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1.4 La riproduzione nella cultura e nell’arte contemporanea

1.4.2 Dal ready made all’Appropriation Art

La copia da precedenti opere d’arte, per creare nuovi lavori, ha trovato una nuova e significativa espressione nella corrente artistica detta “Appropriation Art” (“appropriazionismo”), che ha cominciato ad essere teorizzata negli anni ’80 ed è oggi considerata una delle più tipiche espressioni della cultura postmoderna. L’Appropriation Art consiste nel prendere immagini o oggetti già esistenti come base per nuove opere d’arte. In questo contesto di appropriazione di immagini altrui, è chiaro come l’abilità nella creazione manuale si situi in secondo piano rispetto all’idea che sta dietro l’opera.

Gli albori dell’Appropriation Art possono essere fatti risalire al “collage” dei cubisti, realizzati ad esempio da Pablo Picasso (1881 – 1973) e George Braque (1882 – 1963) già nei primi anni ‘10. I due pittori utilizzano per la prima volta oggetti reali, come ad esempio la carta di giornale, per rappresentare l’oggetto stesso. La pratica si sviluppa ulteriormente dopo i primi ready made di Marcel Duchamp, con cui l’artista si appropria di oggetti comuni e li eleva a opere d’arte. Con Ruota di bicicletta (1913) o con l’orinatoio Fountain (1917), oggetti “pronti” e non creati dall’artista che poco li modifica, Duchamp sconvolge il concetto di proprietà intellettuale, e avanza l’ipotesi che l’idea creativa abbia più importanza dell’abilità manuale artistica100. Inoltre è importante ricordare la celebre opera di Duchamp L.H.O.O.Q. (1919), forse primo vero esempio moderno di appropriazionismo, quando l’artista pone un paio di baffi e un pizzo alla celebre Monna Lisa di Leonardo da Vinci.

Anche Salvador Dalì (1904 – 1989), una delle figure principali della corrente surrealista, fece ampio uso dell’appropriazione di oggetti comuni, come ad esempio nel Lobster Telephone (1936).

100 Vettese A., L’arte contemporanea: tra mercato e nuovi linguaggi, Bologna, Il Mulino, 2012, p.

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Nella Pop Art è pratica molto diffusa appropriarsi di oggetti e immagini ben conosciuti, che potrebbero a prima vista sembrare dei ready made, ma che presentano invece delle differenze. Ad esempio, Roy Liechtenstein (1923 – 1997) nella realizzazione delle sue riproduzioni ingigantite di fumetti e ritagli di giornale, dipinge e ridisegna interamente le figure con colori e pennello. Le Brillo Boxes (1964) di Andy Warhol sono in legno e cartone, dipinte con il colore, a differenza delle stampe del logo di James Harvey per le scatole di sapone per stoviglie. Non sono dunque oggetti pronti ed elevati ad opere d’arte, ma piuttosto appropriazioni dell’immagine massificata, per riflettere sul consumo bulimico di immagini della pubblicità o dell’intrattenimento, per analizzare il mondo in cui le immagini nascono e diventano un linguaggio quotidiano assordante101.

Verso la fine degli anni ‘50, esponenti della Pop Art come Jasper Johns (1930) con i suoi collage (in cui include nelle opere oggetti d’uso comune) e Robert Rauschenberg (1925 – 2008) con i combine-paintings (assemblaggi di oggetti e materiali di varia natura), ritornano all’utilizzo di oggetti fisici della cultura di massa, decontestualizzati e presentati come vere e proprie opere d’arte, come aveva già fatto Duchamp.

Sebbene l’Appropriation Art abbia avuto questi precedenti, il termine viene comunemente associato ad alcuni artisti americani a partire dagli anni ‘80, tra cui Sherrie Levine (1947) e Jeff Koons. La ri-fotografia di Sherrie Levine After

Walker Evans (1981) ne è un ottimo esempio. La Levine fotografa, tra le altre,

la nota fotografia di Walker Evans (1903 – 1975) che ritrae Allie Mae Burroughs, moglie di un coltivatore dell’Alabama. Tale fotografia per la Levine diventa simbolo della cultura postmoderna, nonché critica della mercificazione dell’arte, elogio della morte del modernismo, inteso come incapacità degli artisti a lei contemporanei di ricatturare il passato e cercare

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di creare significati sempre nuovi. Le fotografie di Evans non erano protette da copyright all’epoca, e paradossalmente le stesse fotografie sono invece protette da copyright nel caso dell’opera della Levine. Interessante, in questo contesto, è la creazione nel 2001 di due siti web da parte dell’artista e programmatore Michael Mandiberg (1977): www.aftersherrielevine.com e

www.afterwalkerevans.com. L’artista ha scannerizzato le fotografie della

Levine e di Evans e creato i due siti web per facilitarne la loro diffusione. Chiunque può stampare dal sito le fotografie con un certificato di autenticità da firmare che rende unica ogni immagine. L’idea di Mandiberg è di diffondere queste opere rendendone nullo il valore economico (tutti infatti possono scaricarle), ma aumentare con la diffusione il loro valore culturale. Sherrie Levine realizza anche Fountain (after Marcel Duchamp: A. P.) (1991), in cui ripropone il celebre orinatoio dell’artista padre dei ready made e non solo eleva l’oggetto comune e triviale a opera d’arte, come fatto in precedenza da Duchamp, ma lo realizza in un bronzo brillante, quasi a farlo sembrare dorato, per trasformarlo in un oggetto unico e quindi stravolgendo anche la stessa idea di Duchamp, che rendeva oggetti comuni opere d’arte semplicemente proclamandoli tali.

L’americano Jeff Koons, dal canto suo, è spesso considerato l’erede di Marcel Duchamp, perché utilizza la tecnica del ready made per appropriarsi di oggetti nella catena del consumo di beni ordinari e, trasformandoli in sue opere d’arte, li eleva allo status di beni estetici, catena più alta. Egli prende da Andy Warhol la volontà di critica della mercificazione e massificazione della cultura. Realizza opere d’arte con oggetti spesso kitsch, presi dal quotidiano o dal mondo dell’infanzia.

L’Appropriation Art pone delle domande sul tema dell’originalità, dell’autenticità e della paternità dell’opera d’arte, e appartiene a una tradizione modernista che da Duchamp mette in discussione la natura e la

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definizione dell’arte stessa. Sicuramente gli artisti citati in questo capitolo, che si appropriano di immagini e oggetti, sono stati supportati da saggi critici, come L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti (1985) di Rosalind Krauss (1941), che prendeva le mosse da L’opera d’arte nell’epoca della

sua riproducibilità tecnica (1936) di Benjamin.