

(5)

8

O

NG Organizzazione non governativa

O

NU Organizzazione delle Nazioni Unite (Organisation des Nations Unies)

O

SCE Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Organization for Security and Co-operation

in Europe)

O

TP Ufficio del Pubblico Ministero (Office of the Tribunal Prosecutor)

R

FJ Repubblica Federale di Jugoslavia (Savezna Republika Jugoslavija)

R

PE Regole di Procedura e prova (Rules of procedure and evidence)

R

PP Regolamento di procedura e prova

R

SB

Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina (serbo Република Српска; croato e bosniaco Republika Srpska)

R

UF Fronte Rivoluzionario Unito (Revolutionary United Front)

S

A Squadre d’assalto (gruppo para-militare del Partito Nazionalsocialista tedesco) - (Sturmabteilung)

S

ACP Partito comunista sudafricano (South African Communist Party)

S

D Servizio di Sicurezza (era il servizio segreto delle Ss dal 1932 al 1945) – (Sicherheitsdienst)

S

FRJ Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija)

Ss

Squadre di protezione (organizzazione paramilitare d'élite del Partito Nazionalsocialista tedesco) – (Schutz-staffeln)

T

OBIH Difesa territoriale della Bosnia ed Erzegovina (Teritorijalna Obrana Bosne i Hercegovine)

T

RC Commissione per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconcilation Commission)

U

CK Esercito di liberazione del Kosovo (Ushtria Çlirimtare e Kosovës)

U

E Unione Europea (Union européenne)

U

N Nazioni Unite (United Nations)

U

NDU Unità di detenzione delle Nazioni Unite – (United Nations Detention Unit in the Hague)

U

NMIK Amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite per il Kosovo (United Nations Interim Administration

Mission in Kosovo)

U

NTAET Amministrazione delle Nazioni Unite per la transizione a Timor Est (United Nations Transitional

Administration in East Timor)

U

NWCC

Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra (United Nations War Crimes Commission)

V

RS Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Vojska Republike Srpske)

(6)

9

INTRODUZIONE

T

RE POPOLI PER

T

RE

RE:

RE

TRIBUTIVE

,

RE

STORATIVE

,

RE

CONCILIATION

Basterebbe questa semplice metafora per racchiudere efficacemente in una frase l’ampio senso che questo lavoro ha cercato di definire risaltando lo sforzo compiuto da un’Istituzione giudiziaria internazionale, il Tribunale Penale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, nel desiderio dichiarato di agevolare il processo di riconciliazione in atto nel cuore dei Balcani. Gli anni Novanta del secolo scorso hanno visto questa regione dell’Europa orientale attraversata da una guerra fratricida che ha seminato sangue, violenza e morte e dalla quale ancora oggi le popolazioni locali faticano a trovare una via d’uscita definitiva e la strada verso la completa normalizzazione. Un unico Paese, dunque, la Bosnia Erzegovina, dove vivono e convivono tre popoli che si identificano in altrettante etnie: due di stampo nazionalistico, serbo-bosniaci e croato-bosniaci, legati visceralmente alle rispettive madrepatria, ed una terza componente che si riconosce, invece, nell’espressione di un medesimo vincolo di tipo religioso: i musulmano-bosniaci, meglio definiti Bošnjaci o Bosgnacchi che, ad onor del vero, sono rappresentati da una mescolanza di serbi, croati, albanesi, kosovari, montenegrini, macedoni e discendenti della dominazione ottomana uniti sotto il vessillo della mezza luna. La metafora “monarchica” introduttiva di radice anglofona è un’immagine allegorica che intende fornire la chiave di lettura del nostro percorso logico. I tre regnanti di questi tre popoli che si affermano

bosniaci, altro non sono che tre sostantivi espressi in lingua inglese che mantengono una comune

desinenza iniziale: RE. È però nel senso compiuto di ogni singola parola, al di là della particella regale, che riconosciamo, come già detto, l’operato del TPIJ: una transitional justice che attinge dai

princìpi di entrambi i modelli giuridici da cui è trasversalmente percorsa oggi, la giustizia

internazionale: la forma cosiddetta retributiva di marchio occidentale e quella ristorativa più tipica

dei contesti africani e sud-americani. Il terzo Sovrano che compone la favoleggiante triade è l’essenza, la sintesi del lento processo simbiotico che la Corte ha cercato di ottenere attraverso la felice alchimia dei due modelli giuridici, il suo risultato finale più auspicabile: la riconciliazione fra tutte le espressioni etniche, religiose, politiche ed istituzionali della Bosnia Erzegovina.

Ricomponendo dall’inizio le fila del discorso non c’è dubbio che «la storia della giustizia

internazionale e, più in generale, della giustizia di transizione, risenta di una certa sensazione di

sconforto di fronte alle innumerevoli prove di fallimento e sia piena di interrogativi, a iniziare dal primo, forse quello più critico: storia di una giurisdizione o di una idea politica dal prevalente sapore utopistico? Questo lavoro è stato pensato come un luogo di incontro tra la storia, il diritto e la politica; sonda ed analizza il percorso, talvolta contraddittorio e fragile di costruzione e consolidamento delle

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istituzioni giudiziarie internazionali. Ciò in termini retributivi nella logica di corti e tribunali, tipici di una forma tradizionale e occidentale della giustizia penale che sono stati costituiti per dare corpo e sostanza ad alcune idee del primo Ottocento: quelle della risoluzione pacifica dei conflitti tra Stati e poi della salvaguardia del rispetto dei diritti umani e della punibilità dei crimini contro l’umanità»1.

Oppure, nella dialettica ricostruttiva delle Commissioni per la Verità e per la Riconciliazione di fine Novecento, attraverso le quali si è cercato di dare vita ad un prototipo procedurale che assicurasse innanzitutto le basi conoscitive per un’elaborazione del passato (verità), offrisse la possibilità di garantirsi la collaborazione del maggior numero di individui coinvolti per una ricostruzione efficace della memoria collettiva e ponesse le condizioni per una politica di riparazione dei torti (risarcimento). Sono solo queste le valide alternative per superare le tradizionali forme di elaborazione del passato in antitesi con le invereconde vie della vendetta o dell’oblio? E quali risposte ha saputo fornire la comunità internazionale alla domanda di giustizia che da ogni angolo della terra si solleva, talvolta inascoltata, tardiva e poco efficace? Quale futuro è auspicabile per costruire un’adeguata via d’uscita alla resa dei conti?

La terza via per la risoluzione dei conflitti e delle vertenze internazionali è racchiusa proprio in questo ampio e articolato corollario di istituzioni giudiziarie e non che, percorrendo strade diverse, talvolta invece coabitando fianco a fianco in un percorso parallelo, in altre ancora assumendo carattere di sussidiarietà dell’una rispetto all’altra, ci aiutano meglio a comprendere il significato esteso del termine giustizia di transizione, anello di congiunzione tra un passato da giudicare, interpretare e rielaborare ed un futuro che su quel passato deve trovare le ragioni, le motivazioni per edificare un avvenire di certezze e legalità, memoria e riconciliazione. La dottrina della giustizia di transizione

democratica si distingue proprio per l’attenzione riservata alle tecniche politico-amministrative e ai

meccanismi costituzionali messi in atto, sia pure sotto pressioni internazionali, dai governi nazionali che non si limitano a misure legislative di amnistia o a procedimenti giudiziari, ma includono accorgimenti di riparazione e riabilitazione delle vittime e politiche dell’integrazione, della memoria e dell’identità articolate a diversi livelli.

Sulle ragioni che hanno determinato l’emergenza di nuove forme di politica giudiziaria del passato in età contemporanea ci si è soffermati dedicando un primo ampio spazio alla giustizia penale

internazionale: uno sguardo a volo d’uccello sulle trasformazioni di un quadro che non è più quello

1 LEONIDA TEDOLDI, (a cura di), La giustizia internazionale. Un profilo storico-politico dall’arbitrato alla Corte penale, Carocci, Roma 2012, p. 11.

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11

eurocentrico degli Stati sovrani rinsaldatosi nel sistema vestfaliano. Tutti cambiamenti pongono

problemi di transitional justice e la questione, pertanto, è tutt’altro che nuova. In Europa, ad esempio, nel XX secolo la logica della sovranità ha conosciuto estremizzazioni senza precedenti con esiti catastrofici; ma è anche il racconto di una reazione feconda che ha messo in moto significative controtendenze. Gli Stati a) hanno creato una serie di nuove corti internazionali e strutture pseudo giudiziarie; b) si sono dimostrati alacri nell’istituire ed approvare tribunali indipendenti, non semplicemente arbitrati; c) hanno riconosciuto in numero sempre maggiore, la giurisdizione di queste corti; d) vi hanno fatto appello in maniera crescente; e) hanno creato una rete legislativa, dottrinale e giurisprudenziale di livello internazionale che oggi può ben rivendicare, senza dubbio alcuno, l’eccellenza nella costruzione di un’impalcatura di norme giuridiche, rettamente congeniate tra loro, che hanno aperto uno squarcio di luce sui contenuti teorici molto ampi, e in passato non sempre ben definiti, dei crimini contro l’umanità, crimini di guerra, crimini contro la pace (o di aggressione), sottraendoli al campo della semplice definizione narrativa e conferendo ad ognuno, come detto, il rango ed il valore di canone di legge; f) hanno cercato di assicurare, attraverso le corti, il ripristino e la stabilizzazione della fiducia nei trattati e negli accordi cooperativi2.

Dopo la descrizione di alcuni significativi tentativi di avvicinamento compiuti nell’antichità, localizzati e non strutturati a livello cosmopolita, riconducibili al periodo ellenico, romano e medievale, verranno esposte le tappe più significative di una storia recente, così come sono state egregiamente enumerate da Pier Paolo Portinaro per scandire l’evoluzione del sistema internazionale di giustizia fino ai giorni nostri: «La prima, che si apre a Versailles con la Germania apostrofata come responsabile della Prima guerra mondiale, vede la nascita della Società delle Nazioni e del primo vero tribunale internazionale. La sua riuscita sarà, per vari motivi, fallimentare. La seconda fase con i processi dei criminali di guerra davanti ai tribunali militari internazionali di Norimberga e di Tokyo raggiunge, invece, nell’immediato e in prospettiva, risultati significativi.

La terza svolta avviene in coincidenza con la fine della Guerra Fredda, che crea per la prima volta nella storia le condizioni per l’espansione a livello globale della resa dei conti giudiziaria con il passato e per la nascita della giustizia penale internazionale. Dopo decenni di stagnazione, gli ultimi anni del XX secolo hanno conosciuto la ripresa di iniziative nell’ambito del diritto internazionale, con l’istituzione ad opera del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dei Tribunali ad hoc per l’ex

2 La funzione della giustizia internazionale non è di negare la sovranità degli Stati ma di “responsabilizzarla ingiungendole di non reiterare i propri errori” (ANTOINE GARAPON, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di

una giustizia internazionale, il Mulino, Bologna 2004, p. 257). La sua funzione rientra quindi nell’ambito della

globalizzazione del principio di responsabilità, che accanto alla dimensione economica, ecologica, politica, ha necessariamente anche una componente penale.

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Jugoslavia (ICTY) (25 maggio 1993) e per il Ruanda (ICTR) (8 novembre 1994), con l’approvazione

dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (ICC) (17 luglio 1998) e con l’entrata in

funzione della medesima (1° luglio 2002). Una quarta fase si apre all’indomani dell’11 Settembre, con la netta intensificazione dell’attivismo antiterroristico degli Stati Uniti sotto l’egida dell’ONU. L’ideologia dell’interventismo umanitario celebra in questi anni i suoi fasti: l’intervento militare con la copertura della comunità internazionale viene evocato e legittimato non per contrastare una grave minaccia alla pace o per fermare un genocidio in atto ma per prevenire la violazione dei diritti umani e promuovere, con strumenti coercitivi, lo sviluppo della democrazia»3.

L’evoluzione che contraddistingue gli stadi del cammino della giustizia penale internazionale dal processo di Norimberga in poi, sono contrassegnati sempre più dal ruolo di prima grandezza che gli Stati Uniti d’America si ritagliano nel panorama internazionale, prima come difensori del mondo libero dal pericolo comunista, poi come sentinelle attive di un “nuovo ordine mondiale” e, dall’11 settembre 2001, come unici propugnatori con poteri illimitati della quasi-guerra contro il terrorismo, in un concetto massimalista in visione fortemente messianica, traboccante del linguaggio salvifico tipico del Protestantesimo radicale4.

Dalla fine del secondo conflitto mondiale e con l’avvio del periodo buio della Guerra Fredda, infatti, la sicurezza riguardava esclusivamente il raggiungimento della pace a livello mondiale, dunque innanzitutto la protezione del mondo libero dall’incessante “sovversione totalitaria”. Una simile lotta esigeva che gli Stati Uniti interpretassero il ruolo esclusivo di forza redentrice. Il mondo libero era il mondo vero. L’altro versante, il versante totalitario, era un mondo inferiore di schiavi e oppressori, un mondo parassitario che viveva a spese del mondo reale. Con lo sfumare della “cortina di ferro” e l’implosione dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti ricreano con rinnovato slancio una leadership universale attraverso l’espansione del “principio americano” che si tramuta, questa volta, da difensore del mondo libero a strumento trionfante e di successo nella lotta messianica: il globo terrestre alla fine diventa unico ed è necessario creare “un nuovo ordine mondiale” imponendo un aggiornato standard di civilizzazione. In questo milieu di benessere strategico e dominio economico, meno visibile e certamente non avvertita, si concretizza la crescita esponenziale del potere militare, l’immenso apparato di “difesa” statunitense si fa strada, ampiamente indisturbato nell’era post-sovietica5. L’11 settembre schiude definitivamente all’amministrazione repubblicana la strada

3 PIER PAOLO PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia. Feltrinelli, Milano 2011, pp. 16-21.

4 ANDERS STEPHANSON, Diritto e “giuridificazione” delle relazioni internazionali da franklin d. roosvelt a George w. Bush, in BALDISSARA LUCA e PEZZINO PAOLO (a cura di), Giudicare e Punire, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2005, p. 100. 5 ANDREW J. BACEVICH, American Empire. The realties and consequences of U.S. diplomacy, Cambridge, MA, Harward

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dell’interventismo a livello planetario: essa si inquadra all’interno del tentativo, decisamente ambizioso di dare slancio ad una “Pangea politica”, sistematicamente e inequivocabilmente a vantaggio strategico degli Stati Uniti. «Il piano si incentra sul concetto di “cambiamento di regime”. L’iniziale successo in Iraq avrebbe messo in moto una metamorfosi istituzionale trasformando la Siria e il proto-nucleare Iran in congeniali regimi occidentalizzati. Lo scopo ultimo si trova a est: il mutamento di governo nella Repubblica popolare cinese, individuata come l’unico potenziale avversario e la sola vera minaccia per gli Stati Uniti nei successivi decenni. L’11 settembre cristallizza, quindi, questo progetto messianico, religioso e secolare allo stesso tempo in una formidabile mossa strategica per il conseguimento del potere mondiale»6.

L’ampia pagina riservata agli States ed al suo protagonismo smisurato aiuta a comprendere perché il Paese a stelle e strisce non intenda sottomettersi ad una giustizia di stampo “universale” che possa “fare le pulci” anche alla sua politica estera, in particolar modo quando l’arte diplomatica viene esercitata sul piano strettamente militare. Eppure gli americani non sono diacronici rispetto ad una giustizia penale internazionale. Sono schierati, in effetti, per l’affermazione di una dottrina giuridica mirata e non generalista, particolare e non precostituita, ex post e non ex ante, da definire di volta in volta e non da subire in maniera indistinta.

Alla concezione classica, retributiva, di matrice occidentale delle dinamiche di elaborazione del passato si è tentato poi di accostare il senso alternato dell’evoluzione del sistema della giustizia di

transizione. È il momento in cui si registra, con lo scetticismo che accompagna i primi passi dei

Tribunali ad hoc (ICTY e ICTR) prima, e della ICC poi, l’avvio di un nuovo esperimento istituzionale

che incede nella ricerca di altre vie, quella delle Commissioni per la Verità e la Riconciliazione o altri organi ibridi con funzioni para giudiziarie. L’altra faccia della medaglia, il recto della giustizia penale internazionale, che al paradigma retributivo processo-pena-espiazione contrappone l’archetipo ricostruttivo del risarcimento-verità-memoria, in una parola sola: riconciliazione.

Nel cogliere gli aspetti principali che la letteratura sulla giustizia di transizione offre, in una continua fase di elaborazione critica, nell’applicazione sul campo dei due dispositivi - i procedimenti giudiziari e le Commissioni per la verità e la riconciliazione - ci siamo interrogati sul ruolo del modello di giustizia di transizione di tipo retributivo che «passa per il rituale del processo penale e

6 DAVID ARMSTRONG, Dick Cheney’s Song of America. Drafting a Plan for Global Dominance, in «Harper’s Magazine», ottobre 2002. Autore richiamato in ANDERS STEPHANSON, Diritto e “giuridificazione” delle relazioni internazionali da

franklin d. roosvelt a George w. Bush, in LUCA BALDISSARA e PAOLO PEZZINO (a cura di), Giudicare e Punire, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2005, p. 102.

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poi sul modello innovativo di giustizia di transizione di tipo riparativo in cui la memoria, fuori dal rito del processo, diventa richiesta di riconoscimento e strumento per la costruzione di verità e identità, e cioè le Commissioni per la verità e la riconciliazione.Due metodi differenti di affrontare la giustizia - che peraltro storicamente spesso si sovrappongono, si susseguono, si influenzano - in cui l’uso di memorie sociali implica, in entrambi i casi, scelte di natura politica ed etica che producono effetti non solo giuridici ma anche politici sul passato, sul presente e sul futuro delle società in cui vengono applicati7».

Avuto cura di risaltare i “soggetti” protagonisti della giustizia di transizione, personalizzando cioè figurativamente i due modi attraverso cui la “resa dei conti” è stata normalmente amministrata (Tribunali, Commissioni, etc.), il passo successivo è stato rivolto nella direzione di modulare “oggettivamente” il “cosa”, ovvero i comportamenti delittuosi che in “astratto” siffatte Istituzioni sono state chiamate a valutare: i cosiddetti crimini internazionali in tutte le loro articolate accezioni. Una doverosa premessa normativa che introduce, poi, ad una attenta indagine sulle logiche irrazionali di “costruzione” della violenza che hanno accompagnato la vita, la storia, le tragedie umane consumate all’interno di tre distinti “spazi culturali nazionali”; un interrogativo sulle dinamiche di sviluppo che questi fenomeni virulenti hanno covato in seno alle rispettive società civili. Gli scenari storici del Novecento, dove questa violenza è diventata protagonista assoluta e dove ha costruito il suo percorso di morte e distruzione, alla luce di una propria dimensione esclusiva, ha avuto per interpreti: la brutalità ideologico-razziale della Germania nazista, la durezza teologico-razziale degli

afrikaner in Sudafrica e l’aggressività etno-nazionalista dell’area balcanica. La scelta di questi sfondi

del passato ha accolto la pretesa di riprodurre la matrice, il calco della tipologia di giustizia di

transizione che per ognuno di essi è stata pensata, concepita ed utilizzata sul campo, per ricostruire

poi, in modo efficace, in un percorso inverso, le fasi salienti della de-costruzione di quelle stesse violenze, la via d’uscita dagli orrori della guerra, della segregazione, della persecuzione.

Il “regolamento dei conti con il passato” si manifesta, in Germania, per via di una giustizia che fa leva sullo strumento del diritto penale per condannare un’ideologia criminale ed una filosofia politica, economica e sociale con tutti i rappresentanti ai gradi apicali delle gerarchie militari, dell’economia e della finanza, della scienza e dell’intera nomenclatura statale del Terzo Reich. Il meccanismo giuridico messo in campo determina la polarizzazione della giustizia di transizione a

7 MARTA VIGNOLA, Memoria, narrazione e identità nella giustizia di transizione, in «Rivista quadrimestrale di Scienze storiche e sociali», Anno L, n. 3, 2016.

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totale discapito dei responsabili delle nefandezze del regime dittatoriale, anche qualora, per raggiungere lo scopo, sia necessario sacrificare i principi di legalità e di irretroattività della legge, sia legittimo derogare ai precetti ed alle garanzie fondamentali del diritto penale (si pensi alla conspiracy americana) per soddisfare esigenze eccezionali al fine di superare periodi in cui il potere si è servito di strumenti repressivi che hanno negato le libertà e violato gravemente i diritti umani. L’aspetto

retributivo della giustizia è esaltato con forza, così come vi è assoluta convinzione nel ritenere che, i

processi al nazionalsocialismo hitleriano sortiscano una funzione supplementare di tipo pedagogico8 per il popolo tedesco, un invito a vivere ed a scrivere una vera prima pagina di democrazia, frutto di una giustizia implacabile (almeno nelle premesse), ma equa (negli auspici). Il contesto tedesco della “resa dei conti” verrà sostenuto anche da un’adeguata politica della memoria perseguita negli anni a venire, così come sul versante delle epurazioni e dei risarcimenti. Per quest’ultima notazione, tuttavia, è stata volutamente rimarcata un’evidente discrasia essente fra il colossale sistema degli indennizzi creato dalla neonata Repubblica Federale di Germania, tra il 1948 ed il 1966, nei riguardi degli ebrei e dello Stato di Israele, ed una ragion di Stato che ancora oggi nega qualsiasi forma di rifusione del danno subito da parte di cittadini italiani, affinché venga loro riconosciuto il diritto al risarcimento per i crimini e le stragi patite dalle popolazioni civili nel nostro Paese ad opera delle truppe tedesche nel periodo 1943-1945 e per le deportazioni e gli internamenti in terra straniera verso cui sono stati condotti molti nostri connazionali. Una querelle giudiziaria che si trascina imperitura tra la cancelleria germanica, l’autorità internazionale dell’ONU - CIG (Corte Internazionale di

Giustizia) e le autorità giudiziarie italiane ai massimi livelli (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale).

La giustizia di transizione, dunque, può essere considerata uno dei tanti banchi di prova cui, seppur eccezionalmente, il sistema penale statale si trova sottoposto. In vero, proprio la delicatezza delle questioni che si prospettano nei periodi di transizione e l’irrequietezza degli animi della popolazione, fanno sì che l’atteggiamento adottato nei confronti dei responsabili all'epilogo del conflitto risulti ampiamente influenzato dalle contingenze del quadro storico durante il quale avviene il passaggio dal regime repressivo alla democrazia. Nel caso del Sudafrica, in realtà, sono proprio le favorevoli condizioni politico-sociali (rinvenute anche nel fatto che la risoluzione del conflitto è ivi avvenuta su base negoziale delle parti contrapposte) a consentire un diverso approccio alla

transizione. All’alternativa secca tra impunità e repressione dei responsabili si contrappone una via

8 Cfr. MARK J. OSIEL, Politiche della punizione, memoria collettiva e diritto internazionale, in LUCA BALDISSARA e PAOLO PEZZINO (a cura di), Giudicare e Punire. I processi per crimini di guerra tra diritto e politica, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2005.

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16

intermedia, in cui il diritto penale funge, all’inizio, da elemento utile ad incentivare le confessioni e le pubbliche assunzioni di responsabilità e, solo sussidiariamente, da strumento di repressione dei soggetti che non vogliano collaborare alla pacificazione sociale mediante l’ammissione di colpa o la collaborazione nella ricerca della verità storica. In questo caso è interessante notare che l’esigenza di soddisfare le vittime e di accertare la verità storica non sono state tralasciate per il semplice fatto di aver rinunciato alla pena come unica possibile risposta. Non si può certo negare che storture (dovute specialmente ad uno scorretto utilizzo dei mezzi processuali di accertamento della verità) si siano verificate anche in questo caso; ciononostante, la vicenda del Sudafrica suggerisce che le soluzioni che pretendano di gestire una fase delicata come quella di transizione sull’onda dell’emotività e sotto le pressanti inquietudini della popolazione conducono spesso ad uno sregolato utilizzo del diritto penale. Al contrario, si rivela più proficuo rimandare la pacificazione sociale ad un momento di maggiore serenità che lasci spazio alla razionalità durante il quale il diritto penale possa ritrovare la sua corretta estensione senza ricadere in abusi contro i principi fondamentali.

La novità assoluta, come pocanzi accennato, nelle forme di elaborazione del passato e di contenimento della “resa dei conti” giunge, inaspettata, proprio dall’area dei Balcani, nascosta tra le pieghe regolative di un’istituzione giudiziaria plasmata sul modello “retributivo”: il Tribunale Penale Internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia (ICTY). In effetti, l’occasione fornita da

due sentenze9 sottoposte ad analisi nel presente elaborato, evidenzia la svolta che il modello “retributivo” ha tentato di conferire al proprio rigido assetto classico-penalistico accostando e puntando con decisione la prua del diritto verso le acque calme della giustizia “riparativa”. Così, tra le righe delle ordinanze esaminate si accenna a termini come “riconciliazione”, “pacificazione”, sostantivi lontani dal rigore delle norme, ai quali la Corte comincia a fare esplicito riferimento. E poiché l’unica arma a disposizione dei collegi giudicanti è proprio la quantificazione della pena e la sua graduale determinazione, ne subordinano l’ampiezza dando vasto credito a questi criteri del tutto innovativi. È la miscellanea trasposizione di un effetto simbiotico tra legge e sentimento, tra diritto e prossimo che travalica le mura che cingono il processo, che vuole uscire al di fuori delle aule del Tribunale per diventare strumento efficace nel piano di ricostruzione politica e di educazione alla democrazia delle società balcaniche dilaniate da un terribile conflitto fratricida. Ma cosa rende possibile veicolare questi principi all’interno delle linee inflessibili e impermeabili del diritto occidentale?

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È la spinta al desiderio incontrovertibile dei giudici di assurgere a protagonisti di un processo che potremo definire di “mutazione bio-giuridica” che risiede proprio nella rinnovata applicazione di un istituto legale già esistente nei Paesi che si riconoscono in sistemi giudiziari di common law, di stampo anglo-sassone: il plea bargaining. È la pratica del patteggiamento che in Italia, ad esempio, trova allocazione, con forme diverse, nella procedura introdotta con la riforma del processo penale del 1989, prevista dall’art. 444 c.p.p. Ma l’elemento di novità nell’amministrazione della giustizia nella ex Jugoslavia non alberga nella consolidata pratica legale della trattativa negoziata, di per sé già conosciuta ed ampiamente sperimentata. L’originalità del cambiamento prodotto nel “modello

balcanico” del plea bargaining è racchiusa in quel frammento distintivo che va oltre l’accordo fra le

parti, che travalica la pur necessaria dichiarazione di colpevolezza dell’imputato, che si spinge al di là del parere conforme del collegio giudicante. Per avere successo, l’esempio slavo chiama in causa e pretende la sussistenza di altre variabili ad hoc: passi di riconciliazione, atti di pacificazione, rimorso, pentimento, richieste di perdono. Ed è ciò che risalterà, nella sua disarmante ineluttabilità, dalla disamina delle ordinanze proposte.

Abbiamo visto, in fondo, come la storia della giustizia di transizione, nelle sue poliedriche manifestazioni: retributiva, riparativa od espressione di un modello balcanico misto che associa sincronicamente entrambe le tendenze, si possa ragionevolmente configurare come un «segmento fondamentale dell’opera costituente di tutti quei Paesi che provano ad emanciparsi dall’esperienza di un potere autoritario o totalitario, ponendo le basi per un futuro in cui memoria, verità, giustizia e

riconciliazione non siano parole vuote o oltraggiose ma un’eredità per le future generazioni per la

comprensione e il superamento del passato. Eduardo Galeano ha scritto che l’utopia,

“È come l’orizzonte. [...] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare”10.

Se cogliamo il senso più politico e meno poetico di questa definizione allora per noi la giustizia

di transizione è un’utopia che serve a far rialzare la testa, è una chimera che cerca di vestire i panni

della realtà per consentire la ripresa del cammino alle comunità ferite dopo la violenza11».

10 EDUARDO GALEANO, Parole in cammino, Sperling & Kupfer, Milano, 2006, p. 255. 11 MARTA VIGNOLA, Memoria, narrazione e identità nella giustizia di transizione, cit.

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1.

LA GIUSTIZIA PENALE INTERNAZIONALE

A. D

AL PROCESSO PANELLENICO AL

T

RATTATO DI

L

OSANNA

Ricercare una soluzione patteggiata, giuridicamente, moralmente e politicamente e socialmente accettata, da sistemi di governo violenti e dispotici, da guerre civili o da contesti genocidari è diventata una delle inquietudini prioritarie della politica, interna e internazionale, in età contemporanea. Non sempre è stato così. «Di norma nella storia, alla fine di periodi di convulsione, erano parse percorribili solo due strade opposte: la brutale resa dei conti, cioè la vendetta sistematicamente perseguita, oppure l’oblio e l’amnistia, vale a dire la via della clemenza – o semplicemente dell’indifferenza. Questi scenari si sono ripetuti innumerevoli volte nella storia. La vendetta indiscriminata e l’oblio patteggiato hanno continuato anche in età moderna a rappresentare le vie d’uscita più consuete dai torbidi del passato12. Solo il XX secolo ha innovato teorizzando e

praticando in particolare due nuove modalità di chiusura dei conti: quella della via giudiziaria dei processi internazionali, e quella delle Commissioni verità e riconciliazione. Alcune di queste esperienze sono maturate sul continente europeo alla fine del primo e del secondo conflitto mondiale, generando un dibattito storico e giuridico senza precedenti. Ma altre hanno avuto luogo ai quattro angoli del pianeta, dando vita ad un ulteriore modalità del processo di globalizzazione – a quella che è stata definita “elaborazione transnazionale del passato” e che, allargandosi il suo raggio d’azione, potremmo appunto designare globalizzazione delle “politiche del passato”13».

12PIER PAOLO PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia. Feltrinelli, Milano 2011, pp. 11-12.

13Ivi. Sul concetto e sul fenomeno nell’Europa del secondo dopoguerra e del dopo ’89, NORBERT FREI, (a cura di),

Transnationale Vergangenheitspolitik. Der umgang mit Deutschen Kriegsverbrechern in Europa nach dem Zweiten Weltkrieg, Wallestein, Gottingen 2006.

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«L’archeologia dei processi include, sia pure in forma del tutto eccezionale, casi di precedenti di processi internazionali. Per il mondo antico andrebbe fatto riferimento ai processi panellenici davanti a un koinon sinedrion14, su cui abbiamo testimonianze in Senofonte, Diodoro e Plutarco. Le fonti parlano dell’intenzione di spartani e ateniesi di sottoporre a giudizio in una sede panellenica Temistocle, già colpevole di ostracismo15, accusato di prodosia con il Re di Persia, cioè di tradimento. È dubbio che a questa intenzione abbia fatto seguito un vero processo internazionale. Ma è certo che processi di questo genere ebbero luogo nel IV secolo, per esempio quello voluto dagli spartani, con un analogo capo d’accusa, contro il polemarco16 tebano Ismenia. Ancora a un processo panellenico, quello della Lega di Corinto, Alessandro avrebbe delegato nel 335 a.C. la punizione di Tebe, colpevole d’aver tentato l’insurrezione armata»17.

Un caso singolare di giustizia sulla base di un tribunale penale “internazionale” (internazionale per la sua composizione, solo parzialmente per la natura dei crimini che si trovò a processare) è poi, alle soglie dell’età moderna, il processo di Breisach del 1474, cui in letteratura si fa riferimento come a un precedente di Norimberga e della giustizia penale internazionale, sia pure nella forma dell’esperimento locale in un conflitto circoscritto. Esso si situa in un contesto di competizione fra signorie che ambiscono alla monopolizzazione di territori nella fase di formazione di Stati moderni. L’area in cui si svolge, tra il Sundgau e l’Alsazia, coinvolge città come Moulhouse, Colmar, Friburgo e Basilea. A richiederlo fu Sigismondo d’Austria18, ma l’organizzazione e la

composizione della giuria furono in larga misura nelle mani di città autonome.

14Nell'estate del 336 a.C. Alessandro Magno ereditò insieme al regno macedone il progetto panellenico vagheggiato da

suo padre: guidare i Greci uniti sotto il suo comando alla conquista della Persia. Faceva parte di questa eredità la lega di Corinto, fondata da Filippo a questo scopo dopo Cheronea: una lega di “stati greci autonomi” che agli inizi del 337 proclamò a Corinto la pace e l'autonomia dei Greci e giurò di non attaccare il regno macedone. A Corinto si era costituito un consiglio comune (koinon synedrion) dei Greci (tranne Sparta), con voto ponderato attribuito ai partecipanti, che assegnò a Filippo (e ai suoi discendenti) il comando generale (heghemonia) in caso di guerra. http://docplayer.it/Alexander-and-the-greeks-the-corinthian-league-elisabetta-poddighe.html.

15Tipo di sanzione vigente nel 5° sec. a. C. ad Atene (quindi imitato da altre città greche, tra le quali Siracusa, dove prese il nome di petalismo), consistente in un allontanamento della durata di 10 anni dal territorio della città (non implicante la perdita dei diritti civili né alcuna pena di carattere pecuniario), che l’assemblea popolare poteva comminare nei confronti di cittadini la cui attività fosse ritenuta pericolosa per lo stato, ma in pratica utilizzato, per lo più pretestuosamente, per eliminare dalla scena politica personaggi pubblici invisi alla maggioranza. Da http://www.treccani.it/vocabolario/ostracismo/.

16Nell’antica Atene, in origine era il comandante dell’esercito, poi, persa importanza sino a vedersi tolta ogni ingerenza nelle cose militari, nel sec. IV° aveva funzioni di tipo amministrativo (aveva cura dei figli dei caduti in guerra), sacrale (ordinava i giochi funebri in onore dei caduti in guerra) e giurisdizionale (presso di lui s’iniziavano le cause riguardanti i forestieri). Da http://www.treccani.it/vocabolario/polemarco/.

17PIER PAOLO PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, cit. p. 81. Il testo richiama CLAUDIA RUGGERI, Il

processo “panellenico” di Temistocle, in MARTA SORDI (a cura di), Processi e politica nel mondo antico, Vita e Pensiero Edizioni, Milano, Gennaio 1996, pp. 29-35.

18Sigismondo d'Asburgo duca di Tirolo, (Innsbruck 1427 - ivi 1496) figlio del duca Federico IV d'Austria, governò dal 1446. Volle riaffermare i suoi diritti dominicali sul vescovato di Bressanone e di Trento e incorse nella scomunica di

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La vicenda si colloca sullo sfondo della controversia tra Sigismondo d’Austria e Carlo il Temerario19, in uno scenario in cui quest’ultimo e il suo rapace e tracotante luogotenente Peter Von Hagenbach20, sono protagonisti delle azioni alla base del processo. A coronamento di una lunga serie di violenze, estorsioni, stupri e soprusi di ogni genere compiuti nella regione, il fedele e devoto servitore di Carlo il Temerario viene incarcerato dagli abitanti di Breisach. Privato del titolo di “cavaliere” (in questa condizione avrebbe dovuto impedire le violenze, non ordinarle), è sottoposto a un processo, che si tiene all’aperto, more germanico, e si conclude con la condanna a morte, eseguita per decapitazione il giorno stesso. «Il grande spettacolo, per assistere al quale 400 cittadini sono convenuti da Basilea, ha luogo il 9 maggio 1574 ed è celebrato da un tribunale composto da 27 giudici, di cui 8 cittadini di Breisach e per il resto delegati dalle città alsaziane e renane alleate (Thann, Strasburgo, Colmar, Basilea, Selestat) nonché dalla più lontana Berna. L’atto di accusa include quattro capi di imputazione: esecuzione arbitraria di cittadini di Thann senza processo; soppressione di privilegi e corporazioni di Breisach e imposizione di oneri fiscali esosissimi; introduzione in città di truppe con l’intento di assassinare gli uomini; stupro di donne (fra cui persino suore). Per quanto riguarda i primi tre capi d’accusa, durante il dibattimento, Hagenbac ne rivendica la legalità, sostenendo d’aver soltanto eseguito ordini del duca21». Tale caso è significativo perché gli atti

contestati a Von Hagenbach concernono fatti accaduti in regime d’occupazione piuttosto che nella condotta delle ostilità e perché alla difesa non basta per salvarlo invocare l’obbedienza agli ordini del Duca di Borgogna22. «Contro la tesi della difesa, infatti, il tribunale fa però valere che seppure l’imputato abbia agito su ordine superiore ha comunque agito contro i comandamenti di Dio: ed è pertanto interessante notare come già allora la strategia difensiva fosse basata sull’argomento

Pio II. Abdicò a favore di Massimiliano d'Asburgo (1490). http://www.treccani.it/enciclopedia/sigismondo-d-asburgo-duca-di-tirolo/.

19Carlo il Temerario duca di Borgogna, (Digione 1433 - presso Nancy 1477) figlio del duca di Borgogna Filippo il Buono, ebbe il titolo di conte di Charolais fino al 1467. Luogotenente del ducato (1465), a capo della Lega del pubblico bene contro Luigi XI di Francia, riuscì a farsi restituire le città della Somme ed ebbe altri territori nella Piccardia e nel territorio di Boulogne. Ambizioso e impetuoso, fu una delle figure dominanti della storia europea. Vagheggiando l'unione territoriale dei suoi possessi borgognoni e dei Paesi Bassi, si scontrò con le città alsaziane e con i duchi di Lorena (Bassa Unione): dopo l'annessione del ducato di Lorena ottenuta nel 1475, intraprese una spedizione contro gli Svizzeri, da cui fu battuto a Granson e Morat (2 marzo e 22 giugno 1476). Nel tentativo di riconquistare Nancy, cadde in combattimento. http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-il-temerario-duca-di-borgogna/.

20Detto anche Pierre d’Archambaud o Pierre d'Aquenbacq (1423 – Breisach 1474) è stato un cavaliere borgognone, proveniente dalla piccola nobiltà alsaziana. Viene sottoposto a giudizio per le vessazioni (omicidi, stupri, violenze sui bambini) inflitte agli abitanti della città per ottenerne la sottomissione; il processo di Breisach è spesso presentato come un precedente di quello che quasi cinque secoli dopo si terrà a Norimberga a carico dell’élite nazista. Cfr. GREGORY GORDON, The trial of Peter Von Hagenbach. Reconciling history, historiography and international criminal law, in KEVIN JON HELLER, GERRY SIMPSON, The hidden history of war crimes trials, Oxford University Press, Oxford 2013, pp. 13-49. 21PIER PAOLO PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, cit. p. 82. Il testo richiama Cfr. HILDBURG

BRAUER-GRAMM, Der Landvogt Peter Von Hagenbach. Die burgundische Herrschaft am Oberrheim, 1469-74, Musterschmidt, Göttingen 1957.

22LUCA BALDISSARA, Violenza bellica e punizione dei crimini di guerra, in ROLF PETRI (a cura di), Balcani, Europa, violenza,

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dell’obbedienza agli ordini e la decisione del tribunale facesse invece appello a un diritto sovrapositivo23. Due opposte linee argomentative che fino a Norimberga, e oltre, hanno mantenuto il loro vigore»24.

E così, qualche secolo dopo, anche l’esilio a Sant’Elena di Napoleone Bonaparte, imposto da una “sanzione” decisa dall’alleanza delle grandi potenze europee, dopo la sua sconfitta sui campi di Waterloo, può essere considerato un altro precoce esempio di modello giudiziario internazionale, seppure senza l’emanazione della sentenza di una corte25. Passeranno molti secoli prima che la via

del processo internazionale venga ripresa. Solo a Versailles, a conclusione della Prima guerra mondiale, in ragione delle violenze subite dalle popolazioni civili e per la condotta criminale della guerra tenuta da parte dei tedeschi, si delibererà l’incriminazione e il processo al Kaiser Guglielmo II e ai maggiori criminali di guerra tedeschi. Nel 1920 una lista di criminali di guerra – tra cui molti alti ufficiali, da Hindenburg a Ludendorff, da Von Bülow a Von Mackensen, dai principi della corona Guglielmo di Prussia e Rupprecht di Baviera all’ammiraglio Tirpitz – è consegnata al governo tedesco per l’estradizione. La contrarietà tedesca a concederla e l’orientamento britannico a favore di una politica di conciliazione con l’ex nemico porta ad accettare di svolgere i processi in Germania, dinanzi alla Corte suprema di Lipsia, dove si apriranno il 23 maggio 1921. Dei quasi novecento nomi inizialmente previsti – la gran parte dei quali per l’uccisione di civili e prigionieri di guerra – solo quarantacinque verranno portati in causa da parte degli Alleati e di questi solo dodici effettivamente giudicati, appena sei condannati a pene peraltro leggere26. Viceversa, l’atto di accusa contro l’imperatore non condurrà ad alcun procedimento giudiziario (anche per il rifiuto dell’Olanda di consentirne l’estradizione).

«I processi di Lipsia possono essere considerati un documento paradigmatico della resistenza opposta dal nazionalismo e dal corporativismo militare all’elaborazione giudiziaria della storia. Alla base della riluttanza dei tribunali tedeschi nei confronti della richiesta di giustizia dei vincitori operava ancora la convinzione che le direttive impartite da uno stato in condizioni di necessità non fossero giustiziabili e che il soldato tedesco non potesse commettere crimini di guerra. In presenza di

23PIER PAOLO PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, cit. p. 82. Il testo richiama GABRIELLE CLAER-STAMM, Pierre de Hagenbach. Le destin tragique d’un chevalier sundgauvien au service de Charles Le Téméraire, Societé d’histoire du Sundgau, Altkirch 2004, p. 180.

24Ibid., p. 83.

25LEONIDA TEDOLDI, La giustizia internazionale. Un profilo storico-politico dall’arbitrato alla Corte penale, Carocci, Roma 2012, p. 12.

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un ordine impartito da un superiore e in assenza della coscienza di commettere un’azione contraria al diritto risultava impossibile per i giudici individuare la componente soggettiva dell’atto criminale27.

Anche il trattato di Sevres28 (1920), che concluse la pace con la Turchia, conteneva disposizioni (articoli 226-230) sulla prosecuzione dei crimini commessi durante il conflitto, che in questo caso andavano al di là dei meri crimini di guerra per includere le atrocità perpetrate contro gli armeni (il concetto di genocidio, come è noto, all’epoca non era ancora stato coniato). Ma anche in questo caso i processi non ebbero luogo, perché il trattato non fu ratificato dalla Turchia bensì sostituito dal Trattato di Losanna29 (1923), che conteneva invece una Dichiarazione d’amnistia per tutti i crimini commessi tra il 1° agosto 1914 e il 20 novembre 1922. Nel frattempo avevano avuto luogo processi-farsa, in condizioni di totale confusione politica e amministrativa, a Istanbul»30.

B. L’

EREDITÀ DI

N

ORIMBERGA

Appare in tutta la sua ineludibile evidenza, che dalla Atene democratica in poi, l’esercizio del potere giudiziario, ovvero il processo, resta un diffuso strumento di lotta politica. Ed in questa categoria (o almeno in una particolare accezione del termine) deve ancora essere fatto rientrare, in quanto processo intentato dai vincitori, il processo di Norimberga. «Fra i memorabili eventi storici del XX secolo questo processo segna la nascita di una nuova realtà istituzionale, la giustizia penale

27PIER PAOLO PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, cit. p. 83. Il testo richiama JOHN LAUGHLAND, A

history of Political Trials. From Charles I to Saddam Hussein, Lang, Oxford 2008, pp. 51-61.

28Il 10 agosto del 1920, nella cittadina francese di Sèvres, l’Impero ottomano firmava il trattato di pace che definiva i termini dell’accordo tra questo e le potenze vincitrici della Prima Guerra mondiale - Francia, Italia e Regno Unito (alla firma prese parte anche il Giappone). Con il Trattato di Sèvres venivano dunque definiti quelli che sarebbero dovuti essere i nuovi confini della Turchia dopo la caduta dell’Impero ottomano Il territorio della Turchia veniva così ridotto alla sola penisola anatolica. Le decisioni prese a Sèvres - che sarebbero state superate solo grazie alla guerra d’indipendenza guidata da Mustafà Kem¯al - avrebbero lasciato nella nuova classe dirigente turca il ricordo del tentativo di smembramento del paese, perpetuato dalle potenze europee con il sostegno delle nazionalità ad esse affini presenti sul territorio nazionale. Si parla dunque comunemente di “sindrome di Sèvres” per riferirsi a una latente sindrome da accerchiamento che caratterizza la concezione turca della sicurezza nazionale, passibile di essere messa in discussione contemporaneamente dall’esterno e dall’interno del paese. http://www.treccani.it/enciclopedia/la-turchia-e-la-sindrome-di-sevres/.

29Il trattato di Losanna è un trattato di pace firmato a Losanna, in Svizzera, il 24 luglio 1923 tra la Turchia e le Potenze dell'Intesa che combatterono nel corso della prima guerra mondiale e nella successiva guerra d'indipendenza turca. Il trattato, detto anche convenzione di Losanna, pose fine al sanguinoso conflitto greco-turco e sancì i confini tra Grecia, Bulgaria e Turchia, oltre a determinare la fine di ogni pretesa turca su Cipro, Iraq e Siria, insieme con il trattato di Ankara. Dopo il respingimento delle forze armate e l'espulsione delle popolazioni greche da parte delle armate turche guidate da Mustafa Kemal (Kemal Atatürk), il nuovo governo turco decise di rigettare il recente trattato di Sèvres. Il 20 ottobre 1922 venne quindi riaperto il tavolo delle trattative che, dopo notevoli dibattiti, venne nuovamente interrotto dai rappresentanti turchi guidati da İsmet İnönü il successivo 4 febbraio 1923. Il confronto venne riaperto il 23 aprile, e nonostante le ulteriori proteste del governo di Atatürk, il trattato venne infine ratificato il 24 luglio successivo. http://www.treccani.it/enciclopedia/losanna.

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internazionale, che era stata preceduta da un grande lavoro preparatorio31 e che nel suo sviluppo, culminato nell’istituzione della Corte penale internazionale, si è costantemente richiamata, come a un precedente positivo, ai “principi di Norimberga” (e alla definizione dei “crimini internazionali” contenuta nello Statuto di Londra dell’8 agosto 1945 e poi perfezionata durante il processo e nelle sedi internazionali negli anni seguenti). In positivo non si dovrebbe sottovalutare il fatto che, sotto il profilo simbolico, nonostante l’atmosfera piuttosto burocratica in cui si svolsero i dibattimenti, il processo ebbe un notevole impatto sull’opinione pubblica internazionale32». «Da parte di molti

osservatori dell’epoca, come successivamente di molti studiosi, ne fu evocato, viceversa, il carattere della spettacolarità: la teatralità del “fare giustizia” nelle aule dei tribunali è in alcuni casi la sublimazione cui ricorre la civiltà giuridica per giustiziare il colpevole; è la manifestazione sincera di rendere giustizia alle vittime; è anche una forma di ritualità per mostrare la validità dei principi ispiratori dei vincitori ed affermarne la superiorità etica rispetto agli sconfitti, per legittimare – nel caso di Norimberga – il sistema delle regole democratiche e del diritto occidentali, per fondare su solide basi il nuovo ordine giuridico e politico postbellico»33. «Al tempo stesso, però, questo precedente appare connotato da un grave vizio di origine, per cui si è parlato di “giustizia dei vincitori”: gli Alleati diedero vita a un tribunale militare internazionale in cui non trovarono posto i giudici di paesi neutrali e che non era chiamato a indagare sui crimini commessi dai paesi che avevano sconfitto le potenze dell’Asse.

Sulla portata delle innovazioni introdotte dal primo esperimento di giurisdizione penale internazionale e sulla precarietà delle sue basi giuridiche la dottrina non ha lesinato le critiche. Più di un autore, in polemica con la tesi che fa di Norimberga un forerunner of universal justice (precursore della giustizia universale), ha sostenuto che quella giurisdizione aveva violato il principio di irretroattività34 (che concerneva, oltre al crimine contro la pace, anche i crimini contro l’umanità), il

principio di imparzialità (essendo gli imputati scelti esclusivamente tra i vinti e i giudici esclusivamente tra i vincitori), il principio di divisione dei poteri (essendo stati da un lato i governi,

31Nell’autunno del 1943 era stata costituita la United Nation War Crimes Commission (UNWCC), con il compito di apprestare le liste degli imputati: fino al Luglio 1947 appaiono 60 liste con 28.440 nomi, di cui quasi un quarto (6197) segnalati dalla Polonia; a compimento della sua attività nel 1948, si era arrivati all’identificazione di 36.529 persone: cfr. NORBERT FREI, (a cura di), Transnationale Vergangenheitspolitik. Der umgang mit Deutschen Kriegsverbrechern in

Europa nsch dem Zweiten Weltkrieg, cit., p. 11.

32PIER PAOLO PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, cit. p. 85. Nel testo è citato LAWRENCE DOUGLAS,

The memory of Judgment. Making Law and History in the Trials of Holocaust, Yale University Press, New Haven 2001.

33LUCA BALDISSARA, Giudizio e castigo. La brutalizzazione della guerra e le contraddizioni della giustizia politica, in LUCA BALDISSARA e PAOLO PEZZINO (a cura di), Giudicare e Punire, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2005, p. 9.

34Principio per il quale le norme di legge non possono disporre che per il futuro (principio di irretroattività della legge), cioè per il tempo successivo alla loro emanazione. L'irretroattività ha una portata assoluta soltanto in materia penale (art. 2 cod. pen. e art. 25, 2° comma, della Costituzione), ben potendo una legge prevedere che essa si applichi anche a fatti precedenti la sua promulgazione (effetto retroattivo) http://www.treccani.it/enciclopedia/irretroattivita/.

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dall’altro gli stessi giudici e procuratori a dettare le norme del processo), l’esclusione delle vittime, a cui non venne concesso di costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento e anche altre garanzie processuali (essendo rimasta la difesa in larga misura in balia della benevolenza dei giudici). Essi ne ravvisavano l’intrinseca contraddizione nel fatto che, da un lato, mentre si perseguiva il fine di rafforzare il diritto internazionale sottraendolo alla disposizione degli stati sovrani, dall’altro però, si attribuiva al vincitore la potestà di giudicare, esercitando quindi inevitabilmente una giustizia politica»35. «La doglianza più fondata era indubbiamente quella che gli anglosassoni definivano tu quoque: come si potevano accusare le truppe tedesche di azioni di cui anche i loro avversari si erano

resi responsabili? All’ammiraglio Dönitz venne rimproverato di aver affondato, senza preavviso, navi battenti bandiere neutrali che si trovavano nelle acque interessate da operazioni militari. L’imputato portò le prove che gli Alleati avevano fatto lo stesso. E ciò giustificò questo sorprendente paragrafo della sentenza36:

“Considerati i fatti, considerato un ordine dell’ammiragliato britannico in data 8 maggio 1940 secondo cui tutti i natanti naviganti di notte nella zona di Skagerrak dovevano essere affondati, e viste le risposte date dall’Ammiraglio Nimitz alle domande rivoltegli e precisando che gli Stati Uniti stavano conducendo una guerra sottomarina senza esclusione di colpi nell’Oceano Pacifico fin dal primo giorno della loro entrata in guerra, Dönitz non può essere condannato per violazione del diritto internazionale in materia di guerra sottomarina”.

Gli identici misfatti commessi dagli Alleati, invece di condurre alla condanna “anche” di questi ultimi, giustificarono al contrario l’assoluzione degli imputati tedeschi37». Se per un verso, in alcuni

casi, come quello pocanzi citato, il Tribunale si adopererà per allargare la base dell’innocenza e renderla diffusa ed usufruibile da tutti – vincitori e vinti – senza con ciò minimamente preoccuparsi di provocare potenziali imbarazzi dottrinali e giuridici, per far fronte alla nuova dimensione del crimine politico organizzato da un regime totalitario, a Norimberga si opererà, parimenti, questa volta nella direzione opposta, dilatando la sfera della responsabilità penale. «Sancire in forma di processo, quindi con il sigillo e l’autorità del diritto, la natura criminale del nazismo serviva a marcare una soluzione di continuità - ben più efficacemente di quanto si fosse riusciti a fare nel 1918 – rispetto al passato. Certo, si punivano i crimini, addirittura istituendo nuove categorie penali di reato per rendere conto della nuova fisionomia assunta dalla guerra, ma la punizione era funzionale ad un disegno politico che intendeva sanzionare lo strumento “guerra” in se, sancendo giuridicamente la fissazione

35PIER PAOLO PORTINARO, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, cit., p. 85. Il testo richiama HANS KELSEN, La

pace attraverso il diritto, Giappichelli, Torino 2006. LUCA BALDISSARA, Giudizio e castigo, cit., p. 34.

36ANTOINE GARAPON, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, il Mulino, Bologna 2004, pp. 16-17.

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di regole condivise e rispettate dalla comunità degli Stati e decidendo politicamente di affermare e applicare un principio di diritto internazionale»38. L’ampliamento normativo avvenne facendo ricorso alle fattispecie dei crimini di aggressione e di conspiracy (complotto contro la pace), attraverso i quali divenivano penalmente perseguibili le élites politiche, militari ed industriali del Reich, anche quando non fosse dimostrabile un loro diretto coinvolgimento in crimini di guerra o in crimini contro l’umanità. La qualificazione come criminali di determinate organizzazioni dello stato totalitario finì però per indebolire il principio della responsabilità individuale39. «A Norimberga, infatti, furono

giudicati solo gli ufficiali più in vista, coloro che in qualche modo potevano rappresentare, per il ruolo ricoperto, tutta la “casta”. Il lavoro degli accusatori fu dunque dedicato a raccogliere prove che consentissero di tracciare un quadro generale delle responsabilità delle organizzazioni incriminate per sostenere l’accusa di complotto di gruppo e poi dedurne le responsabilità individuali dei singoli componenti»40. Agli occhi dei critici del “modello di Norimberga” veniva così allo scoperto il problematico rapporto tra la dimensione collettiva dei crimini internazionali e la dimensione individuale della responsabilità penale. Per quanto sia opinione prevalente in dottrina che la posizione del tribunale in materia di retroattività fosse debole, va riconosciuto che i giudici e l’accusa si guardarono bene dal negare la validità del principio nullum crimen sine lege nel diritto internazionale41. Il pubblico accusatore Robert Jackson argomentò piuttosto che gli imputati avevano violato in modo così grave il diritto da aver pregiudicato la possibilità di appellarsi a quel principio. «Si tratta – dichiarò Telford Taylor (membro del collegio d’accusa statunitense capeggiato da Robert Jackson) - della decisione politica di affermare e applicare un principio di diritto internazionale». Il diritto interpreta la volontà politica, la declina in norme. Di fronte a situazioni eccezionali – senza dubbio lo erano lo sterminio di massa e il massacro pianificato della guerra d’aggressione nazista – è legittimo ricorrere a scelte eccezionali, oltre la consuetudine giuridica. Di più, il diritto internazionale – nel suo essere per definizione in fieri, in costante adattamento alle nuove situazioni e ai mutevoli equilibri – trova nell’intreccio tra azione politica e attività giuridica una sua dimensione consustanziale, dove l’una si alimenta dell’altra. Il processo di Norimberga fu l’ultimo atto della guerra o la prima pietra di una giustizia internazionale? «Il diritto di un momento o il momento di un diritto»?42 Probabilmente fu entrambe le cose. «Oggi è fondamentale restituire Norimberga alla storia,

38LUCA BALDISSARA, Violenza bellica e punizione dei crimini di guerra, cit., p. 121-122.

39I critici si sono accaniti contro il concetto di conspiracy, ritenuto così ampio da poter catturare chiunque nella sua rete: cfr. STANISLAW POMORSKY, Conspiracy and crimininal organization, in GEORGE GINSBURGS, VLADIMIR N. KUDRIAVTSEV (a cura di), The Nuremburg Trial and International Law, Nijhoff, Dordrecht 1990, pp. 213-248.

40LUCA BALDISSARA, Giudizio e castigo. La brutalizzazione della guerra e le contraddizioni della giustizia politica, in LUCA BALDISSARA e PAOLO PEZZINO (a cura di), Giudicare e Punire, cit. p. 49.

41Cfr. MACHTELD BOOT, Nullum crimen sine lege and the subject matter jurisdiction of the international criminal court, Intersentia, Antwerp 2002.

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posizionando quell’evento tra un prima e un dopo: il prima è rappresentato dal mutamento delle forme della guerra e dalla crescente manifestazione di violenza sui civili, dalle frustrazioni per la mancata punizione dei responsabili dello scoppio della Prima guerra mondiale, da una brutalizzazione della cultura di guerra tale da condurre a una pratica senza precedenti di violenza (politica, razziale, militare) che richiedeva criteri di giudizio e sanzione a loro volta senza precedenti. Il dopo è costituito dal suo divenire subito un punto di riferimento per i procedimenti immediatamente successivi contro criminali di guerra. Si guardò alla necessità di punire i crimini, addirittura istituendo nuove categorie penali di reato per rendere conto della nuova fisionomia assunta dalla guerra, della sua illimitata e ingovernabile violenza. Ma la punizione era inscritta – ed era funzionale – a un disegno politico che intendeva sanzionare lo strumento “guerra” in sé, segnalare che si era giunti a un pericoloso punto di non ritorno nel giustificare il perché e il come dare la morte»43. «Le molteplici imperfezioni sono state a poco a poco purgate dal lavoro minuzioso dei giuristi chiamati a estrapolarne i principi. Le irregolarità si sono prescritte con il trascorrere del tempo, per lasciare solo l’idea di un atto fondatore della nostra memoria collettiva. Con la creazione del tribunale di Norimberga, gli Alleati hanno nutrito un’immensa speranza, quella di un universalismo giuridico insensibile alle nazionalità, ai rapporti di potere. Norimberga è divenuto il sistema teorico di riferimento in cui si muove la giustizia penale internazionale»44. È innovativo sia per ciò che consacra, i crimini contro l’umanità, sia per ciò che rifiuta: il pretesto dell’obbedienza all’ordine del governo legittimo. In realtà la vera accusata del processo di Norimberga sarà la sovranità, intesa tanto come potere di decidere, quanto come finzione che garantisce l’immunità a coloro che la servono. Si rileggano le frasi di un grande storico della scuola prussiana:

«Quando il soldato ferisce e uccide, distrugge e incendia, non fa che compiere degli ordini; non agisce come individuo secondo le sue opinioni, ma in funzione di una delle diverse relazioni che costituiscono la sua soggettività e si aggrovigliano nella sua coscienza. Agisce conformemente a un io superiore»45.

«L’ONU non era stata coinvolta nel processo del Tribunale Militare Internazionale (IMT) di Norimberga sui criminali nazisti, né in processi susseguenti né nei lavori del tribunale internazionale di Tokyo46. Con la prima sessione dell’assemblea dell’ONU, che ebbe luogo dopo la pronuncia del

43LUCA BALDISSARA, Giudizio e castigo. La brutalizzazione della guerra e le contraddizioni della giustizia politica, in LUCA BALDISSARA e PAOLO PEZZINO (a cura di), Giudicare e Punire, cit. pp. 35-61.

44ANTOINE GARAPON, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, cit. pp. 18 e 68.

45Citato da ÈDOUARD HUSSON, Comprendre Hitler et la Shoah. Les historiens de la république féderale d’Allemagne et

identité allemande depuis, Puf, Parigi 2002, p. 240.

46Processo di Tokyo è il nome che viene utilizzato in riferimento ai procedimenti del Tribunale militare internazionale per l'Estremo Oriente (International Military Tribunal for the Far East, IMTFE), istituito per giudicare le più importanti personalità dell'Impero giapponese accusate di aver commesso, prima e durante la Seconda guerra mondiale, tre tipologie di crimini: crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Il tribunale si riunì per la prima

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