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La repressione penale della corruzione: linee dei processi di riforma

Il contrasto alla corruzione tra repressione penale e preven zione amministrativa

2. La repressione penale della corruzione: linee dei processi di riforma

In un contesto nel quale la corruzione si è progressivamente eretta a si- stema, assistiamo alla ciclica proposizione della riforma dei reati di corru- zione, inseguendo da un lato le sollecitazioni sovranazionali e dall’altro l’idea che il contrasto al fenomeno debba necessariamente passare attraverso il potenziamento della risposta penale. Proprio su questo fronte, gli interventi

del legislatore hanno assunto significati differenti che tengono conto della interazione della disciplina penale con il contesto complessivo di disciplina.

Il primo importante intervento si è avuto con la legge 26 aprile 1990, n. 86 che, nel più ampio disegno di riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, è intervenuta anche sui delitti di cor- ruzione e concussione, sebbene in misura del tutto marginale, aumentando le pene e introducendo il delitto di corruzione in atti giudiziari, in modo da dare rilievo autonomo ad una fattispecie particolarmente grave che pre- giudica anche l’interesse ad una corretta amministrazione della giustizia.

Nel 2000 il legislatore ha potenziato la risposta penale sul fronte della corruzione internazionale, che coinvolge funzionari di organismi sovrana- zionali o pubblici ufficiali di Stati esteri, e della confisca, rendendo obbli- gatoria la confisca della tangente, anche in forma equivalente, qualora non sia più rinvenibile l’oggetto specifico della transazione illecita.

Con il d.lgs. 231/2001 viene prevista la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti (ad eccezione dello Stato e degli enti pubblici non economici) dipendente da reato: della corruzione risponde non solo la persona fisica autrice dell’illecito, ma anche l’ente per non essere stato in grado di adottare ed efficacemente attuare idonei modelli organizzativi fina- lizzati a prevenire al proprio interno la corruzione commessa; all’ente si appli- cano sanzioni pecuniarie e interdittive e la confisca del profitto.

La legge 190/2012 è invece intervenuta in modo più significativo sulla disciplina dei delitti di corruzione.

Ha introdotto il nuovo delitto di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.), in modo da dare espressa rilevanza attraverso una norma incriminatrice ad esigenze repressive della pratica diffusa dei funzionari as- sunti a libro paga, ove il pagamento della tangente, svincolato dalla “com- pravendita” di uno specifico, si rapporta più genericamente all’esercizio della funzione svolta dal pubblico agente, in modo da precostruire un clima favorevole, propizio all’eventuale richiesta di interventi sugli atti della pubblica amministrazione. Già la giurisprudenza aveva proposto una in- terpretazione ampia del delitto di corruzione propria (per un atto contrario ai doveri d’ufficio) includendo anche le dazioni fatte in relazione alla fun- zione, ma si trattava di una lettura controversa che si muoveva su un crinale incerto tra interpretazione estensiva, ammessa, e applicazione analogica, vietata in materia penale.

Il punto più significativo della riforma è rappresentato dalla modifica del delitto di concussione. Tale fattispecie poteva essere realizzata mediante

costrizione o induzione: la prima richiedeva la coartazione della volontà attraverso una vera e propria minaccia o una violenza; l’induzione, invece, era identificata in una più sfumata e blanda spinta a pagare, che rendeva la fattispecie difficilmente distinguibile dalle contigue fattispecie di corruzione. Diventava di conseguenza incerto l’inquadramento giuridico della condotta di chi dava o prometteva l’indebito, che poteva essere considerato vittima di una concussione o correo di una corruzione: la giurisprudenza prevalente poneva l’accento sull’analisi del rapporto tra le volontà delle parti, ricono- scendo la concussione se, a fronte della posizione di supremazia del pubblico agente, veniva condizionata la libertà di autodeterminazione del privato; sussisteva invece la corruzione laddove le parti si fossero poste su un piano di parità nella contrattazione per la soddisfazione dei rispettivi interessi. Il punto dirimente stava, pertanto, nell’individuare un rapporto squilibrato o paritario fra le parti. La presenza nel nostro sistema di un reato di con- cussione per induzione, nel quale chi pagava l’indebito non rispondeva del reato, era percepita a livello sovranazionale come un possibile meccanismo di esenzione da responsabilità per il privato che effettuasse la promessa o dazione indebita. In tal senso si erano espressi sia il Working Group on Bribery dell’OCSE nel 2001, sia il rapporto di valutazione GRECO sul- l’Italia che ancora nel 2013 aveva evidenziato che la disciplina della con- cussione per induzione poteva portare a risultati irragionevoli di esenzione dalla pena di coloro che avessero pagato o promesso la tangente; l’Italia era stata, pertanto, sollecitata a verificare l’uso improprio di tale fattispecie nelle indagini giudiziarie per i reati di corruzione. La scelta del legislatore è stata di scindere il reato di concussione in due fattispecie: quella di concus- sione nella quale rileva la sola condotta di costrizione e nella quale chi paga o promette è vittima; quella di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.) nella quale è punita sia la condotta del soggetto pubblico che, con abuso di poteri o qualità, induce a dare o promettere l’indebito, sia la condotta di chi dà o promette, (con applicazione di una pena significativamente più bassa) nella induzione indebita.

La riforma intendeva in tal modo venire incontro alle sollecitazioni so- vranazionali, prevedendo la punibilità di chi paga o promette l’indebito. Se non che questa soluzione ha aperto un nuovo e controverso versante in- terpretativo: se prima della riforma era delicato tracciare la distinzione tra concussione e corruzione, perché quella linea decideva della punibilità del privato, dopo l’entrata in vigore della l. 190/2012 è diventata centrale la distinzione tra concussione (per costrizione) e induzione indebita perché

ora è tra queste due fattispecie che si colloca la linea che decide della puni- bilità di chi paga la tangente. Il formarsi di ben tre orientamenti interpre- tativi in seno alla stessa quarta sezione della Corte di cassazione evidenziava l’incertezza del nuovo dato normativo che ha imposto un intervento chia- rificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., Sez. un., 24.10.2013, n. 12228). La costrizione sussiste in presenza di una condotta di abuso di poteri o di qualità, realizzabile mediante violenza o minaccia, che determina nel destinatario della stessa una costrizione psichica relativa che pone “il soggetto passivo in una condizione di sostanziale mancanza di alternativa, vale a dire con le spalle al muro: evitare il verificarsi del più grave danno minacciato, che altrimenti si verificherà sicuramente, offrendo la propria disponibilità a dare o promettere una qualche utilità (danno mi- nore) che sa non essere dovuta”. Nell’induzione indebita (art. 319-quater) dove il pubblico agente realizza una più blanda spinta a pagare attraverso persuasione, suggestione, allusione ed anche silenzio, il soggetto indotto a dare o promettere “conserva, rispetto alla costrizione, più ampi margini decisionali, che l’ordinamento impone di attivare per resistere alle indebite pressioni del pubblico agente e per non concorrere con costui nella conse- guente lesione di interessi di importanza primaria, quali l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione”; la punibilità del privato si giustifica soprattutto per il fatto di “avere approfittato di tale abuso per perseguire un proprio vantaggio ingiusto”. Sintetizzando: sono elementi integrativi della costrizione il danno ingiusto prospettato dal pubblico uf- ficiale e l’assenza di un movente opportunistico da parte del soggetto co- stretto; nella induzione indebita, invece, a fronte dell’abuso prevaricatore del soggetto pubblico, si contrappone il fine di vantaggio indebito perseguito dal soggetto indotto. Tuttavia, a tale criterio le Sezioni unite affiancano altri argomenti che finiscono per inficiare la linearità del criterio distintivo proposto e conducono di fatto a privilegiare il grado di condizionamento psichico della condotta abusiva del soggetto pubblico, che diventa premi- nente rispetto alla finalità di acquisire un vantaggio ingiusto (si pensi al caso della prostituta straniera irregolare che cede alla richiesta di una pre- stazione sessuale da parte del poliziotto che l’ha fermata per controlli, pro- spettandole di avviare la procedura amministrativa di espulsione).

La riforma del 2012 è andata incontro al rilievo critico di aver compro- messo l’efficacia di prevenzione generale del sistema a seguito dell’abbassa- mento dei livelli sanzionatori nel delitto di induzione indebita (da tre ad otto anni di reclusione per il soggetto pubblico; sino a tre anni per chi dà

o promette l’indebito). Ora, la previsione di una pena più bassa rispetto al- l’art. 317 c.p. è del tutto ragionevole, in quanto la condotta di costrizione ha un carico offensivo più consistente. Il punto critico sta piuttosto nella possibilità che possa maturare più velocemente la prescrizione del reato. La questione interessa anche i delitti di corruzione che, spesso, vengono scoperti molto tempo dopo la commissione del reato, con ciò che ne con- segue in termini di rischio di prescrizione.

Proprio al fine di rafforzare la strategia di contrasto al fenomeno della corru- zione il recente disegno di legge n. 3008, approvato dal Senato (1.4.2015) ed ora all’esame della Camera dei deputati, ha previsto l’incremento dei limiti edittali per i delitti di corruzione e di induzione indebita allo scopo, da un lato, di rendere meno agevole il ricorso ai riti alternativi (in particolare al c.d. patteggiamento) e dall’altro di allungare i tempi di prescrizione del reato. Da quando la legge nota come ex-Cirielli (l. n. 251/2005) ha abbreviato i tempi di prescrizione del reato, ancorandoli al limite massimo di pena previsto dalla legge per ogni singolo reato, il legislatore ha cercato di sventare il rischio di prescrizione aumentando i livelli delle pene. Tale scelta, del tutto compren- sibile sul piano della ricerca di efficacia della risposta sanzionatoria, ha tuttavia l’effetto di far lievitare le pene e creare disarmonie nel trattamento sanzionatorio dei singoli reati. La questione, a mio avviso, non può continuare ad essere af- frontata attraverso l’aumento dei livelli di pena (che come noto non è di per sé indice di maggior deterrenza), ma va risolta più a monte, intervenendo sulla disciplina generale della prescrizione: la legge ex-Cirielli (che fu ispirata da una logica ad personam) è priva di qualsiasi giustificazione razionale, perché non si possono ridurre i tempi di prescrizione del reato in un contesto carat- terizzato dalla nota lunghezza dei processi penali, un binomio che finisce per essere esiziale, vanificando l’efficacia della risposta sanzionatoria consegnando i reati alla falcidia della prescrizione.

Il disegno di legge all’esame della Camera introduce poi ulteriori im- portanti novità nella strategia repressiva della corruzione: l’inasprimento delle pene accessorie della incapacità di contrarre con la pubblica ammini- strazione (la cui durata può arrivare a cinque anni, mentre ora il limite è di tre anni) e della estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a preva- lente partecipazione pubblica, estinzione che ora si applica in caso di con- danna per i reati di corruzione, concussione e induzione indebita per un tempo non inferiore a tre anni di reclusione e che il disegno di legge propone di portare, più ragionevolmente, a due anni.

Al contempo, si propone l’introduzione all’art. 323-bis c.p. di una cir- costanza attenuante (riduzione della pena da un terzo a due terzi) per i delitti di corruzione e induzione indebita per chi si sia efficacemente ado- perato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare la prova dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite. L’idea di una norma premiale in favore del delatore dell’accordo corruttivo, non è affatto nuova, perché era stata proposta sia come causa di non punibilità (progetto Cernobbio, elaborato nel 1992 nella stagione delle indagini di Mani pulite da un gruppo di professori universitari ed alcuni magistrati milanesi) che come semplice circostanza attenuante (disegno di legge governativo pre- sentato alla Camera dei deputati nel dicembre 2007 - C-3286); ho sempre creduto che la prospettiva efficientista che sta alla base della norma premiale renda, nei delitti di corruzione, più conforme allo scopo la soluzione della causa di non punibilità a favore del corrotto o del corruttore “pentito”, in quanto mi pare poco appetibile una mera riduzione della pena. Va dato atto, però, che nell’attuale disegno di legge la circostanza attenuante può assicurare effetti positivi significativi, considerato che il riconoscimento della circostanza attenuante assicura l’effetto congiunto della consistente riduzione della pena e, proprio per tale ragione, della possibilità di fruire della sospensione condizionale della pena che rischia di non poter essere concessa a causa dell’aumento dei livelli minimi di pena proposti (specie in tema di corruzione propria e corruzione in atti giudiziari).

Infine, il disegno di legge si segnala, per l’introduzione della riparazione pecuniaria in favore della pubblica amministrazione lesa in caso di condanna per i reati di corruzione e concussione (art. 322-quater c.p.): l’ammontare di tale riparazione è equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito; resta fermo, in ogni caso, l’eventuale obbligo di risarcimento del danno ed a tale riparazione è subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena (art. 165 c.p.). Si tratta di una disposizione che intende rendere più onerosa la concessione della sospensione condizionale della pena, nella prospettiva che tale beneficio di legge possa essere accordato solo in presenza della restituzione del maltolto alla pubblica amministrazione.