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Una risposta immunitaria efficace contro gli agenti infettivi è il risultato della cooperazione tra immunità innata e adattativa. L'immunità innata, non antigene- specifica, è il primo meccanismo contro i patogeni, e si realizza principalmente attraverso macrofagi, neutrofili, sistema del complemento e cellule natural killer. Tra

53 tutte comunque solo le cellule NK attivate sono capaci di distruggere le cellule infettate da virus, mentre le altre sono implicate nella difesa da infezioni batteriche o parassitarie. L'immunità adattativa o antigene-specifica è realizzata dai linfociti B e T che lavorano in maniera complementare. I linfociti B producono anticorpi capaci di neutralizzare il virus libero in fase fluida, tuttavia i linfociti T possono uccidere le cellule infette prima che si verifichi la maturazione virale riducendo il rilascio ulteriore del virus nonché prevenendone la trasmissione da cellula a cellula.

Risposta immunitaria umorale. Gli anticorpi riconoscono proteine virali intatte nello spazio extracellulare, e possono prevenire il legame del virus a cellule target (anticorpi neutralizzanti) oppure possono facilitare, mediante opsonizzazione virale, il riconoscimento e quindi l'eliminazione del virus da parte di fagociti mononucleati. Gli anticorpi, inoltre, possono riconoscere proteine virali sulla superficie delle cellule infette e mediare una citotossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente (ADCC). Dal momento che i virus sono organismi intracellulari obbligati però sfuggono al controllo degli anticorpi e di solito ritardano l'esposizione sulla superficie cellulare di proteine fino al momento in cui si verifica la maturazione virale per cui anche con la ADCC si ottiene semplicemente il rilascio di virioni infettivi. Le cellule T pertanto rappresentano la principale risposta al virus una volta entrato nelle cellule.

Risposta immunitaria cellulare. Le cellule T si distinguono in CD4+, che sono principalmente cellule T helper e, CD8+ che sono soprattutto linfociti T citotossici (CTLs). Entrambi i sottotipi esprimono recettori cellulari (TCRs), fondamentali per il riconoscimento dell'antigene. A differenza degli anticorpi, le cellule T non riconoscono proteine virali intatte, bensì peptidi virali processati dalle cellule e presentati al TCR in associazione con molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC). Il concetto di restrizione MHC è fondamentale per comprendere l'immunità cellulare. Le molecole MHC sono fondamentali per la definizione di “self” ed è proprio il “self” modificato dall'antigene virale che innesca la risposta immunitaria e non la presenza dell’antigene virale da solo.

I linfociti T CD4+ la cui funzione principale è stimolare i macrofagi e le cellule T CD8+ (risposta Th1) o le cellule B (risposta Th2) attraverso la produzione di citochine specifiche, riconoscono epitopi virali presentati nel contesto di molecole MHC di classe II, espresse solo da APC. Le APCs (macrofagi, cellule B e cellule dendritiche) internalizzano per endocitosi antigeni estranei che vengono degradati a peptidi attraverso proteasi. Dal momento che la presentazione di antigeni nel

54 contesto MHC II coinvolge la processazione di proteine extracellulari è nota come “via esogena”. Le cellule T CD4+ stimolate proliferano e producono citochine come IFN-gamma, GM-CSF, TNF (per quanto riguarda le Th1) o IL-4, IL-5 e IL-10 (per quanto riguarda le Th2).

I linfociti T CD8+, il cui ruolo principale è eliminare le cellule T infette da virus, riconoscono epitopi virali legati a molecole MHC di classe I, che sono espresse dalla maggior parte delle cellule mononucleate. Ciò accade quando una proteina virale di nuova sintesi viene contrassegnata per la distruzione nel citoplasma di una cellula infetta ed è degradata in peptidi da parte del proteosoma. Poiché la presentazione di peptidi nel contesto di molecole MHC di classe I coinvolge la processazione di proteine sintetizzate nella cellula è definita “via esogena”. I linfociti T citotossici stimolati saranno poi in grado di produrre perforine e granzimi che inducono la formazione di pori nella membrana delle cellule infette e degradano il DNA, rispettivamente, così come produrranno TNF alfa e IFN gamma. Il risultato è la distruzione delle cellule infettate dal virus, in una fase precoce del ciclo di replicazione virale, prima della completa maturazione della progenie virale.

Gli anticorpi sono un'arma importante per neutralizzare le infezioni virali disseminate attraverso il circolo sanguigno, tuttavia, in caso di virus a lenta replicazione che si diffondono principalmente per contatto da cellula a cellula senza fase viremica, o per quelli che causano infezione persistente, proprio come succede per il virus JC, diventa fondamentale la risposta dei linfociti T citotossici memoria (Koralnik, 2002).

Diverse evidenze suggeriscono che il ruolo delle cellule T helper CD4+ è fondamentale nel prevenire la diffusione del virus JC. La riattivazione del virus JC è più comune in pazienti con deficit di linfociti T CD4+, come gli HIV+ che progrediscono verso AIDS o comunque nei pazienti con linfocitopenia T CD4+ (Haider et al, 2000). Il ridotto numero di linfociti TCD4+, inoltre, correla con una maggior carica virale nel liquor, ed un peggiore outcome clinico nei pazienti con PML (Haider et al. 2000; Puri et al. 2010). Più recentemente si è osservato che individui che esprimono l'allele HLA0DRB1*04:01 per la molecola MHC-II mostrano una ridotta proliferazione delle cellule TCD4+ quando stimolate da specifici antigeni JCV, rendendo probabilmente questa popolazione più suscettibile alla riattivazione virale (Jelcic et al. 2013). Il dosaggio delle cellule T CD4+, comunque, da solo, non è sufficiente a predire la progressione della malattia

55 suggerendo che altri tipi cellulari sono fondamentali per il controllo del virus. Le cellule T CD8+ sono le più rappresentate sia nelle lesioni da PML che nel liquor dei pazienti. Sotto lo stimolo delle citochine secrete dai linfociti T CD4+, le cellule T CD8+possono differenziarsi in effettrici e memoria. Le cellule T effettrici a contatto con l'antigene presentato dalle APC possono eliminare le cellule infettate trasformandosi in cellule T citotossiche. Nella proteina capsidica VP1 sono state individuate due regioni altamente immunogene, VP1 p36 e VP1 p100, capaci di indurre una risposta da parte dei linfociti T citotossici. Dal momento che il JCV è un virus a lenta crescita, è ipotizzabile che anche una bassa quantità di linfociti CD8+ citotossici possa prevenire efficacemente la riattivazione del virus, suggerendo così che queste cellule sono le più importanti nella sorveglianza immunitaria da virus JC (Lima et al., 2007).

Dopo l'infezione da virus JC, pertanto, l'ospite sviluppa una risposta immunitaria adattativa (acquisita) sia umorale che cellulare. Mentre la comparsa ed il mantenimento di anticorpi contro il virus, principalmente diretti contro antigeni capsidici, può provare l'avvenuta esposizione al virus ma non conferisce protezione, la risposta immunitaria cellulare protegge l'ospite dalla riattivazione e disseminazione del virus, prevenendo lo sviluppo di PML nei soggetti immunocompetenti. Non sono ancora noti i meccanismi alla base della quiescenza del virus nei soggetti immunocompetenti, dall'altro canto, invece, la risposta immunitaria cellulare che conferisce protezione sembra essere principalmente riconducibile allo sviluppo di cellule T CD8+ effettrici memoria che risiedono negli organi bersaglio. È ben noto tuttavia come le cellule T-helper CD4+ sono essenziali per lo sviluppo ed il mantenimento di un pool adeguato di cellule T CD8+. In assenza di cellule TCD4+ funzionalmente efficienti, pertanto, le cellule TCD8+ potrebbero risultare incapaci di prevenire la riattivazione e disseminazione del virus JC con conseguente rischio di PML, come si verifica nei pazienti con AIDS (Du Pasquier et al., 2004).

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Diagnosi di PML

Le caratteristiche anatomopatologiche della PML (triade: demielinizzazione, corpi inclusi negli oligodendrociti ed astrociti bizzarri) sono ormai confermate da anni perciò la biopsia rappresenta il gold standard per la diagnosi di PML, con una specificità del 98% ed una sensibilità del 68-90% (a causa di potenziali errori di campionamento durante la biopsia), tuttavia ha lasciato il posto alla RMN ed alla PCR sul liquor per ricerca di JCV DNA. La PCR è molto specifica (90%), tuttavia la sensibilità (80%) è discutibile per due motivi: non necessariamente il liquor fornisce una accurata rappresentazione delle infezioni del parenchima cerebrale, inoltre, la carica virale nel liquor è risultata molto bassa, sia nei pazienti HIV+ in terapia antiretrovirale che nei pazienti SM in Natalizumab (Berger et al., 2013).

Secondo i criteri diagnostici attuali la diagnosi di PML è possibile sulla base di: A) presentazione clinica, immagini di RMN suggestive di PML, presenza nel liquor di DNA JCV (mediante PCR quantitativa-qPCR; oppure B) evidenza di PML all’esame istopatologico di materiale bioptico, associata alla presenza del virus JC dimostrata mediante microscopio elettronico, immunoistochimica o qPCR (Berger et al., 2013). È importante sottolineare però che un liquor negativo non esclude la diagnosi di PML. Nelle fasi iniziali della malattia il virus JC può non essere presente nel liquor perché la carica virale è inferiore al livello di sensibilità del test utilizzato. In uno studio su 28 pazienti con PML associata a Natalizumab, il virus non era rilevabile, inizialmente, in 16 pazienti, poiché la carica virale nel liquor era inferiore alla soglia di 500 copie/mL (Clifford et al., 2010). La maggior parte dei test disponibili in commercio sono capaci di rilevare JCV DNA se >200 copie/mL, pertanto, bisognerebbe considerare laboratori in grado di rilevare anche cariche virali inferiori (10 copie/mL) e, quando c’è un forte sospetto clinico o radiologico, ripetere la rachicentesi (non ci sono ancora chiare evidenze sulla tempistica da rispettare) ed eventualmente effettuare una biopsia cerebrale.

Più recentemente è stato proposto, nei casi in cui la PCR per JCV su liquor risulti ripetutamente negativa, ma vi è un forte sospetto alla RM, l'utilizzo come test di conferma nella diagnosi di PML, del dosaggio degli anticorpi IgG anti-JCV nel liquor ed in particolare il calcolo dell'Index che, se >1.5, in questi pazienti, ha una specificità del 100% ed una sensibilità del 57% nella diagnosi di PML (Warnke et al., 2014).

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Natalizumab e PML

Secondo l’analisi postmarketing, a marzo 2016, su 149900 pazienti esposti a Natalizumab nel mondo, 638 hanno sviluppato PML (Biogen MedInfo. https:// medinfo.biogen.com accessed March 2016).

I fattori di rischio riconosciuti nello sviluppo di PML in pazienti trattati con Natalizumab sono tre: la sieropositività per gli anticorpi anti-JC virus, la precedente esposizione a terapia immunosoppressive in un qualunque momento e di qualsiasi durata, la durata di esposizione a Natalizumab > 24 mesi.

Nei pazienti in terapia con Natalizumab ogni nuovo segno/sintomo neurologico o un peggioramento di un segno/sintomo preesistente, così come ogni nuova lesione che compare alla RM devono essere considerati sospetti per PML. La diagnosi differenziale con una ricaduta da SM può essere favorita da determinate caratteristiche cliniche e radiologiche (Tab. 2), tuttavia, se necessario, bisogna indagare ulteriormente (es. mediante esame liquorale). Secondo le raccomandazioni EMA (vedi seguito), se si sospetta una PML in qualsiasi momento, il trattamento con Tysabri deve essere sospeso fino a quando la PML sia stata esclusa.

La presentazione clinica della PML è eterogenea e può includere deficit neurologici focali e non. La diagnosi può essere fatta in pazienti del tutto asintomatici e spesso all'esordio i sintomi, generalmente aspecifici, insidiosi, lentamente progressivi, possono essere trascurati. Tipicamente si tratta di disturbi cognitivi, comportamentali, alterazioni del tono dell'umore, deficit visivi retrochiasmatici, deficit del linguaggio o deficit motori e, nel 20% dei casi di PML, sono state riportate crisi epilettiche.

I pazienti con SM che sviluppano PML in corso di terapia con Natalizumab sembrano aver un miglior outcome clinico rispetto a quelli che sviluppano la malattia in caso di HIV+(Vermersch et al., 2011), facendo registrare un tasso di sopravvivenza, considerando un follow-up di almeno tre anni, pari al 77% (Clinic Speak, 2015). Tra i sopravvissuti, inoltre, è stata riportata una disabilità severa (40%), moderata (47%) e lieve (13%) (Kappos, 2011).

Il tasso di mortalità nella PML associata a NTZ è circa 22%, comunque minore di quello riportato nei pazienti HIV-AIDS pari al 40-50% nell'era della HAART. Più del 90% dei sopravvissuti ha una disabilità moderata-severa misurata alla Karnofsky

58 Performance Scale (KPS) sei mesi dopo la diagnosi (https://medinfo.biogen.com/, accessed July 2015).

Tab. 2 Caratteristiche RM utili nella diagnosi differenziale tra SM e PML (Kappos et al., 2011; Yousry et al., 2012).

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Anticorpi anti- JCV ed Index

Studi epidemiologici hanno mostrato che la prevalenza di anticorpi anti-JC virus è in stretta associazione, nei pazienti con SM, con l’aumentare dell’età, il sesso maschile e il Paese di residenza, con una prevalenza di sieropositività del 48.8% in UK, del 51% in Irlanda e del 69.5% in Portogallo (Bozic et al., 2014) e, sebbene non tutti gli studi siano concordi, sembra non esserci correlazione tra i livelli di anticorpi anti- JCV e la durata della terapia con Natalizumab (Bozic et al., 2012). Il primo test utilizzato per valutare la risposta anticorpale verso il virus fu quello di inibizione dell’emoagglutinazione (HI) basato sulla capacità del virus JC di agglutinare gli eritrociti umani in vitro, in sostanza se nel siero sono presenti anticorpi questi sono capaci di prevenire l’agglutinazione. In seguito si è passati ad un dosaggio immunoenzimatico quantitativo (EIA) capace di dosare le IgG dirette contro la proteina ricombinante VP1, a differenza del test precedente che prevedeva l’utilizzo dell’intero virione JC. Attualmente lo stato sierologico degli anticorpi anti-JCV e l’Index anticorpale anti-JCV (che equivale al titolo anticorpale) sono valutati mediante un test ELISA di seconda generazione: STRATIFY JCV DxSelect ELISA in due fasi. Nella prima fase, sulla base del valore dell'Index, il test è considerato negativo se <0.20, positivo se >0.40; il valore intermedio tra 0.20 e 0.40 richiede una ulteriore valutazione mediante test di conferma. In questa seconda fase i campioni vengono incubati con soluzioni contenenti particelle di JCV cosicché una percentuale di inibizione ≤45% è considerata negativa, ˃45% positiva.

Questo test ha una percentuale di falsi negativi del 2.2% (http://www.focusdx.com/pdfs/pi/US/EL1950.pdf) e secondo alcuni studi anche superiore e può essere eseguito presso tre laboratori: Focus Diagnostics (Cypress, CA), Unilabs (Copenhagen, Denmark) e Cirion Central Laboratory (Laval, Canada). La negatività per anti-JCV non esclude il rischio di PML nei pazienti trattati con Natalizumab, a causa della sieroconversione che in vari studi è risultata del 9.8% dopo 7.7 mesi o del 28.2% dopo un anno di trattamento (Outteryck et al., 2012, 2013; Trampe et al., 2012). Achiron et al., più recentemente, hanno riscontrato una sieroconversione del 24.6% dopo tre anni di terapia con Natalizumab. Sebbene questi alti tassi sono in parte riconducibili ad infezioni de novo da virus JC, probabilmente sono anche attribuibili ad una riattivazione del virus latente da parte del Natalizumab. La positività sierologica anticorpale sottostima la vera prevalenza dell'infezione da

60 JC virus, infatti, più di un terzo dei pazienti siero-negativi presentano una viremia o una viruria da JC (Major et al., 2013; Berger et al., 2013). In ogni caso il rischio clinico di PML è stato correlato allo stato anticorpale piuttosto che alla viremia o alla viruria. Achiron et al., inoltre, hanno osservato come già prima di intraprendere terapia con Natalizumab ci sono delle differenze, tra coloro che svilupperanno o meno la risposta anticorpale, nell'espressione genica a carico delle cellule mononucleate del sangue periferico, stando a significare che c'è già una predisposizione genetica nel verificarsi o meno della sieroconversione. Secondo questo studio il Natalizumab è capace di indurre uno switch nello stato degli anticorpi anti-JCV da negativo a positivo tramite l'attivazione, nelle cellule B dell'ospite, di fattori di trascrizione che in condizioni normali sono inattivi (Ferenczy et al., 2012). Il controllo della replicazione del virus JC nei precursori delle cellule B, infatti, dipende da fattori di trascrizione nucleare delle cellule dell'ospite capaci di riconoscere delle sequenze di DNA nelle regioni regolatorie del virus; ciò potrebbe comportare inoltre la mobilizzazione di cellule B dal midollo osseo e dai tessuti linfoidi verso il sangue periferico e quindi verso l'encefalo (Lindberg et al., 2008). Harrer et al. avevano dimostrato una ridotta espressione di VLA-4 nei pazienti in terapia con Natalizumab, Achiron et al., invece, hanno mostrato, nei pazienti in terapia JCV switchers, rispetto ai non switchers, una aumentata espressione di VLA- 4 e del recettore per la transferrina che favoriscono il legame del virus alla cellula ospite. Nei JCV switchers, inoltre, si è osservata una iperespressione di geni coinvolti nei meccanismi di ingresso del virus nella cellula ospite (macropinocitosi, endocitosi mediata da clatrina e caveolina).

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