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Realtà, immaginazione e progettualità nell’utopia

I. La città nell’Europa del Settecento tra realtà e immaginazione

2. Rappresentazione della città ideale

2.1 Realtà, immaginazione e progettualità nell’utopia

Nel 1516 appariva a Lovanio un testo che avrebbe ottenuto straordinaria fortuna presso i contemporanei e le generazioni successive. Si trattava del Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia3 di

Thomas More, pubblicato presso lo stampatore Thierry Martens grazie anche all’intercessione di Erasmo da Rotterdam; l’opera fu presto tradotta in tedesco (1542), italiano (1548), francese (1550) e inglese (1551) conoscendo numerose riedizioni nei secoli successivi4. ‘Utopia’ era il nome con cui l’autore designava l’isola della cui

perfezione si faceva divulgatore, attraverso le parole del viaggiatore Raffaele Itlodeo, e che finì presto per indicare, per analogia, tutte le descrizioni di comunità immaginarie organizzate secondo principi chiaramente stabiliti, dislocate in un altrove spaziale e/o temporale e proponenti un modello di vita sociale differente da quello reale5.

3 THOMAS MORE, Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia, Louvain, Thierry Martens, 1516.

4 RAYMOND TROUSSON, Voyage aux pays de nulle part, Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles,

1979 (I° ed. 1975), p. 51.

5 Se le opere di teoria del concetto costituiscono parte importante della ricerca sull’utopia, le analisi specificamente dedicate al ‘genere utopico’ sono costruite prevalentemente – ma non solo – sui rapporti individuati tra utopia e letteratura. Privilegiando la concezione dell’utopia come genere letterario, nella forma del racconto propriamente utopico o del ‘progetto per una migliore forma di governo’ sul modello di Platone, gli studiosi si sono allora confrontati con una varietà e una complessità tematica tale da consentire molteplici spazi di indagine. Numerosi sono gli esempi di una letteratura incentrata sulla disamina di particolari motivi letterari frequenti nelle molte proposte descrittive, più o meno limitate a tempi e/luoghi determinati. Alla base di tali studi sono tuttavia le opere generali volte ad una considerazione completa del modello letterario dell’utopia come le fondamentali ricostruzioni di Louis Marin (LOUIS MARIN, Utopiques. Jeux d’espace, Paris, Les

Éditions de Minuit, 1973) e Raymond Trousson (TROUSSON, Voyage aux pays de nulle part, cit.). Una

bibliografia esaustiva sarebbe qui impensabile, ma oltre alle opere che avremo modo di considerare direttamente si indicano: GEORGE BENREKASSA, Le concentrique et l’excentrique, marges des Lumières,

Paris, Payot, 1980; ARRIGO COLOMBO, L’utopia. Rifondazione di un’idea di storia, Bari, Edizioni

Dedalo, 1997; VITTOR IVI COMPARATO, Utopia, Bologna, Il Mulino, 2005; VITA FORTUNATI – NADIA

MINERVA (ed.), Per una definizione dell’utopia. Metodologie e discipline a confronto. Atti del convegno internazionale di Bagni di Lucca. 12-14 settembre 1990, Ravenna, Longo Editore, 1992;

VITA FORTUNATI – PAOLA SPINOZZI, Vite di Utopia, Ravenna, Longo Editore, 2000; GIACOMO GRASSI, Utopia morale e utopia politica, Messina-Firenze, G. D’Anna, 1980; HINRICH HUDDE – PETER KUON

(éd.), De l’utopie à l’uchronie. Formes, significations, fonctions. Acte du colloque d’Erlangen. 16-

18 octobre 1986, Tübingen, Gunter Narr Verlag, 1988; JEAN-YVES LACROIX, L’utopie. Philosophe de la Nouvelle Terre, Paris, Bordas, 1994; ARMAND MATTELART, Histoire de l’utopie planétaire: de la cité prophétique à la société globale, Paris, Éditions la Découverte, 1999; JEAN-MICHEL RACAULT, Nulle parte et ses environs. Voyage aux confins de l’utopie littéraire classique (1657-1802), Paris, Presse

de l’Université de Paris-Sorbonne, 2003; HUBERTUS SCHULTE HERBRÜGGEN, Utopie und Anti-Utopie; von der Strukturanalyse zur Strukturtypologie, Bochum-Langendreer, Pöppinghaus, 1960; RAYMOND

TROUSSON, «Utopie et roman utopique», Revue des sciences humaines, L’Utopie, n. 155, vol. 3, 1974,

«Une utopie est la description d’un monde imaginaire, en dehors de notre espace ou de notre temps, ou, en tout cas, de l’espace et du temps historique et géographique. C’est la description d’un monde constitué sur des principes différents de ceux qui sont à l’œuvre dans le monde réel»6. Insistendo sulla dimensione di alterità in rapporto al dato

contingente, Raymond Ruyer sottolinea l’interdipendenza tra la descrizione letteraria e la realtà, che nella prima si trova sovvertita e ridefinita7. L’importanza della realtà è del

resto esplicitata dalla struttura stessa del testo di More, poiché la descrizione della comunità ideale è preceduta da una prima parte in cui, mediante un lungo dialogo tra l’autore, Raffaele Itlodeo e Pierre Gilles, vengono illustrati gli elementi critici della situazione inglese di inizio Cinquecento, ponendo l’accento sui fattori che determinano la drammaticità di una crisi diffusa. Lo sfruttamento nobiliare, la crisi agricola, l’aumento dei prezzi, il dilagare di un’immorale cultura del lusso (le cui implicazioni economiche non sono però ancora all’ordine del giorno) sono solo alcuni degli elementi che spingono i protagonisti a riflettere sulla forma delle leggi e sulla concezione dello stato. Quando l’esposizione del vero e proprio modello utopico non è ancora in questione, oltre ad introdurre il lettore verso la considerazione dei problemi contingenti, Raffaele Itlodeo espone lucidamente i punti deboli del sistema, riconoscendo la cupidigia dei consiglieri reali, la brama territoriale degli stati, l’assenza di una concezione del potere monarchico in funzione del benessere comune, come le cause prime della riduzione in miseria delle popolazioni.

Se la disamina del dato reale comincia ora a convergere verso una dimensione meditativa più ampia e generale, nella riflessione sulle conseguenze della proprietà privata il discorso assume i toni di una teorizzazione politica che, per quanto incompleta e velocemente trattata, pone le basi per la seconda parte dell’opera, dove prende corpo la descrizione della popolazione di Utopia, splendido esempio di società comunitaria felice e appagata.

Non essendo questa la sede per l’approfondimento dei tratti caratterizzanti la

6 RAYMOND RUYER, L’utopie et les utopistes, Paris, Puf, 1950, p. 3.

7 Anche Jean-Michel Racault, in una diversa ottica, ripropone il rapporto realtà/finzione in termini di necessaria sovversione: «On appellera utopie narrative la description détaillée, introduite par un récit ou intégrée à un récit, d’un espace imaginaire clos, géographiquement plausible et soumis aux lois physique du monde réel, habité par une collectivité individualisée d’être raisonnables dont les rapports mutuels comme les relations avec l’univers matériel et spirituel sont régis par une organisation rationnellement justifiée saisie dans son fonctionnement concret. Cette description doit être apte à susciter la représentation d’un monde fictif complet, autosuffisant et cohérent, implicitement ou explicitement mis en relations dialectique avec le monde réel, dont il modifie ou ré-articule les éléments dans une perspective critique, satirique ou réformatrice.» (JEAN-MICHEL

RACAULT, L’utopie narrative en France et Angleterre, 1675-1761, Oxford, The Voltaire Foundation,

costruzione immaginata da More, basti qui sottolineare l’importanza dell’inserimento della proposta ‘comunitaria’ nella prima parte, non specificamente rivolta alla narrazione dello stato ideale8, giacché l’ipotesi della possibilità di una convivenza

sociale armoniosa in assenza della proprietà privata è anticipata nell’individuazione, non certo originale9, del denaro e della proprietà come cause primarie del malessere

contemporaneo e, per quanto l’abolizione della proprietà privata non sia l’unica chiave di lettura della proposta di More, essa costituisce un elemento importante della costruzione, fulcro della nuova organizzazione sociale. Il sociologo Bernardo Cattarinussi ha rivolto particolare attenzione alle modalità di elaborazione delle comunità utopiche sulla base di un principio essenziale, intorno cui ruota l’intera costruzione, evidenziando come ‘l’individuazione dell’origine del male’ sia una delle possibili chiavi di accesso alla comprensione del sistema utopico nei suoi principi fondanti. Le conclusioni cui arrivano i singoli autori, pur essendo il frutto di un sentire in qualche modo collettivamente riconosciuto, restano peculiari a ciascuna elaborazione,

8 «...dove c’è la proprietà privata, dovunque si commisura ogni cosa col denaro, non è possibile che tutto si faccia con giustizia per lo Stato» (THOMAS MORE, L’Utopia o la migliore forma di repubblica. A cura di Tommaso Fiore, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 50). O ancora: «Tanto io son pienamente

convinto che non è possibile distribuire i beni in maniera equa e giusta, o che prosperino le cose dei mortali, senza abolire del tutto la proprietà privata! Finché dura questa, durerà sempre, presso una parte dell’umanità che è di gran lunga la migliore e la più numerosa, la preoccupazione dell’indigenza, col peso inevitabile delle sue tribolazione.» (Ivi, p. 51).

9 L’individuazione della proprietà privata come la causa del malessere umano non è certamente un’intuizione esclusiva di More, che al contrario recupera l’idea in una tradizione secolare le cui radici possono essere rintracciate nelle forme comunitarie del primo Cristianesimo, per poi trovare elaborazione teorica in numerosi testi propriamente politici. Tuttavia, il riferimento più diretto di Thomas More è rappresentato dalla Republica di Platone che proprio sull’abolizione della proprietà privata aveva articolato parte della sua costruzione statale: «Vedi ora, disse, se per essere tali [i migliori guardiani possibili] è così che devono vivere e abitare: prima di tutto nessuno deve avere sostanze personali, a meno che non ce ne sia necessità assoluta; nessuno deve poi disporre di un’abitazione o di una dispensa cui non possa accedere chiunque lo voglia. Riguardi alla quantità di provviste occorrenti ad atleti di guerra temperanti e coraggiosi, devono ricevere dagli altri cittadini, dopo averla determinata, una mercede per il servizio di guardia, in misura né maggiore né minore del loro annuo fabbisogno. Devono vivere in comune, frequentando mense collettive come se si trovassero al campo. Per quello che concerne l’oro e l’argento, occorre dire loro che nell’anima hanno sempre oro e argento divino, per dono degli dèi, e che non hanno alcun bisogno di oro e argento umano. (…) E così potranno salvarsi e salvare lo stato. Quando però s’acquisteranno personalmente terra, case e monete, invece di essere guardiani, saranno amministratori e agricoltori; e diventeranno padroni odiosi anziché alleati degli altri cittadini.» (PLATONE, La Repubblica, Roma-

Bari, Laterza, 1997, [§416 d-417 b], pp. 223-224). Se l’abolizione della proprietà privata prevista da Platone si applica alla ‘classe dirigente’, composta dai governanti, ma anche dai guerrieri-difensori, nel sistema di More il principio è esteso a tutta la società. La proposta di More assume così una certa rilevanza se considerata alla luce dello sviluppo economico-sociale europeo della prima età moderna, quando cominciano lentamente a manifestarsi le condizioni per una riflessione politica sul valore del denaro, sui rapporti di produzione, sul ruolo del lavoro e quello del lusso. Per quanto tali temi diventino il centro della teorizzazione politica tra XVII e XVIII secolo, i primi segnali della situazione contingente che stimolerà la riflessione, cominciano a svilupparsi tra la fine dell’epoca medievale e l’inizio della modernità e ad attivare i primi segnali di inquietudine e diffidenza in autori contemporanei a quei mutamenti.

ma alcuni grandi temi ritornano ripetutamente in momenti storici anche lontani: così ad esempio per Platone e Tommaso Campanella la causa prima del malessere sociale è da ricercarsi nell’ ‘amor proprio’, per Denis Veiras sentimenti molteplici tra cui ‘orgoglio’, ‘avarizia’, ‘odio’, ecc., per Johannes Valentinus Andreæ, Étienne-Gabriel Morelly e appunto More la ‘proprietà privata’, del resto poi riproposta e approfondita dalla meditazione sulle ‘ineguaglianze sociali’ da parte delle utopie socialiste10.

Al di là delle questioni sollevate dall’introduzione di tale concetto, quello che qui interessa notare è quanto l’anticipazione del principio fondamentale dell’utopia dell’isola di More nella parte ‘realistica’ dell’opera ponga sotto un’interessante prospettiva il rapporto tra realtà e immaginazione su cui è costruito l’intero paradigma. In effetti, a una prima lettura le due parti potrebbero caratterizzarsi per l’utilizzo di un meccanismo immaginativo più o meno forte, articolandosi in un primo momento di critica spietata alla contingenza contemporanea e un secondo di formulazione di un ideale; eppure, le dimensioni di realtà e immaginazione non sono così nettamente scisse, giacché entrambe partecipano insieme alla strutturazione dell’intero discorso. Punto di partenza dell’opera, la realtà è l’elemento su cui piano piano viene progettata una nuova possibilità di aggregazione sociale, così che la critica dell’ordine inglese di inizio Cinquecento è funzionale alla messa in evidenza di alcuni punti chiave che l’elaborazione utopica tenterà di risolvere. Allo stesso modo, il meccanismo immaginativo, pienamente sviluppato nel disegno dell’isola sconosciuta, si insinua nel processo descrittivo ‘reale’ presentando nuove modalità di rappresentazione con cui è possibile affrontare il discorso politico-sociale11.

Dato contingente che l’utopia migliora rivoluzionandone le strutture fondamentali, la

10 BERNARDO CATTARINUSSI, «L’organisation sociale en utopie», in ARTHUR O. LEWIS – GIUSEPPA SACCARO DEL BUFFA, Utopia e modernità, Roma, Gangemi editore, 1989, vol. I, pp. 675-692; dello stesso si

ricorda il volume Utopia e società (Milano, Angeli, 1976) in cui l’utopia viene esplorata attraverso la disamina della tradizione letteraria e l’individuazione dei paradigmi essenziali di cui fa si portatrice, e mediante l’indagine sul concetto stesso, con la messa in evidenza degli stimoli offerti alla ricerca propriamente sociologica.

11 Senza affatto pretendere di ‘risolvere’ l’ancor vivo dibattito sul concetto di rappresentazione, sulle modalità che ne determinano l’elaborazione e sulle problematiche che essa solleva in termini di rapporto tra segno, significante e significato, verrà qui di seguito utilizzato il concetto di ‘rappresentazione’ per indicare una raffigurazione mentale, delineata in termini appunto figurativi, che si imprime nella mente del soggetto raffigurante a seguito di stimoli esterni quali descrizioni letterarie e illustrazioni ‘pittoriche’. In questo senso, ad esempio, la ‘rappresentazione della città settecentesca’ si riferisce all’avvenuta formazione di un’immagine urbana nella mente del lettore- spettatore a seguito di un contatto sensoriale diretto con un’altra immagine urbana figurativamente contingente, o a seguito di un’esposizione letteraria delle forme, della composizione e pianificazione urbana di cui si intende stimolare la produzione intellettuale. Si intende allora per rappresentazione un’immagine mentale prodotta dall’individuo nella sua peculiare interazione con il mondo esterno; essa deriva da un’operazione di assimilazione del reale e di elaborazione intellettuale tale da generare un’immagine figurativamente intesa di un pensiero.

realtà è del resto anche il punto di arrivo della costruzione, giacché nel momento in cui viene stabilito il ritorno in patria di Raffaele Itlodeo, viene affermata la possibilità di uno scambio concretamente positivo tra universo dell’immaginario e universo del reale: la perfezione utopica, insomma, non resta un ideale fantastico, rifugio onirico a difesa delle quotidiane frustrazioni, ma un ‘progetto’, la cui teorica possibilità di attualizzazione giustifica l’intera operazione utopica.

L’importanza del dato reale, nel suo essere sia elemento di contrasto rispetto alla costruzione ideale sia punto di arrivo di un processo rappresentativo affatto ingenuamente fantasioso ma coerentemente progettuale, rende le manifestazioni dell’utopia profondamente immerse nel momento storico in cui sono prodotte e, conseguentemente, intimamente connesse al livello di comprensione del mondo reale. Proprio per questo, ad esempio, l’utopia settecentesca si plasmerà a partire da una consapevolezza della contingenza scientificamente intesa e mediata da un contesto culturale nettamente diverso da quello della prima età moderna.

Ad ogni modo, pare importante evidenziare le ambiguità intrinseche nel modello utopico che aprono la strada a distorsioni formali e a ulteriori evoluzioni tipicamente settecentesche. In effetti, il termine stesso di ‘utopia’ presentava un’implicita equivocità, dal momento che il suffisso greco poteva essere fatto risalire tanto a ‘eu’ quanto a ‘ou’, così che Utopia diveniva il luogo migliore, ma anche il luogo che non esiste da nessuna parte: essa era al tempo stesso la descrizione della società migliore ma anche quella di un ideale, collocato nel solo spazio dell’immaginario, quasi suggerendo l’impossibilità di una sua attualizzazione12.

A tale incertezza terminologica se ne aggiungono altre, alimentate dall’affermazione del modello di More e dalla sua interazione con altri generi letterari. Se uno dei tratti fondamentali della costruzione utopica ‘originaria’ risiedeva infatti nella collocazione della comunità immaginaria al di fuori dello spazio geografico reale, proprio l’alterità del contesto territoriale pone le basi per la successiva evoluzione della descrizione dell’ideale in una produzione letteraria dove pare predominante il dato romanzesco13; il

posizionamento di Utopia al di fuori dell’universo contingente apre così la strada allo sviluppo di un filone narrativo maggiormente interessato alla scoperta di nuovi mondi piuttosto che alla vera e propria progettazione politico-sociale. In questo senso, le

12 Cfr. BRONISLAW BACZKO, Lumières de l’utopie, Paris, Payot, 2001, p. 20 (I° ed. 1978); ANDRÉ LALANDE,

«Utopia», in Id., Vocabulaire technique et critique de la philosophie, Paris, Puf, 1997 (I° éd. 1926), pp. 1178-1181.

scoperte geografiche, la crescita sei-settecentesca della letteratura ‘di viaggio’14, la

curiosità verso altre forme di aggregazione umana ed infine un certo gusto per l’esotismo, quale viene accentuandosi nel corso del Settecento, contribuiscono alla diffusione di una letteratura ‘utopica’ che rischia l’impoverimento concettuale a vantaggio di un approfondimento del divertissement narrativo sempre più ingombrante15. Tale fenomeno di avvicinamento tra utopia e letteratura ‘avventuroso-

romanzesca’ assume poi dimensioni problematiche nel corso del XVIII secolo, così da rendere particolarmente complesso il riconoscimento delle produzioni utopiche propriamente dette16. Conferma tale mescolanza e confusione di generi il titolo stesso di

una delle imprese editoriali ‘utopiche’ più rilevanti della tarda età moderna, ovvero i Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques pubblicati da Charles- Georges-Thomas Garnier tra 1787 e 1789, collezione in 39 volumi che a partire dal decimo precisavano il titolo in Voyages imaginaires, romanesques, merveilleux,

14 Non potendo qui affrontare il problema della narrativa di viaggio, si rimanda ad alcune fondamentali opere di recenti pubblicazione: PERCY G. ADAMS, Travel Literature and the Evolution of the Novel,

Lexington, University Press of Kentucky, 1983; PIERRE BERTHIAUME, L’aventure américaine au XVIIIe siècle, du voyage à l’écriture, Ottawa, Presse de l’Université d’Ottawa, 1990; JACQUES CHUPEAU, «Les

récits de voyage aux lisières du romans», Revue d’histoire littéraire de la France, vol. 77, n. 3-4, 1977, pp. 536-553; MADELAINE FRÉDÉRIC – SERGE JAUMAIN, La relation de voyage: un document historique et littéraire, Bruxelles, Presses de l’Université libre de Bruxelles, 1999; ODILE GANNIER, La littérature de voyage, Paris, Ellipses, 2001; JEAN MESNARD (dir.), Les récits de voyage, Paris, Nizet,

1986; MARIE-CHRISTINE PIOFFET (éd.), Écrire des récits de voyage (XVIIe- XVIIIe): esquisse d’une poétique en gestation. Acte du Colloque tenu à Toronto du 4 mai au 6 mai 2006, Laval (Québec),

Presse de l’Université de Laval, 2008; DANIEL ROCHE, Humeurs vagabondes. De la circulation des hommes et de l’utilité des voyages, Paris, Fayard, 2003; CARL E. THOMPSON, Travel writing, London-

New York, Routledge, 2011; JEAN VIVIÈS, Le récit de voyage en Angleterre au XVIIIe siècle: de l’inventaire à l’invention, Toulouse, Presse Universitaire de Mirail, 1999; FRIEDRICH WOLTZETTEL, Le discours du voyageur. Le Récit de voyage en France du Moyen Age au XVIIIe siècle, Paris, Puf,

1996.

15 Pare opportuno sottolineare come il successo della narrativa ‘di viaggio’ sia giustificata non soltanto da quel gusto per l’esotismo che incuriosisce il pubblico europeo nei confronti di mondi lontani dalla contingente quotidianità, ma anche da una certa meditazione sull’alterità e, conseguentemente, sulla propria esistenza sociale. I diari di viaggio non interessano insomma solo per la piacevolezza dell’aneddoto avventuroso, che resta comunque un aspetto importante alla base della ‘deriva’ romanzesca di tale letteratura, ma anche per la capacità di costringere il lettore a collocarsi di fronte alla diversità, costringendolo a meditare su di essa, confrontandola con il conosciuto, stabilendo dei rapporti di valore intorno cui ruotano alcuni dei nodi più problematici della riflessione illuminista. 16 A fianco delle opere che saranno considerate direttamente, si indica la bibliografia essenziale sulla

ricerca sull’utopia specificamente concentrata nel Settecento: PETER ALEXANDER – ROGER GILL (ed.), Utopias, London, Duckworth, 1984; SERGIO BARTOLLOMMEI, Illuminismo e utopia. Temi e progetti utopici nella cultura francese (1676-1788), Milano, Il Saggiatore, 1978; YOUMNA CHARARA, Roman et politique. Approche sérielle et inter-textuelle du roman des Lumières, Paris, Honoré Champion

Éditeur, 2004, pp. 111-161; GREGORY CLAEYS (ed.), Utopias of the British Enlightenment, Cambridge,

Cambridge University Press, 1994; JAMES C. DAVIS, Utopia and the ideal society. A study of English Utopian Writing. 1516-1700, Cambridge, Cambridge University Press, 1981; DAVID FAUSETT, Writing the New World. Imaginary Voyages and Utopias of the Great Southern Land, Syracuse, New York,

Syracuse University Press, 1993; WARNER KRAUSS, «Quelques remarques sur le roman utopique au

XVIIIe siècle», in AAVV, Roman et Lumières au XVIIIe siècle, Paris, Éditions Sociales, 1970;

CHARLES RIHS, Les philosophes utopistes. Le mythe de la cité communautaire en France au XVIIIe