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Una volta interrotta la terapia con Natalizumab, il farmaco sarà eliminato entro circa 90 giorni dall’ultima dose o, più rapidamente mediante plasmaferesi o immunoassorbimento. In ogni caso nella quasi totalità dei pazienti, a questo punto, il ripristino del passaggio linfocitario attraverso la BEE comporta una risposta infiammatoria esuberante verso gli antigeni virali, con conseguente danno infiammatorio dei tessuti gliali e neuronali infetti e non. L’IRIS è stata inizialmente descritta nei pazienti con AIDS sottoposti a terapia antiretrovirale ad elevata attività, tuttavia, nei pazienti in terapia con Natalizumab il fenomeno può anche essere di

70 maggiore entità poiché una volta eliminato il farmaco si ripristina un sistema immunitario che, a differenza dei soggetti HIV+, è completamente normale. Data la stretta associazione tra la PML associata al Natalizumab e l’IRIS, questo fenomeno è generalmente descritto come PML-IRIS. Clinicamente si manifesta con la comparsa di nuovi sintomi neurologici o un rapido peggioramento dei sintomi preesistenti, mentre, radiologicamente si osserva un quadro di attività infiammatoria, ovvero le lesioni aumentano di dimensione, possono confluire, presentano edema, rigonfiamento cerebrale ed effetto massa, inoltre si osserva la comparsa o l’incremento della captazione del mdc. In seguito le lesioni rimangono iperintense in T2/FLAIR e tipicamente più ipointense in T1 ad indicare un danno irreversibile della sostanza bianca. A lungo termine i danni si osservano a carico della sostanza grigia corticale e profonda, per degenerazione retrograda neuronale, come dimostra la necrosi corticale laminare e la severa atrofia corticale (Wattjes et al. 2013). E' una condizione che può avere un notevole impatto clinico con un peggioramento dell'EDSS ed una mortalità del 30%. In letteratura dei pazienti HIV positivi con PML, il 23% sviluppa una PML-IRIS (Cinque et al, 2001). In una serie di 42 pazienti con SM e PML da Natalizumab, la maggior parte trattati con plasmaferesi/immonoassorbimento, tutti hanno sviluppato IRIS tanto più precocemente se trattati, tutti con un peggioramento dell’EDSS, tanto più significativo quanto più precoce è stata la comparsa dell’IRIS, con una mortalità del 25% (Tan et al, 2011). La terapia più comunemente utilizzata nella PML-IRIS è rappresentata dai corticosteroidi ad alto dosaggio.

Sull’utilità della plasmaferesi in caso di PML non ci sono chiare evidenze perché non ci sono prove che una più precoce immunoricostituzione migliori l’outcome di questi pazienti, pertanto, alcuni centri proprio per contenere il rischio di IRIS, preferiscono il naturale washout del farmaco alla plasmaferesi. Ulteriori terapie, sebbene i risultati ottenuti siano ancora contraddittori, sono state prese in considerazione per la PML, tra queste: la Mirtazapina, inibitore selettivo del re-uptake della serotonina che compete con il virus JC per il legame al sito recettoriale; la Clorpromazina che inibisce l’endocitosi clatrina-dipendente del virus; farmaci inibenti la replicazione virale come Cidofovir, Citosina arabinoside; l’antimalarico Meflochina che inibisce l’infezione e la replicazione virale; l’IL-2 ricombinante che provoca un aumento delle cellule T CD4+.

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Raccomandazioni EMA (febbraio 2016)

Il 26 febbraio 2016 l’EMA ha confermato le raccomandazioni per minimizzare i rischi di PML, per cui ai tre fattori di rischio già noti nello sviluppo di PML, si aggiunge, per i pazienti che non hanno utilizzato immunosoppressori, la rilevazione di un alto indice anticorpale di JC virus. In questi pazienti, il trattamento con Tysabri deve essere continuato solo se i benefici superano i rischi.

Le stime del rischio aggiornate (Tab. 3), infatti, dimostrano che il rischio di sviluppare la PML è basso, e inferiore a quello precedentemente stimato, a valori di indice anticorpale ≤ 0,9, e aumenta sostanzialmente nei pazienti con valori di indice ≥1,5 (che è considerato il cut-off) che sono stati trattati con Tysabri per più di 2 anni. Nei pazienti che sono risultati negativi per gli anticorpi anti-JC virus, la stima del rischio di PML rimane invariata a 0,1 per 1.000 pazienti.

Tab. 3 Stime di rischio per PML per 1.000 pazienti, in casi di positività agli anticorpi anti-JC virus (raccomandazioni EMA del 26 febbraio 2016; EMA/137488/2016).

Ulteriori punti fondamentali sono i seguenti:

- prima di iniziare il trattamento, deve essere disponibile una RM basale (di solito entro 3 mesi) come riferimento, e deve essere eseguito un test basale degli anticorpi anti-JCV;

- durante il trattamento con Tysabri, i pazienti devono essere monitorati ad intervalli regolari per segni e sintomi di una nuova disfunzione neurologica, e almeno una volta all'anno deve essere eseguita una risonanza magnetica cerebrale completa per tutta la durata del trattamento;

72 - per i pazienti ad alto rischio di PML, devono essere considerate risonanze magnetiche più frequenti (ad esempio ogni 3-6 mesi) con un protocollo abbreviato (ad esempio FLAIR, T2-pesate e DWI) e, qualora si sospetti una PML, il protocollo di RM deve essere esteso per includere sequenze T1 pesate potenziate con mezzo di contrasto e deve essere considerato il test del liquido cerebrospinale per la presenza di DNA del virus JC utilizzando PCR ultrasensibile;

- il test degli anticorpi anti-JC virus deve essere effettuato ogni 6 mesi nei pazienti anticorpo-negativi, mentre, i pazienti che hanno bassi valori di indice e senza storia di precedente uso di immunosoppressori devono essere testati ogni 6 mesi una volta che raggiungono i 2 anni di trattamento. A questo proposito va aggiunto che il valore dell’Index si può modificare nel tempo, al momento però non ci sono dati sufficienti per determinare la prevalenza e il significato clinico del passaggio da un alto ad un basso Index, pertanto, un paziente con un Index >1.5 deve essere considerato e gestito come tale anche se in seguito converte ad un valore di Index inferiore (Nicholas et al, 2014).

Dopo 2 anni di trattamento, i pazienti devono essere informati di nuovo sul rischio di PML con Tysabri e, qualora la terapia venga interrotta, i pazienti e i i loro assistenti devono essere avvisati di continuare ad essere vigili circa il rischio di PML fino a 6 mesi dopo l'interruzione del Tysabri. Quest’ultimo punto è giustificato dal fatto che il Natalizumab può essere rilevato in circolo circa 200 giorni dopo l’interruzione della terapia inducendo una riduzione delle cellule T-CD4 che persiste per diversi mesi (Rispens et al. 2012).

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Quadro clinico ed opzioni terapeutiche dopo l’interruzione

del Natalizumab

Dopo l’interruzione del Natalizumab, nel 10-40% dei pazienti si osserva il fenomeno del rebound (Chaves et al, 2015), ovvero una risposta infiammatoria e quindi una attività di malattia maggiore rispetto a quella precedente l’utilizzo del farmaco. Il fenomeno è più frequente nei pazienti con una maggiore attività di malattia nella fase pre-Natalizumab e in quelli in cui l’avvio di una terapia successiva al Natalizumab avviene con ritardo. Dal punto di vista radiologico compaiono nuove lesioni captanti o non il gadolinio, in numero maggiore rispetto a quello atteso da una abituale ricaduta, inoltre, è possibile osservare anche la comparsa di captazione del mdc ai margini di vecchie lesioni. Diversi studi post-marketing hanno descritto il fenomeno rebound in una significativa percentuale di pazienti, tre mesi dopo l’interruzione della terapia con Natalizumab (Killestein et al., 2010; Kerbrat et al., 2011). Altri studi, invece, hanno descritto un ritorno ad una attività di malattia pre-Natalizumab (O’Connor et al., 2011; Stüve et al., 2009). Si tratta comunque di studi condotti su piccole popolazione e di breve durata.

Sangalli et al, hanno sottoposto ad un follow-up della durata media di 22.4 mesi, presso l’Ospedale S. Raffaele di Milano, 110 pazienti che hanno interrotto Natalizumab dopo almeno un anno di terapia (numero medio di infusioni 24±10.7). L’interruzione della terapia è stata causata, nel gruppo più ampio da un elevato rischio (positività anti-JC e lunga durata terapia e/o precedente terapia immunosoppressiva), oppure dalla decisione del paziente per paura della PML (prima della disponibilità del test anti JCV) o per programmare una gravidanza. In seguito l’81,8% dei pazienti ha iniziato una terapia immunomodulante (GA o IFN ad un mese di distanza dall’ultima infusione), il 9,1% ha assunto Fingolimod dopo una media di 4,6 mesi (range 3-6 mesi) ed un altro 9,1% non ha ripreso alcuna terapia (programma di gravidanza o rifiuto di terapia iniettiva prima della disponibilità di Fingolimod). Un sottogruppo di pazienti (22,7%) ha assunto metilprednisolone (1 grammo/die per 2 giorni), mensilmente, a partire da due mesi dopo l’interruzione del Natalizumab, in aggiunta alla terapia in atto. I dati ottenuti hanno confermato che la stabilità di malattia raggiunta durante la terapia non continua anche nel periodo successivo all’interruzione del farmaco poiché il Natalizumab non modifica il sistema immunitario a lungo termine. In questo studio solo un quarto dei pazienti è

74 rimasto libero da attività di malattia un anno dopo l’interruzione. La concentrazione del Natalizumab si riduce progressivamente entro tre mesi mentre gli effetti sul sistema immunitario possono essere rilevati fino a sei mesi dopo l’interruzione della terapia. (Stüve et al, 2006). Lo studio, in effetti, ha mostrato un picco di ricadute al quarto mese dopo la sospensione del farmaco con un rischio ancora elevato ad otto mesi e ridotto dopo un anno di interruzione. Anche l’attività neuroradiologica di malattia (lesioni captanti gadolinio) è stata osservata soprattutto a sei mesi di distanza dall’interruzione del farmaco e, una vera attività di rebound è stata osservata solo nel 10% dei pazienti. Più in generale la riattivazione di malattia (manifestatasi nel 75% dei pazienti in studio) è stata osservata durante un periodo ad alto rischio compreso tra il secondo e l’ottavo mese dopo l’interruzione, risultato maggiore nei pazienti con un più elevato ARR e un maggior numero di lesioni captanti gadolinio nell’anno precedente l’avvio di Natalizumab. Già O ‘Connor aveva dimostrato che i pazienti con una più elevata attività di malattia pre-Natalizumab avevano un maggior rischio di ARR dopo l’interruzione della stessa. In accordo con quanto già dimostrato (O'Connor et al. 2011, Cohen et al. 2013) si ha un ritorno all’attività di malattia indipendentemente dall’avvio di terapie immunomodulanti di prima linea che si è visto funzionano solo in un sottogruppo di pazienti, così come l’utilizzo di metilprednisolone, a differenza di quanto altrimenti riportato in letteratura (Borriello et al. 2012), non ha mostrato un affetto statisticamente significativo nel prevenire la riattivazione della malattia. Sebbene transitorio, il periodo ad alto rischio può essere molto pericoloso, in questo studio il 14,5% dei pazienti ha mostrato in questa fase una progressione della disabilità a causa delle ricadute. Durante questa fase è perciò consigliato uno stretto monitoraggio clinico e neuroradiologico e, secondo questo gruppo di studio, andrebbe considerato, nei pazienti con maggiore riattivazione di malattia, un approccio più aggressivo (es. ciclofosfamide e.v. mensile seguito da nuove terapie orali) così come, nei pazienti a basso rischio di PML andrebbe rivalutata la ripresa della terapia con Natalizumab.

L’emivita del Natalizumab è circa 11 giorni; il blocco di VLA-4 può persistere per circa 2-3 mesi dopo l’infusione (5 emivite). I risultati dello studio di O’Connor sono in linea con questa cinetica di eliminazione mostrando come il ritorno ad una attività di malattia pari a quella del baseline si verifichi dopo circa tre mesi. Gli effetti biologici tuttavia possono essere rilevati più a lungo, infatti, il numero dei linfociti sul liquor rimane al di sotto dei livelli pre-trattamento sei mesi dopo l’interruzione

75 della terapia (Stüve et al. 2006). Questo effetto prolungato sui linfociti, in particolare CD4+, si pensa sia dovuto alla capacità del farmaco di ridurre il numero delle APCs negli spazi perivascolari cerebrali (del Pilar et al. 2008) e/o ad effetti diretti sull’espressione di geni rilevanti per la funzione e la differenziazione dei linfociti (Warnke et al. 2010).

Oltre alla riattivazione della malattia anche la progressione della disabilità è un altro aspetto importante dopo l’interruzione del Natalizumab. Prosperini et al. hanno valutato 318 pazienti in un follow up longitudinale di sei anni, confrontando il gruppo che ha continuato la terapia (61,6%) con quello che ha interrotto (38,4%) dopo due di anni stabilità di malattia; i pazienti che interrompono hanno un rischio più di due volte aumentato di peggioramento della disabilità (con un rischio ancora più elevato se all’inizio della terapia EDSS > 3), inoltre il 68% di questi ha una minore probabilità di riduzione della disabilità rispetto a coloro che proseguono la terapia.

Weinstock-Guttman et al, in uno studio randomizzato, in singolo cieco, hanno valutato 50 pazienti sottoposti a ≥24 infusioni, nei quali a causa dell’aumentato rischio di PML è stato necessario interrompere la terapia. Si è osservato che nei pazienti che hanno interrotto mediante tapering ovvero con due ulteriori infusioni, rispettivamente a 6 ed 8 settimane (tapered group-TG) si è avuto un minor numero di ricadute e di lesioni alla RMN rispetto a quelli che hanno interrotto immediatamente (immediate discontinuation group-IDG) nel successivo periodo di follow-up di 12 mesi. Entrambi i gruppi comunque hanno intrapreso nuove DMT entro 1-6 mesi dall’ultima infusione ed assunto metilprednisolone (1 gr per 1-3 giorni) mensilmente. Nello studio investigativo parzialmente controllato con placebo, RESTORE, per valutare l’attività di malattia durante un periodo di interruzione del Natalizumab di 24 settimane, 175 pazienti sono stati randomizzati 1:1 :2 a continuare Natalizumab, switchare a placebo, intraprendere terapia con altro immunomodulante (IFN, GA, MP). Si è registrata una attività di malattia alla RM nello 0% di quelli che hanno proseguito Natalizumab, nel 46% dei placebo, nel 7% IFN, 53% GA, 40% MP. Le ricadute di malattia hanno interessato il 4% dei trattati con Natalizumab ed il 15-29% delle altre opzioni. Lo studio ha quindi fornito evidenze di classe II che nei pazienti liberi da malattia dopo un anno di terapia con Natalizumab, l’interruzione aumenta il rischio di ricadute rispetto a quelli che proseguono la terapia, indipendentemente dall’utilizzo di altre DMTs di prima linea.

76 Fragoso et al. hanno valutato per 10 mesi 96 pazienti che hanno interrotto Natalizumab dopo una media di 23 infusioni, passando a Fingolimod attraverso due modalità: breve washout (max 8 settimane) o metilprednisolone pulse mensile qualora necessario un periodo di washout più lungo. Hanno in questo modo registrato la più bassa percentuale di ricadute (8,3%) tra gli studi finora riportati nel passaggio da un farmaco all’altro.

Cohen et al. hanno osservato 333 pazienti che hanno sospeso Natalizumab dopo una media di 31 infusioni passando a Fingolimod, registrando che il 27% ha presentato ricadute durante il periodo di washout (con un rischio minore per washout <3 mesi) e il 20% ricadute entro sei mesi dall’avvio di Fingolimod (e in questo caso l’unico fattore predittivo è risultato essere la presenza di ricadute durante il washout).

Comi et al. hanno evidenziato che Fingolimod rappresenta una valida alternativa al Natalizumab sebbene il periodo di washout sia fortemente condizionante poiché il rischio di ricaduta è significativamente maggiore nei pazienti in cui la durata è ≥6 mesi rispetto a tre mesi.

Dal momento che la completa eliminazione plasmatica si realizza tra 8 settimane 200 giorni (Rispens et al. 2012), nel momento in cui si passa da Natalizumab a Fingolimod, nel periodo di sovrapposizioni dei due farmaci il paziente continua ad essere a rischio di PML, pertanto, sebbene non ci siano chiare evidenze, la regola è che intercorrano tra le due 3-6 mesi (Berger et al. 2010).

In sintesi, dopo l’interruzione della terapia con Natalizumab, nella maggior parte dei casi ricadute ed attività di RM ritornano ai livelli pre-trattamento con un picco a 4-7 mesi dopo l’ultima infusione (O’Connor et al. 2011; Fox et al. 2014). Il rischio è maggiore nei pazienti con una elevata attività di malattia nel pre-Natalizumab. Non ci sono linee guida per i tempi e la scelta del trattamento nel post Natalizumab. Il controllo della malattia è stato incompleto quando i pazienti sono passati a terapia con IFN, GA o MP ad alte dosi (Cohen et al. 2014) e, addirittura l’associazione di corticosteroidi e GA ha mostrato un effetto paradosso, con una maggiore attività di malattia alla RM rispetto al GA in monoterapia. Risultati migliori nel controllo della malattia non sono stati ottenuti nemmeno con Teriflunomide e Dimetilfumarato. A confronto con IFNbeta e GA, Fingolimod sembra più promettente infatti in uno studio di fase III della durata di un anno ha ridotto significativamente l’ARR, in particolare nei pazienti ad elevata attività di malattia, ha ridotto l'ARR del 61% rispetto ad IFN-β1a i.m (Cohen et al. 2013).

77 Di recente, uno studio multicentrico in doppio cieco controllato con placebo (TOFINGO) ha mostrato evidenze di classe II che pazienti con SMRR che switchano da Natalizumab a Fingolimod con un periodo di washout di 8-12 settimane, anziché 16 settimane, hanno un minor rischio di riattivazione clinica e neuroradiologica della malattia (Kappos et al, 2015).

Alping et al, dopo 18 mesi di osservazione, hanno descritto, in pazienti con SMRR stabile, che hanno interrotto Natalizumab a causa della positività anti-JCV, una maggiore efficacia e tollerabilità del Rituximab rispetto al Fingolimod (pur ammettendo l'esistenza di variabili confondenti come la durata della terapia con Natalizumab, la durata del wash-out etc).

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