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CAPITOLO 2. Valutazione del ruolo prognostico e predittivo dell’instabilità de

2.1 Razionale dello studio

Con il termine CCA intendiamo un gruppo eterogeneo di neoplasie derivanti dall’epitelio di rivestimento dell’albero biliare, accomunate tra loro da una diagnosi generalmente tardiva e una prognosi pessima2. Il trattamento chirurgico rappresenta

ad oggi l’unica opzione terapeutica potenzialmente curativa ma soltanto una quota minoritaria dei pazienti (35% circa) presenta alla diagnosi una neoplasia in stadio iniziale, candidabile alla chirurgia con intento curativo5. Inoltre, anche a fronte di interventi chirurgici potenzialmente radicali, il tasso di recidiva di questa neoplasia rimane elevato, oscillando tra il 49% e il 64%152, mentre la sopravvivenza globale a 5 anni non supera il 40% in tutte e tre le tipologie di CCA130. Proprio per questo motivo nel corso degli anni si è fatta sempre più forte la necessità di trattamenti a scopo adiuvante che potessero migliorare l’outcome dei pazienti post-resezione. A questo proposito lo studio che ha dimostrato maggior successo nell’ambito del trattamento adiuvante è lo studio BILCAP, il quale ha confrontato il trattamento con capecitabina rispetto alla sola osservazione nei pazienti con neoplasie del tratto biliare sottoposti a resezione con intento curativo249; nei pazienti appartenenti al braccio di trattamento si è osservato un miglioramento in termini di OS di 53 mesi rispetto ai 36 dei pazienti sottoposti a sola osservazione (HR=0.75, 95% CI, 0.55-0.92, p=0.028)219. Dal termine di questo studio in poi, la capecitabina a scopo adiuvante rientra nello standard di trattamento dei pazienti con neoplasie biliari229.

La maggior parte dei pazienti (circa il 60-70%) giunge alla diagnosi con malattia localmente avanzata o metastatica, per questo non candidabile a intervento chirurgico radicale220. La prognosi di questi pazienti è infausta, con sopravvivenza a 5 anni

inferiore al 20%232. Alcuni pazienti accuratamente selezionati, con malattia situata principalmente a livello epatico, possono beneficiare di trattamenti loco-regionali come la EBRT, la TACE, la TARE e la chemioterapia intra-arteriosa, anche se, sfortunatamente, i benefici riguardanti questi trattamenti derivano da piccoli studi retrospettivi di fase II229. Sono necessari quindi studi più approfonditi, randomizzati e

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su casistiche più ampie al fine di dimostrare il reale beneficio di questi approcci terapeutici144. La chemioterapia sistemica rappresenta quindi lo standard di cura nei pazienti con malattia non resecabile. L’evidenza principale a sostegno di questa tesi proviene dallo studio ABC-02 che sottolinea in particolare la superiorità della combinazione tra gemcitabina e cisplatino rispetto alla sola gemcitabina. Tale studio di fase III ha riportato un OS medio di 11.7 mesi contro gli 8.1 mesi del braccio che ha ricevuto soltanto gemcitabina (HR 0.64; 95% CI 0.52-0.80; P<0.001) e successivamente la doppietta cisplatino+gemcitabina è diventata lo standard di trattamento di prima linea nei pazienti con neoplasia in fase avanzata219. I pazienti che

progrediscono dopo la prima linea di trattamento spesso vanno incontro a un rapido peggioramento del performance status e soltanto un piccolo gruppo potrà beneficiare di altre opzioni terapeutiche; fino a poco tempo fa inoltre non vi erano evidenze che supportassero il ricorso a una seconda linea di trattamento229. Recentemente è stato presentato all’ASCO Annual Meeting 2019 uno studio randomizzato di fase III (ABC- 06) che ha confrontato il trattamento sintomatico (ASC: Active Symptom Control) post prima linea e l’associazione tra il regime FOLFOX (5-FU e oxaliplatino) ed il controllo della sintomatologia. Questo studio ha dimostrato un miglioramento in termini di sopravvivenza globale di 6.2 mesi del braccio trattato rispetto ai 5.3 mesi del braccio ASC (HR 0.69; 95% CI 0.50-0.97; p=0.031), con un miglioramento dei tassi di sopravvivenza sia a 6 che a 12 mesi. Proprio in seguito a queste evidenze il trattamento con FOLFOX e controllo attivo dei sintomi dovrebbe essere incluso nella seconda linea standard dei pazienti con neoplasie delle vie biliari232.

Nonostante il beneficio della chemioterapia sistemica sia ormai largamente dimostrato, la sopravvivenza dei pazienti rimane, nella maggior parte dei casi, inferiore a un anno dall’inizio del trattamento218. Per questo motivo e anche per un importante

miglioramento in termini di sequenziamento genomico e biologia molecolare, nel corso degli ultimi anni l’attenzione si è concentrata sempre più sul ruolo della terapia target. I farmaci a target molecolare sicuramente più studiati sono quelle diretti contro il gene di fusione FGFR2 e gli alleli IDH-mutanti che, sebbene abbiano dimostrato una promettente attività, necessitano di ulteriori approfondimenti219.

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In questo complesso scenario si rende necessario lo sviluppo di nuove terapie in grado di migliorare la prognosi dei pazienti affetti da CCA ed altre neoplasie delle vie biliari. Nel corso degli ultimi anni, l’acquisizione di ulteriori conoscenze riguardanti la colangiocarcinogensi, ha permesso di identificare nuovi biomarker che potrebbero rappresentare il target d’azione del trattamento immunoterapico.

Il sistema MMR comprende una serie di enzimi deputati alla riparazione di specifici mismatch della a livello della doppia elica di DNA ed è strettamente dipendente da quattro geni chiave: MLH1, PMS2, MSH2, MSH6. Gli eterodimeri formati da MSH2/MSH6 identificano e si legano al tratto di DNA contenente l’errore dopodiché l’eterodimero MLH1/PMS2 scinde la sequenza implicata e sintetizza una nuova catena di DNA correttamente conformata253,254. Se una o più di queste proteine non sono espresse o sono disfunzionali lo status prende il nome di dMMR (deficient MMR). Ad esempio, la disfunzione a carico di MLH1 o MSH2 porta all’inattivazione dei dimeri MLH1/PMS2 e MSH2/MSH6 e alla conseguente degradazione di PMS2 e MSH6255. L’inattivazione dei geni MMR o la disfunzione delle proteine da essi prodotte può derivare da mutazioni della linea germinale o da alterazioni spontanee, che inducono un fenotipo definito MSI (instabilità dei microsatelliti). I microsatelliti sono brevi sequenze ripetute di DNA presenti normalmente nel genoma umano; a seguito di specifiche mutazioni, i microsatelliti possono variare nel numero di ripetizioni rendendo in tal modo il DNA instabile. Più di 100.000 aree di piccole e ripetitive sequenze tandem di DNA rappresentano i siti diagnostici di questa condizione; come raccomandato dal National Cancer Institute nel 1998, i siti standard utilizzati nei test di identificazione del fenotipo MSI sono rappresentati da due ripetizioni mononucleotidiche (BAT25 e BAT26) e da tre ripetizioni dinucleotidiche (D5S346, D2S123 e D17S250). Se una o più di queste ripetizioni risulta alterata, il tumore è definito MSI-high; se invece viene ritrovata soltanto una sequenza mutata la neoplasia viene definita MSI-low, altrimenti si parla di stabilità dei microsatelliti (MSS)252.

56 Figura 8: Processo del DNA mismatch repair (tratto da: Zhao P. Mismatch repair

deficiency/microsatellite instability-high as a predictor for anti-PD-1/PD-L1 immunotherapy efficacy. Journal of Hematology & Oncology. 2019)

I deficit a carico dei meccanismi di mismatch repair conducono a un’instabilità genomica, che aumenta l’immunogenicità del tumore e induce una miglior risposta all’immunoterapia. Il miglioramento della risposta a queste terapie nei tumori non particolarmente immunogenici può essere ottenuto in diversi modi: a) aumentando il danno al DNA (tramite l’utilizzo di chemioterapia e radioterapia), b) inducendo un difetto a carico dei meccanismi di MMR nei pazienti altrimenti “normali” (usando farmaci che inibiscono tale processo), c) utilizzando farmaci immunoterapici nei pazienti con riconosciuto deficit di MMR.

L’incidenza dei tumori dMMR/MSI-high è diventata di particolare rilevanza clinica dal momento che è stato dimostrato che tali neoplasie sono significativamente più responsive ai farmaci che vanno a bloccare i checkpoint immunitari, nello specifico gli anticorpi diretti contro PD-1 o PD-L1, rispetto alle neoplasie MMR proficienti200. L’immunoterapia a base di anticorpi anti-PD-1/PD-L1 ha portato a enormi successi nel trattamento di svariate neoplasia come il melanoma, il NSCLC (il carcinoma polmonare non a piccole cellule), il carcinoma colon-rettale metastatico, il carcinoma a cellule renali, il carcinoma vescicale, le neoplasie squamose del distretto testa-collo,

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il linfoma di Hodgkin e il carcinoma a cellule di Merkel. D’altro canto, soltanto una piccola percentuale di pazienti con tali neoplasie è sensibile al trattamento con i suddetti farmaci. Recenti studi suggeriscono come lo status MMR possa rappresentare un biomarker candidato per predire la risposta dei pazienti con neoplasie solide al trattamento con inibitori dei checkpoint immunitari. Gli studi KEYNOTE-016, 164, 012, 028 e 158 descrivono risultati impressionanti in seguito all’utilizzo di pembrolizumab nei pazienti con neoplasie dMMR/MSI-high post-progressione alla chemioterapia standard; in particolare pembrolizumab porta a una risposta durativa e a un beneficio in termini di sopravvivenza nei pazienti con neoplasia metastatica dMMR/MSI-high chemio-refrattaria252.

Un recente consensus Statement della European Network for the study of Cholangiocarcinoma (ENS-CCA) ha sottolineato l’importanza del DDR (DNA Damage Repair) come uno dei meccanismi di chemioresistenza dei tumori della via biliare. La prevalenza di mutazioni a carico dei geni del DDR differisce in base alla tipologia di neoplasia; quando confrontate con altre neoplasie il deficit a carico di DDR nei tumori gastrointestinali sembra infrequente. Nonostante ciò il targeting dei geni coinvolti nel meccanismo di DDR dovrebbe essere considerato nei trials clinici futuri sia nelle neoplasie gastrointestinali che nei tumori delle vie biliari.

Lo stato dei meccanismi di MMR (mismatch-repair) e MSI (microsatellite instability) sono state studiate nei pazienti con neoplasie dell’albero biliare; in particolare a una prima osservazione sembra che sia dMMR che il fenotipo MSI-high sia infrequente nei pazienti con neoplasia non associata a sindrome di Lynch: 5% di MSI-high nei pazienti con carcinoma della colecisti, 5-13% nei pazienti con eCCA e fino al 10% nei pazienti con iCCA. Al contrario altri studi hanno messo in evidenza tassi maggiori di alterazioni di MMR (intese come negatività di MLH1 e MSH2): 51.3% e 59% nel tumore della colecisti, e 57.1% e 65.7% nell’eCCA, rispettivamente250.

Il recente studio KEYNOTE-158 (studio di fase II, non randomizzato, open-label, multicentrico) ha arruolato 233 pazienti con 27 neoplasie diverse dal carcinoma colon- rettale, tra cui anche CCA, non resecabili o metastatiche che sono andati incontro a progressione o intolleranza post-terapia standard. I pazienti arruolabili hanno ricevuto

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200 mg di pembrolizumab ogni 3 settimane per 35 cicli (approssimativamente per 2 anni) o fintanto che non veniva dimostrata progressione di malattia, tossicità inaccettabile o per decisione del paziente. Lo stato MMR/MSI è stato determinato sia attraverso la perdita dell’espressione proteica tramite immunoistochimica sia tramite PCR. Al momento dell’analisi dei risultati è emerso nei pazienti trattati, con un follow- up medio di 13.4 mesi, si assiste a un tasso di risposta oggettiva pari al 34% con PFS medio di 4.1 mesi e OS medio di 23.5 mesi. Ancora più importante il fatto che la risposta al trattamento è duratura nel tempo (stimata intorno ai 24 mesi o più). In conclusione, questo studio dimostra il beneficio clinico del trattamento con pembrolizumab nei pazienti che rispettano i criteri suddetti (neoplasia metastatica o non resecabile, precedentemente trattata con terapia standard), supportando l’approvazione di tale farmaco immunoterapico in tutti quei pazienti con fenotipo MSI-high o deficit dei MMR, indipendentemente dalla localizzazione anatomica della neoplasia251.

Perché lo status dMMR riflette l’efficacia dell’immunoterapia? Le DT et al riportano, in seguito al sequenziamento genomico, come una media di 1782 mutazioni somatiche e 578 potenziali neoantigeni sono stati riscontrati nei tumori dMMR, comparati alle 73 mutazioni somatiche e 21 neoantigeni nei tumori pMMR (p=0.007). Questo elevato numero di mutazioni somatiche e neoantigeni è stato correlato ad una migliore risposta ed a una PFS più duratura. In più, le neoplasie dMMR possiedono un denso infiltrato di linfociti T CD8+, che contribuiscono a rendere tale risposta duratura. Sulla scia dei precedenti risultati, dovrebbe essere considerato nella pratica clinica il test di routine dello status dMMR, indipendentemente dall’origine del tumore, in quanto potrebbe portare a un beneficio inaspettato nei pazienti con fenotipo dMMR/MSI-high252. Sebbene l’interesse nei confronti dell’impatto prognostico e predittivo dell’instabilità dei microsatelliti nelle neoplasie della via biliare stia recentemente prendendo piede, le conoscenze a riguardo sono ancora poche e necessitano di ulteriori approfondimenti. Sulla base di queste osservazioni, abbiamo deciso di intraprendere uno studio multicentrico al fine di valutare la presenza dell’instabilità microsatellitare e il suo eventuale ruolo prognostico e predittivo nei pazienti affetti da neoplasia delle vie

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biliari seguiti presso il Polo Oncologico dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana (AOUP). Sono stati inoltre inclusi nello studio pazienti attualmente in cura presso il Policlinico di Modena e presso il Policlinico Tor Vergata di Roma.

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