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2. Le funzioni della pena

2.2 La retribuzione

La teoria retributiva si basa sull’assunto che la pena debba costituire la retribuzione per il fatto commesso: originariamente, secondo la concezione del taglione, questo significava infliggere al reo il medesimo danno da lui arrecato alla vittima mentre successivamente il parametro di riferimento per la retribuzione è diventata, più che altro, la colpevolezza.83

Storicamente, dunque, tale concezione retributiva della pena ha oscillato tra retribuzione del fatto e retribuzione della colpevolezza. Peraltro, una volta superata l’idea di stretta corrispondenza tra fatto e sanzione, tipica della logica del taglione, retribuzione del fatto e retribuzione della colpevolezza non integrano più due «modelli retributivi strutturalmente diversi»84, la differenza è data esclusivamente dal differente livello di «verificabilità empirica»: mentre il fatto è qualcosa di oggettivo e certo, la colpevolezza è un giudizio, e come tale inevitabilmente soggettivo.85 Si può infatti valutare la responsabilità, dolo o colpa, del soggetto agente soltanto esaminandone l’aspetto negativo, ovvero la possibilità di agire diversamente, ma tale verifica non può condurre a risultati certi e incontestabili.86

Tanto più che vi è una serie di fattori che incidono sulla condotta del singolo, compresa c.d. corresponsabilità sociale, e risulta quindi impossibile formulare un giudizio assoluto di colpevolezza.87

In dottrina si è evidenziato come, in ogni caso, al di là delle difficoltà insite nel concetto di colpevolezza, il principale profilo critico dell’idea retributiva sia

83 Cfr. E. DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 117.

84 L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 99. Basta pensare che l’entità della colpevolezza si riflette necessariamente sul fatto.

85 Sul punto cfr. ivi, p. 99. 86 Cfr. ivi, p. 100.

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costituito dalla disomogeneità tra reato e pena: «reato e pena sono realtà eterogenee; qualsiasi teoria che intenda ricollegare proporzionalmente tali entità deve inevitabilmente ricorrere ad un elemento esterno – perciò dal punto di vista intrinseco della retribuzione arbitrario – su cui fondare il rapporto».88 Questo elemento esterno è costituito dalla domanda di punizione proveniente dalla società.89

Concetto essenziale all’interno dell’idea retributiva è quello di proporzionalità. Secondo la concezione classico-illuminista questo rapporto di corrispondenza è da ricercarsi nella fase edittale tra il singolo reato e la singola risposta sanzionatoria: sorge però il medesimo problema sopra evidenziato, dovuto al fatto che tra reato e pena non vi è alcuna analogia che consenta di creare una relazione proporzionale. Inoltre non è possibile negare a priori ogni individualizzazione della sanzione considerando il solo momento della comminatoria, anche perché le pene non sono mai identiche per chi le subisce: bisogna considerare il fattore dell’età, delle condizioni psicofisiche e così via.90

In dottrina si è osservato come l’obiezione circa l’«incommensurabilità» tra reato e pena sia in realtà facilmente superabile: infatti l’idea della proporzionalità - vale a dire la tesi della compensazione del reato attraverso la sanzione penale - non necessariamente implica un’omogeneità tra le due grandezze. Ormai da tempo,

88 L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 133. 89 Cfr. ivi, p. 134.

90 Cfr. ivi, p. 103-104. Tale necessità di individualizzazione vale anche e soprattutto per l’ergastolo, pena fissa e automatica. Sul punto cfr. infra paragrafo 3 e capitolo III. Il modello illuminista di proporzionalità è peraltro ancora il principale criterio che guida la scelta del giudice nella commisurazione della pena: ai sensi dell’articolo 133 c.p. il giudice valuta il fatto, lo colloca a un certo livello di gravità e irroga la sanzione più adeguata a tale gravità, mantenendosi entro i limiti edittali fissati dal legislatore. In dottrina si sottolinea la necessità che la pena sia idonea a

consentire la rieducazione del reo e quindi non sia severa al punto da essere desocializzante, ma nella prassi il criterio guida di commisurazione della pena finisce per essere costituito dalla colpevolezza. Sul punto cfr. ivi, p. 105.

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infatti, è stata abbandonata la logica del taglione secondo la quale si deve infliggere al reo il medesimo male che egli ha arrecato alla società commettendo il reato. È opportuno pensare, più che altro, a un diverso rapporto di proporzionalità: «nel senso che la graduazione, per specie e quantità, delle pene dovrebbe riflettere la scala di gravità dei reati, e, parallelamente, la misura giudiziale della pena dovrebbe fissarsi, all’interno dello spazio edittale, al livello corrispondente alla posizione che il fatto concreto occupa, sempre in ragione della sua gravità, nella gamma delle ipotesi riconducibili al modello legale».91 Si può obiettare, peraltro, come non sia possibile garantire un’assoluta certezza della pena, poiché il giudizio compiuto dal giudice si presenta necessariamente come soggettivo e discrezionale. Tale rilievo è tuttavia costante perché riferibile a qualunque teoria della pena, comprese quelle preventive: la capacità a delinquere, le prospettive di risocializzazione del reo sono delle entità altrettanto sfuggenti e imprecise.92

L’idea di proporzionalità presenta dunque dei limiti, ma allo stesso tempo ha un importante profilo di utilità: consente di raffrontare i beni giuridici protetti dalle norme penali con il bene fondamentale della libertà personale e rende la sanzione maggiormente rispettosa dei diritti soggettivi del trasgressore.93

Il concetto di pena proporzionata non può però in ogni caso fungere da unico criterio di legittimazione della sanzione penale94: una pena è giusta nel momento in cui

91 E. DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 132. Secondo tale concezione la pena dovrebbe quindi realizzare una giustizia distributiva, più che commutativa. Non è un’idea completamente nuova, tanto che già Hegel affermava come tra reato e pena dovesse esserci un’uguaglianza di valore, non una perfetta omogeneità.

92 Sul punto cfr. ivi, p. 133.

93 Cfr. L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 106.

94 Nel nostro ordinamento la sola finalità retributiva non è idonea a giustificare l’aggressione del bene di rango primario della libertà personale per il perseguimento di un ideale assoluto di giustizia. Dalla Costituzione emerge inoltre un’idea di Stato che non può limitarsi a punire ma deve «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che […] impediscono il pieno sviluppo della

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assicura tutela a un bene giuridico di rango costituzionale meritevole di protezione. «Fondamento della pena non è la colpevolezza, ma la sua necessità per la tutela dei beni giuridici».95 Anche se non ne costituisce il fondamento, la colpevolezza rimane peraltro necessaria affinché il giudice possa irrogare una pena al soggetto agente. Ma se la possibilità di agire diversamente non può mai essere verificata in modo oggettivo, allora questo significa che una pena non può mai essere giusta in senso assoluto, anche se posta a protezione di un bene giuridico meritevole di tutela.96

Tradizionalmente la concezione retributiva è sempre stata considerata come una teoria assoluta: la pena viene irrogata perché è stato commesso il reato e consente al condannato di adempiere il debito così contratto con la società, senza che sia perseguito alcun fine ulteriore. Il fondamento della pena viene individuato nel suo essere il corrispettivo del reato, non nella sua utilità per il reo o per i consociati. Negli ultimi anni si è assistito, tuttavia, all’emersione di nuove teorie retributive che vedono nella sanzione penale un mezzo per soddisfare la domanda di punizione e l’esigenza di sicurezza provenienti dalla collettività. Teorie dunque non propriamente assolute.97

La pena, secondo tali concezioni, viene contemplata dal legislatore e poi irrogata dai giudici per rispondere ai bisogni emotivi dei cittadini, facendo propri i parametri di giudizio presenti nella società. È importante considerare però che tali parametri

persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,

economica e sociale del paese». Sul punto cfr. E. DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 142. 95 NOLL, Shuld und Prävention unter demGesichtspunkt der Rationalisierung des Strafrechts, p. 219, come citato in E. DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 138.

96 Sul punto cfr. ivi, p. 139-140.

97 Sul punto cfr. L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 107. Questa modo di intendere la pena retributiva non è nuovo ma ha una lunga tradizione nella dottrina penalistica. Cfr. ivi, p. 109-110. Cfr. anche C. MAZZUCCATO, Dal buio della pena alla luce dei precetti, cit., p. 27 ss.: si assegna alla pena il compito di essere un «punto fermo», di restituire sicurezza, di riportare l’ordine nella società.

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sono irrazionali e soggetti a continue mutazioni e «lasciano il trattamento punitivo in balia delle spinte più incontrollabili»98: quindi si presenta il pericolo di sanzioni sproporzionate, non rispettose della dignità e dei diritti fondamentali del condannato, e viene accantonato quell’aspetto garantistico che era stata la principale caratteristica delle teorie retributive classiche. Ancora una volta il condannato diventa un mezzo per soddisfare le esigenze della collettività.99

Tali esigenze di punizione presenti nella società, per di più, non possono considerarsi come un fenomeno normale, ma anzi sono storicamente condizionate: se questi bisogni emergono significa che lo Stato non ha saputo, o voluto, individuare i fattori criminogeni e affrontarli, fatto che ha determinato la crescita della domanda di sicurezza, spesso enfatizzata da un uso scorretto dei mezzi di comunicazione di massa. Certamente, di fronte a una situazione di allarme sociale, la politica criminale non può restare inerte, ma questo non significa trasformare la risposta sanzionatoria in una reazione puramente emotiva, che prescinda da altre valutazioni pratiche.100 Uno dei principali compiti del diritto penale dovrebbe poi essere quello di «filtrare criticamente le istanze di punizione»101, di «canalizzare e formalizzare le spinte aggressive collettive»102: un diritto penale razionale e moderno dovrebbe essere in grado di distinguere tra «reazioni emotive di tipo

98 G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 753.

99 L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 108. Interessante citare le parole di Morselli, secondo cui « ogni punizione non è che […] una reazione o risposta a un allarme sociale». Cfr. ivi, p. 111.

Emblematico è proprio il caso dell’ergastolo: uno dei principali motivi alla base dell’opposizione alla eliminazione della pena perpetua è il fatto che la collettività non è disposta ad aprire i cancelli del carcere a chi si sia reso colpevole di crimini particolarmente efferati perché «prevale l’aspetto oggettivo del crimine, la sua ferocia e la sofferenza della vittima». Cfr. E. FASSONE, Fine pena: ora, Palermo, 2016, p. 191.

100 Cfr. L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 113.

101 Cfr. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 753.

102 G. MARINUCCI, L’abbandono del codice Rocco, tra rassegnazione e utopia, in G. MARINUCCI, E. DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 344.

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regressivo, come tali non avallabili, e esigenze reali di sicurezza meritevoli di essere assecondate»103, al contrario accade che il legislatore inasprisca le pene edittali, cercando di attenuare i sentimenti di cieca paura con sanzioni simboliche, e i giudici infliggano pene sempre più elevate, mentre la colpevolezza, invece che fungere da limite, diventa la proiezione dei bisogni punitivi della società. Si passa da un «diritto penale razionale a un diritto penale dell’irrazionale».104

Tali concezioni appena esposte sono state accostate a quella di prevenzione generale c.d. positiva o di orientamento culturale, ma in quest’ultimo caso l’obiettivo della sanzione non è tanto appagare le esigenze della società, ma più propriamente rafforzare l’adesione dei cittadini ad alcuni valori fondamentali e in questo modo prevenire la commissione dei reati.105 Si è evidenziato peraltro come la pena, rispondendo ai bisogni emotivi di punizione dei cittadini, canalizzerebbe le spinte aggressive, dei singoli e della collettività, adempiendo dunque una funzione educatrice e di orientamento culturale.106

Queste teorie c.d. «neoretribuzionistiche» sono emerse in corrispondenza della crisi dell’ideologia rieducativa: l’allarme suscitato dall’aumento di alcuni reati ha creato uno «scetticismo circa i risultati conseguibili attraverso qualsiasi forma di esecuzione della pena detentiva», tanto da indurre a parlare di «mito della rieducazione».107 Al fine di contenere i timori dei cittadini si è quindi cominciato a pensare alla pena come mezzo per soddisfare i bisogni di punizione e le esigenze di sicurezza.

103 G. FIANDACA, Commento all’articolo 27 comma terzo della Costituzione, cit., p. 272. 104 Sul punto cfr. ivi, p. 343-344.

105 Cfr. L. EUSEBI, La commisurazione della pena, cit., p. 114.

106 Cfr. G. FIANDACA, Commento all’articolo 27 comma terzo della Costituzione, cit., p. 272. 107 E. DOLCINI, La rieducazione del condannato tra mito e realtà, cit., p. 500.

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In Italia non si è avuta una «inversione neoretribuzionistica» paragonabile a quella di altri Stati, come gli Stati Uniti. La dottrina maggioritaria è infatti rimasta legata a una concezione bifasica della pena, attribuendole una pluralità di funzioni.108 Non sono mancate tuttavia delle voci isolate, favorevoli all’idea retributiva, nel quadro di una contestazione del processo di secolarizzazione del diritto penale.109

I sostenitori della teoria della retribuzione hanno fatto leva soprattutto sul fatto che la pena retributiva, in quanto proporzionata, è l’unica sanzione in grado di svolgere funzioni preventive, nella fase di minaccia, e risocializzanti, durante l’esecuzione, nel rispetto dei diritti fondamentali del condannato. Si può obiettare che la pena in sé non può cancellare il fatto commesso dal soggetto, né garantire una sua adesione al percorso trattamentale: è necessario un intervento attivo dello Stato che agisca sui fattori criminogeni, così da contenere il fenomeno delinquenziale, e offra programmi di aiuto al reo, in modo da favorire un suo concreto ravvedimento.110 Anche perché una pena retributiva non esercita automaticamente e necessariamente anche una funzione preventiva: basta pensare al reato commesso da un soggetto in circostanze tali che azzerano, o almeno riducono, le possibilità di recidiva.111

108 Cfr. L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 132.

109 Come quella di V. MATHIEU, che in Perché punire. Il collasso della giustizia penale (1978)

affermava: «la pena è dovuta, ossia è giusta in se stessa per una ragione formale indipendentemente da qualsiasi altro scopo». Egli arrivava addirittura a legittimare la pena di morte, in quanto mezzo più adatto, in alcuni casi, a permettere la rieducazione morale del condannato. Cfr. ibidem. Si è sostenuto che ciò che giustifica la pena nella fase giudiziale è esclusivamente la funzione retributiva: «alla domanda dell’imputato che domandasse al giudice “Perché mi punisci?”, l’unica risposta che garantisce la dignità della persona è quella di tipo retribuzionistico, che Rawls attribuisce al padre allorché soddisfa la curiosità del bambino: “Perché è stato provato in un giusto processo che sei colpevole di un delitto”». Si difende l’ideologia retributiva come l’unica che consente di riconoscere la capacità di autodeterminazione del reo, punendolo in quanto soggetto e non oggetto di diritto. Una pena di questo tipo è in grado di essere «autoeducativa». Sul punto cfr. M. RONCO, Retribuzione e prevenzione generale, cit., p. 509.

110 Cfr. L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 133.

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Certo, è sempre necessario tenere presente il limite della colpevolezza, ma la necessità del rispetto della dignità dell’uomo è un punto su cui ormai tutte le teorie della pena sembrano convergere.112 Anzi la teoria meno garantistica sembra proprio essere quella retributiva, nella misura in cui l’intero sistema sanzionatorio è considerato non avere altri scopi se non rispondere agli impulsi irrazionali della collettività cercando di placare l’allarme sociale113: secondo autorevole dottrina la retribuzione «esprime una forma di intervento arbitraria, simbolica, emotiva, dichiaratamente vendicativa nonché totalmente antidemocratica».114

Queste considerazione portano a sostenere come oggi non sembra essere più attuale la distinzione tra teorie relative e teorie assolute: l’alternativa si pone piuttosto tra un sistema volto esclusivamente alla «stabilizzazione psicologica» dei cittadini, in cui la persona del delinquente e la sua condizione vengono trascurate, se non addirittura completamente ignorate, e un sistema che, al contrario, cerchi di comprendere il fenomeno criminale nella sua interezza e concretezza, valutando il contesto sociale e culturale nel quale si è sviluppato il reato e cercando di incidere sui fattori delinquenziali e di reinserire, attraverso programmi rieducativi, un soggetto maggiormente consapevole nella società.115

112 Cfr. E. DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 134. «si tratterà di compiere ogni sforzo affinché le punizioni umane, orientate a scopi contingenti, sappiano rispettare la dignità della persona non già attraverso il meccanismo escludente della retribuzione, che il realtà la nega in quanto permanente espressione di vendetta, bensì garantendo la conservazione di legami di solidarietà e corresponsabilità sociale verso il condannato durante la stessa esecuzione della pena: ciò affinché quest’ultima assuma un significato costruttivo anche per colui che la subisce e tenda ad una sua rapida reintegrazione nella vita civile». L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 133. 113 Cfr. ibidem.

114 C. MAZZUCCATO, Dal buio della pena alla luce dei precetti, cit., p. 25. 115 Cfr. L. EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., p. 133.

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