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Anti-alfa4beta1 integrina nella Sclerosi Multipla: risposta terapeutica a lungo termine.

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Academic year: 2021

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Facoltà di Medicina

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Scuola di Specializzazione in Neurologia

Direttore: Prof. Ubaldo Bonuccelli

TESI DI SPECIALIZZAZIONE

Anti-α4β1 integrina nella Sclerosi Multipla: Risposta

terapeutica a lungo termine

Relatore Candidato

Prof. Alfonso Iudice Dott.ssa Loredana Petrucci

Anno accademico 2014/2015

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2 Alla mia famiglia

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Indice

Riassunto………4 La Sclerosi Multipla………...…………5 Epidemiologia 5 Immunopatogenesi 7

Decorso clinico e prognosi 11

Diagnosi 14

Scenario terapeutico 17

Deficit cognitivo nella SM………27

Presentazione clinica e prevalenza 27

Neurofisiopatologia dei disturbi cognitivi 31

Ruolo della RMN nei disturbi cognitivi 33

Test neuropsicologici nella sclerosi multipla 37

Terapia dei disturbi cognitivi 39

Il Natalizumab………..41

Integrine 41

Meccanismo d'azione e studi clinici 44

Natalizumab a lungo termine 47

La leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML)………...49

Il virus JC 51

Diagnosi di PML 56

Natalizumab e PML 57

Anticorpi anti-JCV ed Index 59

Effetti del Natalizumab sul circolo periferico 63

Risonanza Magnetica nella PML associata a Natalizumab 68

Raccomandazioni EMA (febbraio 2016) 71

Quadro clinico ed opzioni terapeutiche dopo l'interruzione del Natalizumab 73

Studio clinico………78

Obiettivo dello studio, Metodi, Analisi statistica 78

Risultati 82

Discussione e Conclusioni 91

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Riassunto

Nei pazienti con Sclerosi Multipla ad elevata attività di malattia, quindi con riesacerbazioni cliniche ed incremento del carico lesionale alla Risonanza Magnetica, solitamente le terapie di prima linea con farmaci immunomodulanti non sono sufficienti. È necessario, in questi casi, adottare terapia più aggressive, tra le quali il Natalizumab (anti- α4β1 integrina), primo anticorpo monoclonale utilizzato per trattare questa malattia. Scopo di questo studio è valutare la risposta terapeutica a questo farmaco nel breve e nel lungo termine nonché valutare il rapporto rischio/beneficio di una terapia che ha dato prova di notevole efficacia ma allo stesso tempo si associa ad un temibile evento avverso grave, potenzialmente fatale, la leucoencefalopatia multifocale progressiva.

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LA SCLEROSI MULTIPLA

Epidemiologia

La Sclerosi Multipla (SM) è una malattia infiammatoria cronica del sistema nervoso centrale (SNC), a patogenesi autoimmune, caratterizzata da demielinizzazione e perdita assonale. È la principale causa di disabilità neurologica, non traumatica, nei giovani adulti. La fascia d’età più colpita è compresa fra i 30 e i 50 anni, con una età media all’esordio pari a 30 anni, sebbene possa esordire anche nell’infanzia /adolescenza e oltre i 60 anni. È circa due-tre volte più frequente nel sesso femminile rispetto a quello maschile. La causa è ancora sconosciuta, tuttavia, si pensa ad una eziologia multifattoriale in cui fattori ambientali agiscono su soggetti geneticamente predisposti. Si stima che nel mondo ci siano 2.5 milioni di individui affetti da SM; la prevalenza varia da meno di 5/100000 nelle aree a basso rischio (la maggior parte dell’Africa e dell’Asia orientale) a più di 100/100000 nelle aree ad alto rischio (Europa Settentrionale e Centrale, Nord America, Australia sud-orientale) (Kurtzke, 2013) seguendo quindi un gradiente di latitudine, ovvero la prevalenza aumenta allontanandosi dall’equatore. In Italia la prevalenza della SM varia da 80 a più di 120 casi/100.000 abitanti, con la Sardegna che, insieme alla Scozia e ad alcune province scandinave, rappresentano le aree europee a più alta incidenza (Pugliatti et al., 2001). Studi di migrazione hanno evidenziato come le popolazioni migranti conservano il rischio del paese d’origine o, al contrario, acquisiscono quello del nuovo paese a seconda che la migrazione sia avvenuta rispettivamente dopo o prima della pubertà, supportando la teoria che fattori ambientale agiscano durante l’infanzia o la prima adolescenza. I fattori ambientali (Milo and Kahana, 2010) più plausibilmente chiamati in causa sono l’esposizione al virus di Epstein-Barr (EBV) durante l’infanzia, la ridotta esposizione alla luce e alle radiazioni ultraviolette, il deficit di vitamina D, il fumo di sigaretta e, più recentemente, si è ipotizzato il ruolo di una dieta ricca di sodio come induttore delle cellule Th 17 (Kleinewietfeld et al., 2013). La SM ha una ricorrenza familiare del 20%, con una riduzione del rischio dal 3% nei parenti di primo grado (fratelli 5%, genitori 2%, figli 2%) all’1% nei parenti di secondo e terzo grado (Robertson et al., 1996). Studi su gemelli, inoltre, hanno mostrato una concordanza per la presenza di SM, maggiore nei monozigoti (25%) rispetto ai dizigoti (5%) (Willer et al., 2003). Sebbene non si possa parlare di ereditarietà in senso stretto si può ipotizzare una suscettibilità genetica, infatti, studi

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6 di linkage e di associazione, hanno mostrato l’esistenza di una relazione tra SM ed alleli del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) che codifica per gli antigeni di istocompatibilità (sistema HLA) che presentano gli antigeni proteici ai linfociti T. Gli aplotipi HLA (Olerup and Hillert, 1991) riscontrati più frequentemente in associazione alla malattia sono DR15 e DQ6 (nel Nord Europa) e DR4 (in Sardegna ed in altri gruppi mediterranei).

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Immunopatogenesi

L’ipotesi che la SM sia una malattia a patogenesi autoimmune (Fig. 1), mediata da cellule T, è stata ampiamente confermata grazie agli studi condotti sul modello animale della malattia, ovvero l’encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE). L’EAE si ottiene immunizzando l’animale con proteine (o peptidi) a derivazione mielinica come la proteina proteolipidica (PLP), la glicoproteina mielinica degli oligodendrociti (MOG), la proteina basica della mielina (MBP).

In soggetti geneticamente predisposti, fattori ambientali trigger provocano l’attivazione, a livello periferico, di cellule T autoreattive, specifiche per la mielina. Come ciò avvenga è ancora oggetto di discussione, anche se l’ipotesi più accreditata è che le cellule T generate da epitopi non-self (virali o batterici) possano cross-reagire con epitopi-self (mielinici) a causa di analogie strutturali tra i due gruppi di antigeni (fenomeno del mimetismo molecolare) (Vaughan et al., 2014). Un’altra teoria sostiene che le cellule T siano attivate da antigeni mielinici costitutivamente espressi a livello dei linfonodi cervicali.

Cellule T autoreattive specifiche per la mielina sono state riscontrate nel sangue periferico e nel liquor di pazienti con SM, ma anche in controlli sani, nei primi però si tratta di cellule più “attivate” lasciando spazio all’ipotesi che alla base della SM, più che una aumentata produzione di cellule T autoreattive, ci sia una compromissione dei meccanismi di immunoregolazione o di tolleranza immunitaria. Una volta attivate, le cellule T naive, a seconda del tipo di citochine a cui sono esposte, si differenziano in varie popolazioni cellulari (cellule T helper-Th) con diverse funzioni effettrici. Le cellule T helper 1 (Th 1) producono citochine pro-infiammatorie (IFN-gamma, IL-2, IL-15, TNF-alfa) con conseguente liberazione di ossido nitrico ed altre molecole effettrici che generalmente offrono protezione contro i patogeni; le cellule T helper 2 (Th 2), al contrario, secernono citochine anti-infiammatorie (IL-4, IL-5, IL-6, IL-13), sebbene abbiano anche un ruolo nel coadiuvare i linfociti B nella genesi di anticorpi antigene-specifici. Nella SM sembra prevalere la differenziazione in senso Th1 quindi i Th2 non sono in grado di controllare adeguatamente l’infiammazione. Altro sottotipo di cellule T è quello dei T helper 17 (Th 17), la cui espansione necessita della presenza di IL-23 prodotta da macrofagi e cellule dendritiche. Le cellule Th 17 sintetizzano citochine pro-infiammatorie (IL-17, IL-22, , IL-21, TNF-alfa), in particolare l’IL-17 è stata

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8 riscontrata nel sangue, nel liquor e nel parenchima cerebrale di pazienti con SM; recettori per IL-17 sono stati riscontrati nelle placche acute e croniche da SM, inoltre, la presenza di cellule Th17 è stata osservata nel liquor di pazienti con SM, a livelli significativamente più alti durante fasi di riesacerbazione clinica piuttosto che in fase di remissione della malattia. Ciò fa supporre che queste cellule abbiano un ruolo centrale nella patogenesi della SM (Tzartos et al., 2008; V. Brucklacher-Waldert et al., 2009).

Un altro piccolo sottogruppo di cellule T CD4+ implicato nella patogenesi della SM è costituito dalle cellule T regolatorie (CD4+CD25+ Treg) che sopprimono la risposta immunitaria dannosa verso antigeni esogeni ed autoantigeni regolando il numero e la funzione delle cellule T autoreattive. Si distinguono in naturali (timo-derivate o cellule CD25hi/Foxp3+ e HLA-G+) e inducibili (cellule Th3 e Tr1) e mediano i loro effetti attraverso la secrezione di citochine antiinfiammatorie (IL-10, TGF-beta) o attraverso il contatto diretto con le cellule effettrici e, nello specifico, sopprimono la proliferazione e la secrezione di citochine da parte delle cellule T CD4+ e CD8+ attivate. Sebbene il numero di cellule Treg tra pazienti con SM e controlli sia lo stesso, diversi studi hanno dimostrato come nei pazienti con SM le cellule Treg sono meno efficienti nel sopprimere l’attivazione delle cellule T mielino-specifiche (Haas et al., 2005).

Anche se in passato il ruolo preminente nella patogenesi della SM è stato sempre attribuito ai linfociti T CD4+, vi sono diverse evidenze a sostegno di un ruolo altrettanto importante per i linfociti T CD8+ o citotossici i quali possono danneggiare le cellule gliali con conseguente esposizione assonale, possono attaccare direttamente il neurone, promuovono la permeabilità vascolare e, inoltre, attraverso la secrezione di perforine, possono inattivare le cellule T CD4+ (Kasper et al., 2010).

Oltre alle cellule T, anche ai linfociti B è riconosciuto un ruolo importante nella patogenesi della SM. Queste, divenute plasmacellule, producono anticorpi (come prova la presenza di bande oligoclonali nel liquor) con i quali partecipano alla demielinizzazione danneggiando gli oligodendrociti con o senza complemento. Una volta attivati, i linfociti T, grazie alla concomitante iperespressione di molecole di adesione, acquisiscono la capacità di attraversare la barriera emato-encefalica (BEE). Questo processo si può realizzare attraverso almeno due meccanismi, i leucociti passano attraverso il corpo delle cellule endoteliali tramite la formazione di pori o attraverso un processo simile alla fagocitosi (diapedesi transcellulare) oppure

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9 attraverso le giunzioni delle cellule endoteliali (diapedesi paracellulare). In condizioni normali il passaggio dei leucociti all’interno del SNC è limitato non tanto dalla presenza di barriere vascolari vere e proprie quanto dalla ridotta espressione, a livello delle cellule endoteliali, di molecole di adesione-citochine indotte (CAMs), necessarie per catturare i leucociti dal circolo sanguigno. Sembra che citochine prodotte dai leucociti (TNF-alfa, IL-17, IFN-gamma, IL-22) inducono una up-regulation dell’espressione delle molecole di adesione a livello endoteliale. Nella maggior parte dei casi comunque il processo inizia per interazione tra L-selectina, espressa sulla maggior parte dei leucociti, e P-ed E-selectina espresse sulla superficie delle cellule endoteliali attivate così da creare un iniziale legame transitorio (“tethering”) provocando un rotolamento (“rolling”) dei leucociti lungo la parete del vaso nella direzione del flusso (Hernández-Pedro et al., 2013). Tra tutte fondamentale è l’interazione tra α4β1 integrina (VLA-4, very late activation, antigen-4) espressa sulla superficie dei linfociti attivati (specie i Th1, come pure i linfociti T CD8+ e le cellule B) e la molecola di adesione delle cellule endoteliali (VCAM-1, vascular cell adhesion molecule 1). I linfociti Th 17, invece, sfruttano soprattutto melanoma cell adhesion molecule (MCAM) e lymphocyte function-associated antigen (LFA)-1, oltre all’interazione tra il recettore CCR6 che si lega al CCL20 prodotto dalle cellule epiteliali dei plessi coriodei (Sudhir et al., 2015).

In questo modo negli spazi perivascolari attorno alle venule si forma un manicotto costituito da cellule T CD4+/CD8+, cellule B, monociti/macrofagi. I leucociti quindi liberano metalloproteinasi della matrice (MMP-2, MMP-9) capaci di degradare la matrice extracellulare e la membrana basale e consentire pertanto il passaggio delle cellule immunitarie nel parenchima cerebrale. Le MMP, inoltre, sembrano avere un ruolo nella demielinizzazione, nel danno assonale e nell’attivazione delle citochine. Alcuni studi hanno mostrato elevati livelli plasmatici e liquorali di MMP-9 in pazienti con SM rispetto ai controlli sani ed hanno trovato anche una correlazione con l’attività clinica e radiologica di malattia (Waubant et al., 1999).

All’interno del SNC i linfociti T CD4+ mielino-specifici sono riattivati in situ, mediante antigeni mielinici espressi nel contesto di molecole HLA classe II espresse, sulla superficie di APC (macrofagi, microglia, cellule dendritiche, cellule B), e ciò comporta il rilascio di citochine pro-infiammatorie, mediatori solubili che alterano ulteriormente la BEE e provocano l’ingresso di una seconda più ampia ondata di cellule infiammatorie all’interno del SNC.

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10 I linfociti Th1 e Th17 attivano i macrofagi e la microglia e provocano demielinizzazione e danno assonale attraverso la liberazione di citochine, mediatori solubili, specie reattive dell’ossigeno (ROS), radicale nitrossido (RNS), e glutammato. Le cellule B si trasformano in plasmacellule e producono anticorpi che provocano demielinizzazione per fagocitosi o attivazione del complemento. La maggior parte delle cellule presenti nel SNC, oligodendrociti, astrociti e neuroni, in condizioni infiammatorie, esprimono molecole MHC classe I divenendo così potenziali bersagli per i linfociti T CD8+ citotossici (Saxena et al., 2011). Infine il danno del SNC comporta il cosiddetto “epitope spreading” ovvero l’esposizione di epitopi diversi da quelli che avevano innescato l’iniziale risposta immunitaria, con conseguenti ricadute e progressione di malattia (Steinman 2014).

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Decorso clinico e Prognosi

La SM è una malattia eterogenea caratterizzata da una ampia varietà di segni e sintomi neurologici dovuti alla variabile distribuzione, nell’encefalo e nel midollo spinale, di aree di infiammazione, demielinizzazione, perdita assonale e gliosi (“placche sclerotiche”).

La sindrome clinicamente isolata (CIS) rappresenta il primo episodio clinico durante il quale il paziente ha segni e sintomi suggestivi di una malattia infiammatoria demielinizzante del SNC, ad esordio acuto sub-acuto, della durata di almeno 24 ore, che raggiunge un picco abbastanza rapidamente (2-3 settimane), si verifica in assenza di febbre, di infezioni e di aspetti clinici di encefalopatia (Miller et al., 2008). La CIS per definizione è isolata nel tempo (monofasica) per interessamento del nervo ottico (una delle manifestazioni più frequenti), del midollo spinale, del tronco encefalico, del cervelletto o, più raramente, di un emisfero cerebrale (Miller et al., 2008). Alcuni pazienti con CIS, tuttavia, hanno evidenza clinica di una disseminazione nello spazio (multifocale, es: neurite ottica e riflesso cutaneo-plantare in estensione oppure neurite ottica ed oftalmoplegia internucleare). La CIS suggerisce la possibilità di sviluppare una SM che è una malattia del SNC disseminata nello spazio e nel tempo. I principali fattori di rischio per la conversione di una CIS a SM sono rappresentati dalla RMN (il 50-70% degli adulti con CIS hanno multiple lesioni asintomatiche della sostanza bianca encefaliche, iperintense in T2, suggestive di demielinizzazione) e dalla presenza di bande oligoclonali nel liquor. Per quanto riguarda la RMN il rischio aumenta con l’aumentare del numero delle lesioni ed è più alto in caso di interessamento della fossa cranica posteriore (tronco encefalo più del cervelletto)e, in generale, sulla base degli studi a lungo termine, si può concludere che il rischio di conversione a SM è del 60-80% se ci sono lesioni alla RMN e del 20% se non ci sono altre lesioni oltre a quella sintomatica (Fisniku et al., 2008; Tintoré et al., 2006); più recentemente poi anche il riscontro RMN di atrofia della sostanza bianca e grigia è risultato un importante fattore predittivo di conversione a SM (Calabrese et al., 2011). Il ruolo del liquor, invece, sembra essere meno importante, in particolare la presenza di OCBs sembra essere un fattore predittivo significativo solo nei casi di RMN negativa o con poche lesioni (Tintoré et al., 2008), mentre il riscontro di anticorpi IgG contro virus neurotropi o la presenza di neurofilamenti e proteina tau (markers di danno assonale)

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12 sono fattori molto specifici di conversione (Brettschneider et al., 2006). Ci sono infine alcuni aspetti clinici (Mowry et al., 2009) della CIS: sesso femminile, giovane età, razza non-bianca, esordio multifocale (aspetto ancora dibattuto) che aumentano il rischio di ricadute nei due anni successivi.

Il decorso clinico della malattia è estremamente variabile e, per quanto sia una classificazione spesso discutibile, si è soliti distinguere almeno quattro forme cliniche di SM (Lublin and Reingold, 1996): 1) recidivante-remittente (SM-RR): rappresenta l’80-85% delle diagnosi iniziali di SM ed è caratterizzata dalla comparsa di segni o sintomi neurologici nuovi o ricorrenti con successivo parziale o completo recupero ed assenza di progressione della malattia tra una ricaduta e l’altra. 2) Primariamente progressiva (SM-PP): progressione dalla malattia già dall’esordio con occasionali plateaus e minimi e temporanei miglioramenti. Riguarda il 10-15% dei pazienti con SM. 3) secondariamente progressiva (SM-SP): esordio RR seguito da progressione, con o senza ricadute, minime remissioni e plateaus. Circa il 50% dei pz con SM-RR converte a questa forma dopo 10 anni e circa il 90% dopo 25 anni (Fig. 2). 4) progressiva-recidivante (SM-PR): progressiva dall’esordio con chiare ricadute di malattia, con o senza completo recupero.

Fig. 2. Storia naturale della malattia (Barten LJ et al., 2010).

Ulteriori sottotipi di SM sono 1) la sindrome radiologicamente isolata (RIS): riscontro incidentale alla RMN di lesioni tipiche per SM, in assenza di evidenza clinica di malattia; definita anche SM pre-clinica o asintomatica; SM benigna

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13 (concetto altamente dibattuto): il paziente rimane completamente funzionale in tutti i sistemi funzionali 15 anni dopo l’esordio della malattia.

Vi sono poi delle varianti di SM come quella di Marburg (SM acuta) che è tipicamente un disordine monofasico con lo sviluppo acuto di ampie lesioni, generalmente sopratentoriali associate ad edema, effetto massa e severo danno assonale, spesso nonostante la terapia corticosteroidea/immunosoppressiva aggressiva, a decorso fulminante entro pochi mesi. Un decorso simile si osserva nella sclerosi concentrica di Balo il cui segno caratteristico è la presenza di un anello concentrico di demielinizzazione e tessuto normale; infine, vi è la malattia di Schindler, tipica dei bambini, caratterizzata da lesioni ampie e confluenti della sostanza bianca (Capello and Mancardi, 2004).

Numerosi fattori sembrano capaci di predire una prognosi peggiore o un decorso più aggressivo della malattia (Bergamaschi, 2007): età all’esordio maggiore di 40 anni, sesso maschile, origini etniche (asiatici, afro-americani), presentazione iniziale con sintomi motori, cerebellari o sfinterici o polifocale, incompleto recupero dopo l’attacco iniziale, attacchi frequenti durante il primo anno di malattia, breve intervallo tra i primi due attacchi, rapida progressione della disabilità durante il primo anno, progressione della disabilità sin dall’esordio, compromissione cognitiva all’esordio, presenza di OCBs nel liquor, importante carico lesionale o presenza di lesioni captanti mdc alla RMN eseguita all’esordio della malattia.

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Diagnosi

La diagnosi di SM è principalmente clinica, fondata sulla dimostrazione di segni e sintomi attribuibili a lesioni della sostanza bianca disseminate nello spazio e nel tempo, con l’esclusione di altre condizioni che possano mimare una SM.

Il ruolo della Risonanza magnetica (RMN) è fondamentale; le lesioni alla RMN sono iperintense nelle immagini pesate in T2, densità protonica e FLAIR, ipo/isointense nelle immagini pesate in T1, di forma ovoidale, di piccole dimensioni (3-4 mm, sebbene possano talvolta essere anche placche giganti) situate principalmente nella sostanza bianca periventricolare ma anche in fossa cranica posteriore, nel midollo spinale e in sede corticale e sottocorticale. Hanno di solito un asse maggiore perpendicolare ai ventricoli, coinvolgono il corpo calloso e le fibre a U, e possono captare il mdc nella fase di attività della malattia per danno della BEE (Ceccarelli et al., 2012).

Il ruolo dell’esame liquorale è stato invece un po' ridimensionato. In ogni caso circa il 60-70% dei pazienti con CIS ed il 90% dei pazienti con SM hanno due o più bande oligoclonali di immunoglobuline G (IgG OCBs) nel liquor (Zipoli et al., 2009), inoltre, il 70-90% dei pazienti SM hanno un elevato IgG Index (Link and Huang, 2006). Per quanto riguarda l’elettrofisiologia, un contributo ancora importante è dato dai potenziali evocati visivi, alterati nel 30% dei pazienti con CIS (Rot and Mesec, 2006) e in >50% dei pazienti con SM, in assenza di storia o evidenza clinica di neurite ottica (Bradley et al., 2008). Un aumento della latenza dei potenziali evocati sensitivi, tronco-encefalici e motori può provare una demielinizzazione non evidente clinicamente o mediante RMN.

Nel 1965 Schumacher et al. fecero il primo tentativo di standardizzare dei criteri diagnostici per la SM, introducendo i concetti fondamentali di disseminazione nello spazio (DIS) e nel tempo (DIT), definendo il concetto di recidiva (evento clinico della durata di almeno 24 ore, ad almeno 30 giorni di distanza da un altro episodio clinico) e di “no better explanation”. Nel 1983 seguirono i criteri di Poser che introdusse gli esami elettrofisiologici (potenziali evocati) e l’esame liquorale per documentare un danno asintomatico del SNC. La necessità di una diagnosi precoce e il ruolo fondamentale ricoperto dalla RM portarono alla formulazione dei criteri diagnostici di McDonald nel 2001. In seguito sono state pubblicate le revisioni del 2005 e del 2010 (Tab. 1).

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15 Tab. 1. Sclerosi Multipla: criteri diagnostici (Polman et al. 2011).

Secondo i criteri di McDonald 2010 la DIS può essere dimostrata dalla presenza di ≥ 1 lesioni in T2 (senza necessità di captazione del mdc) in almeno due delle seguenti aree del SNC: periventricolare, juxtacorticale, sottotentoriale e midollo spinale, con esclusione delle lesioni sintomatiche in pazienti con sindrome tronco-encefalica o

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16 midollare; la DIT può essere dimostrata dalla presenza di una o più nuove lesioni in T2 e/o captanti gadolinio, rispetto ad una RM al baseline (indipendentemente dal momento che è considerato come baseline, ovvero non è più necessario l’intervallo di almeno 30 giorni tra una RMN e la successiva) oppure dalla simultanea presenza di lesioni asintomatiche captanti e non captanti gadolinio in qualunque momento. A gennaio 2016 sono state pubblicate le nuove linee guida proposte dal MAGNIMS ( European collaborative research network for MRI in multiple sclerosis), i cui punti fondamentali sono i seguenti: dovrebbero contribuire a definire la disseminazione nello spazio almeno tre lesioni periventricolari (una singola lesione non è sufficientemente specifica), la presenza di lesioni del nervo ottico e di lesioni corticali/juxtacorticali (non solo queste ultime), inoltre, per definire la disseminazione nello spazio e nel tempo non dovrebbe essere fatta alcuna distinzione tra lesioni RMN sintomatiche o asintomatiche. Infine, una RMN completa del midollo è raccomandata per definire la disseminazione nello spazio (specie in quei pazienti in cui il quadro RMN encefalo non è sufficiente) mentre più limitato è il ruolo ricoperto nel definire la disseminazione nel tempo.

Numerose sono le condizioni patologiche che possono mimare una SM. In presenza di aspetti clinici, radiologici o laboratoristico/strumentali atipici, ovvero delle cosiddette “red flags” bisogna mettere in discussione la diagnosi ed escludere altre malattie demielinizzanti del SNC (ADEM-encefalomielite acuta disseminata, mielite trasversa idiopatica, neuromielite ottica spectrum disorder), malattie infettive, reumatologiche, vascolari, metaboliche, carenziali, genetiche etc.

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Scenario terapeutico

Negli ultimi venti anni sono stati approvati diversi farmaci per la SM configurando così uno scenario terapeutico (Fig. 3) di sempre più difficile gestione.

L’ Interferone-beta1b (IFN-β1b, BETAFERON ®, EXTAVIA®, 250 mcg s.c. a giorni alterni) fu il primo farmaco approvato nel 1993 dalla FDA (Food and Drug Administration) e, nel 1995 in Europa, sulla base dei risultati di studi clinici pivotali, randomizzati, controllati. In seguito sono state approvate altre formulazioni quali IFN-β1a (AVONEX ®, 30 mcg i.m. una volta alla settimana; REBIF ®, 22 o 44 mcg s.c. tre volte alla settimana). L’IFN agisce riducendo l'espressione di MHC II, aumenta la produzione di IL-10 e riduce la produzione di linfociti Th1 e Th 17 con conseguenti effetti anti-infiammatori (Kieseier, 2011); è implicato nella risposta immunitaria con affetti antivirali (che contribuiscono al favorevole profilo di sicurezza) e antiproliferativi (che possono interferire con la guarigione delle ferite e avere qualche effetto sebbene modesto sulle gravidanze esposte) (Amato et al., 2010). L’IFN ad alte dosi e elevata frequenza ha dimostrato effetti favorevoli sia su parametri clinici che neuroradiologici (Durelli et al., 2002). Tutte le formulazioni di IFN-β hanno dimostrato di ridurre l’ARR di circa il 30-34%, riducendo la progressione della disabilità come pure l’attività di malattia alla RMN (Jacobs et al., 1996). Gli studi CHAMPS, ETOMS, BENEFIT e REFLEX hanno mostrato che IFN-β ritarda la conversione della CIS a SM clinicamente definita sebbene, per quanto riguarda la disabilità (valutata mediante EDSS), ritardare l’inizio del trattamento non necessariamente implica una maggior progressione della disabilità (Kappos et al., 2009). Studi clinici controllati randomizzati su pazienti con SM-RR e SM-SP hanno dimostrato che esiste una finestra terapeutica all’interno della quale iniziare il trattamento può agire positivamente sullo sviluppo della disabilità (Cohen et al., 2004). Tutti gli studi comunque hanno provato un buon profilo di tollerabilità e sicurezza a lungo termine. I più comuni effetti collaterali sono la sindrome simil-influenzale (brividi, febbre, mialgia, cefalea) che si osserva nel 75% dei pazienti, entro 1-6 ore dall’iniezione, con risoluzione entro 24 ore, come pure l’elevazione degli enzimi epatici e la depressione della funzione midollare. Altri potenziali eventi avversi sono il peggioramento della debolezza e della spasticità. Sebbene sia ancora controverso, uno studio osservazionale ha dimostrato che la depressione rimane stabile durante tre anni di terapia con IFN-β. Queste terapia vanno monitorate

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18 mediante periodici esami ematici a causa di possibile linfopenia, aumento delle transaminasi e disfunzioni tiroidee. Altro aspetto da considerare è la possibilità che durante il trattamento, solitamente dopo 6-18 mesi, si sviluppino (soprattutto con IFN-β1b che è più immunogeno e meno con IFN-β1a i.m.) degli anticorpi neutralizzanti che alterano l’attività biologica del farmaco e, di conseguenza, l’efficacia clinica e soprattutto quella radiologica.

Nell’agosto 2014 la FDA ha approvato l’IFN-β1a pegilato (PLEGRIDY ®; 125 mcg una iniezione s.c. ogni due settimane) in cui l’aggiunta di glicole polietilenico ne riduce la degradazione aumentandone l’emivita.

Nel 1996 fu approvato il Glatiramer Acetato (GA, COPAXONE ®; 20 mg s.c. ogni giorno) e, a gennaio 2014, la FDA ha approvato la somministrazione a più bassa frequenza (40 mg s.c. 3 volte alla settimana; disponibile in Italia dal febbraio 2016) che conserva lo stesso profilo di sicurezza ed efficacia del dosaggio quotidiano. Si tratta di un copolimero sintetico costituito da 4 aminoacidi (acido glutammico, lisina, alanina e tirosina) che mima la MBP (proteina basica della mielina) quindi compete con gli antigeni della stessa per il legame alle molecole MHC di classe II, evitando così che le cellule Tattivino una risposta verso la mielina con conseguente protezione neuronale (Wolinsky, 1995). Non modifica il numero di linfociti circolanti ma ne determina lo switch da cellule pro-infiammatorie Th1 ad anti-infiammatorie Th2. Gli studi clinici hanno dimostrato una riduzione dell’ARR del 29%, oltre che dell’attività di malattia alla RMN (Johnson et al., 1995). È il farmaco per la SM più sicuro presente sul mercato, anche se assunto nelle fasi iniziali di gravidanza (Fragoso et al., 2010). La più comune reazione avversa è la reazione nel sito di iniezione (nel 56-78% dei casi ematoma, necrosi cutanea, eritema, dolore, prurito, lipoatrofia sottocutanea, quest’ultima, essendo permanente è il più serio effetto collaterale). Subito dopo l’iniezione, nel 5% dei casi, si può osservare una reazione sistemica di circa 30 secondi caratterizzata da flushing, costrizione toracica, dispnea, palpitazioni ed ansia.

Il Mitoxantrone (NOVANTRONE ®) fu approvato nel 2000 per la SM-SP e progressiva recidivante e, nel 2002, la FDA lo estese alle SM-RR aggressive. È un immunosoppressore che agisce provocando la rottura dei filamenti di DNA e inibendone la riparazione mediante la topoisomerasi II, compromettendo così la proliferazione e inducendo l’apoptosi di linfociti T e B, di macrofagi altre APC. Studi clinici su pazienti con SM-RR molto attive mostrano (a confronto con placebo o

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19 metilprednisolone ev) una riduzione dell’ARR del 60-70% (Martinelli et al., 2009) come pure una riduzione della disabilità e dell’attività neuroradiologica. La somministrazione endovenosa varia da 8 mg/m2 di superficie corporea mensilmente per sei mesi, secondo il protocollo francese, a 12 mg/m2 ogni tre mesi per due anni secondo il Mitoxantrone in Multiple Sclerosis Group study, comunque con una dose massima cumulativa di 120-140 mg/m2 di superficie corporea. Gli eventi avversi più frequenti sono nausea/vomito, alopecia, infezioni urinarie e respiratorie, leucopenia, trombocitopenia, anemia, incremento degli enzimi epatici, amenorrea, infertilità. Il suo utilizzo però è limitato soprattutto dalla cardiotossicità (monitorata mediante frazione d’eiezione del ventricolo sinistro) e dal rischio di leucemia mieloide acuta (pari al 2-3% dopo un follow-up medio di cinque anni) per cui è necessario monitorare i pazienti per ulteriori cinque anni dal termine della terapia.

Fingolimod (GILENYA ® 1 cps da 0,5 mg/die) è il primo farmaco orale approvato per il trattamento della SM-RR, dalla FDA nel settembre 2010 come terapia di prima linea e, nell’Unione Europea nel marzo 2011, come terapia di seconda linea. È disponibile in Italia dall’ottobre 2011. Agisce come analogo della sfingosina legandosi al recettore per la sfingosina-1-fosfato (S1P) presente sui linfociti che vengano pertanto internalizzati all’interno dei linfonodi risultando così presenti in numero ridotto nel torrente circolatorio. È stato approvato sulla base di due studi clinici randomizzati controllati in doppio cieco su pazienti con SM-RR con almeno una ricaduta nell’anno precedente, oppure due o più ricadute nei due anni precedenti, EDSS tra 0 e 5.5 Nel FREEDOMS (Calabresi et al., 2014) Fingolimod (1.25 mg e 0.5 mg) è stato confrontato con placebo, mentre nel TRANSFORMS, Fingolimod 0.5 mg è stato messo a confronto con IFN-β1a i.m.) (Cohen et al., 2010). I risultati ottenuti sono stati una riduzione del 48-55% dell’ARR, del 25-30% del tasso di progressione della disabilità e di oltre l’80% delle lesioni captanti gadolinio. Gli eventi avversi più frequenti sono di tipo cardiologico (bradicardia, blocco atrio-ventricolare) alla prima assunzione che, secondo quanto stabilito dall’EMA, prevede un monitoraggio ECG di almeno sei ore, oltre alla misurazione di pressione arteriosa e frequenza cardiaca ogni ora per le prime sei ore. Altri effetti sono una modesta ipertensione arteriosa, l’edema maculare, un aumentato rischio di infezioni, in particolare modo quelle virali (VZV ed Herpes simplex) per cui è richiesta la presenza di anticorpi anti-VZV prima di avviare la terapia.

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20 Teriflunomide (AUBAGIO®, 14 mg 1 cps/die) è un farmaco orale approvato come prima linea per la SM-RR dalla FDA nel settembre 2012 e disponibile in Italia dall’agosto 2014. È il metabolita attivo della leflunomide, il quale è già utilizzato per artrite reumatoide ed artrite psoriasica. Inibisce la diidroorotato deidrogenasi, un enzima necessario per la sintesi de novo delle pirimidine compromettendo quindi la proliferazione dei linfociti attivati e delle cellule B. Ha mostrato una riduzione del 31-36% dell’ ARR , del 26-27% del tasso di progressione della disabilità, e dell’80% delle lesioni captanti gadolinio alla RMN (Vermersch et al., 2014). E’ stato immesso in commercio principalmente sulla base dello studio di fase III, randomizzato, in doppio cieco, TEMSO (Teriflunomide Multiple Sclerosis Oral Trial) condotto su 1088 pazienti riceventi placebo o Teriflunomide 7 mg/die o 14 mg/die per 108 settimane; i risultati ottenuti sono stati un ARR di 0.54 e 0.37 rispettivamente nel placebo e in Teriflunomide (per entrambi i dosaggi), inoltre, si è mostrato superiore rispetto al placebo nel prevenire la progressione della disabilità e nei parametri RMN (volume totale delle lesioni, lesioni captanti mdc). Questi risultati sono stati confermati in uno studio con analogo disegno (TOWER- Teriflunomide Oral in People with Relapsing-Remitting Multiple Sclerosis). Principalmente può provocare infezioni delle vie aeree superiori, delle vie urinarie, parestesie, assottigliamento dei capelli, aumento della alanina transferasi (che va monitorata ogni due settimane per i primi sei mesi di terapia quindi ogni due mesi, e che può determinare la sospensione del farmaco in caso di incrementi tre volte superiori alla norma), riduzione dei leucociti e rialzo della pressione arteriosa, inoltre, interagisce con molti farmaci CYP induttori, warfarin, alcuni antidiabetici orali, statine ed antibiotici. È un farmaco teratogeno per cui la contraccezione dovrebbe essere fatta sia nella donna che nell’uomo (è stato riscontrato nel liquido seminale) e, in caso di gravidanza, o di eventi avversi, dal momento che rimane nell’organismo per circa due anni, è prevista una procedura di eliminazione accelerata (mediante colestiramina o carbone attivo) che nell’arco di 11 giorni riduce la concentrazione plasmatica del 98%.

Nel marzo 2013 la FDA ha approvato il Dimetilfumarato (TECFIDERA ®), 240 mg 1 capsula 2 volte al giorno), disponibile in Italia dal gennaio 2015, per il trattamento di SM-RR e CIS. Due studi clinici controllati, randomizzati di fase III (DEFINE, vs placebo e CONFIRM, vs glatiramer acetato) hanno mostrato una riduzione del 44-53% dell’ ARR , del 22-32% della progressione di disabilità e del 75-94% delle lesioni captanti gadolinio alla RMN (Gold et al., 2012; Fox et al.,

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21 2012). Il meccanismo d’azione non è ancora ben compreso e sembra realizzarsi soprattutto attraverso il suo metabolita (MMF, monometilfumarato) che attiva il fattore di trascrizione nucleare Nrf2 (nuclear factor erythroid-derived 2-like 2) coinvolto nella risposta cellulare allo stress ossidativo. È protettivo per i neuroni e può modulare la risposta immunitaria. I principali eventi avversi riportati sono di tipo gastrointestinale (nausea, vomito, diarrea, dolori addominali), oltre alla comparsa di flushing al volto e al torace e si osservano in più del 25% dei pazienti, soprattutto nel primo trimestre e possono essere causa di interruzione se non ben gestiti. Altri effetti sono linfopenia, eosinofilia ed epatotossicità. Studi su modelli animali hanno mostrato effetti negativi sul feto perciò, anche se è eliminato dall’organismo entro 24 ore, è bene un periodo di washout di un mese prima del concepimento. Recentemente è stato documentato un caso di PML (Rosenkranz et al., 2015) e, altri quattro casi erano stato descritti in pazienti che assumevano Fumaderm per psoriasi (Sweetser et al, 2013). Il principale fattore di rischio per PML, in questi pazienti, è considerato una persistente (> 6 mesi) e severa (<500 cellule/mm3) linfopenia.

Alemtuzumab (LEMTRADA ®) è l‘ultimo farmaco approvato dalla FDA nel novembre 2014, disponibile in Italia dall’aprile 2015. L’EMA (European Medicines Agency) ha autorizzato l’Alemtuzumab nella SM-RR attiva definita clinicamente o alle neuroimmagini, anche se la maggior parte dei neurologi europei lo utilizza come farmaco di seconda o terza linea. Gli studi clinici randomizzati controllati in cieco, CARE-MSI e CARE-MSII, in cui Alemtuzumab è stato confrontato con IFN-β1a s.c. 44 ug 3 volte/settimana, hanno mostrato una riduzione del 49-55% dell’ARR, del 30-42% della progressione della disabilità e del 61-63% delle lesioni captanti mdc alla RMN (Cohen et al., 2012; Coles et al., 2012). È un anticorpo monoclonale, ricombinante, umanizzato, anti CD-52 che causa citolisi anticorpo- mediata e complemento-mediata di monociti e linfociti T e B. Si somministra e.v. alla dose di 12 mg/die per cinque giorni consecutivi e, dopo 12 mesi, a 12 mg/die per ulteriori tre giorni. Se necessario, un ulteriore ciclo può essere ripetuto a distanza di 12 mesi. Delicato è il profilo di sicurezza di questo farmaco che nella maggior parte dei casi fa registrare, in quasi tutti i pazienti, eventi avversi correlati all’infusione (cefalea, ipotensione, tachicardia, fibrillazione atriale, nausea, febbre, rush, prurito, dispnea, algie toraciche, vertigini) dovuti al rilascio di citochine e per i quali è indicata la premedicazione con corticosteroidi e va considerato anche il pretrattamento con antipiretici ed antistaminici. Si è osservato inoltre un aumentato rischio di infezioni

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22 (rinofaringite, infezione vie urinarie, infezione alte vie respiratorie, sinusiti, bronchiti) con particolare attenzione verso le infezioni primarie o le riattivazioni da virus varicella-zoster (VZV) pertanto è indicata la profilassi con Acyclovir durante il trattamento e nei due mesi successivi o almeno fino a quando il numero dei linfociti CD4+ è pari o superiore a 200/uL. E’ necessario monitorare questi pazienti anche negli anni successivi (con esami ematici ed urinari per almeno 4 anni) al trattamento per la possibilità che sviluppino delle malattie autoimmuni (in media 32 mesi dopo il primo trattamento) a carico della tiroide nel 41% dei casi (ipotiroidismo, ipertiroidismo e malattia di Graves), delle piastrine nel 3,5% dei pazienti (porpora trombocitopenica autoimmune) e del rene in <1% dei casi (anticorpi anti-membrana basale glomerulare) (Tuohy et al., 2015).

Fig. 3. Terapie e relativo meccanismo d'azione nella Sclerosi Multipla (Barten et al. 2010).

Vi sono poi una serie di farmaci off-label, tra questi l’Azatioprina che è l’immunosoppressore più largamente utilizzato nella SM sebbene non sia approvato né negli USA né nella maggior parte dei Paesi europei (ad eccezione della Germania). E’ un imidazolo derivato dalla 6-mercaptopurina che agisce sulla

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23 replicazione del DNA compromettendo la funzione più dei linfociti T che dei linfociti B. Generalmente si usa alla dose di 2,5-3 mg/kg/die, senza superare i 10 anni di trattamento o comunque non oltre la dose cumulativa di 600 g che è stata associata ad un aumentato rischio di neoplasie (Casetta et al., 2009). Vi sono poi anche il Micofenolato Mofetile che inibisce la sintesi de novo delle purine e quindi la proliferazione di linfociti T e B, e il Methotrexate che inibendo in modo reversibile la diidrofolato reduttasi interferisce con la sintesi e riparazione del DNA e quindi con la replicazione cellulare.

Terapie emergenti

Rituximab è un anticorpo chimerico murino/umano che lega selettivamente il CD20 presente sulle cellule pre-B e sulle cellule B, ma non sulle plasmacellule o sulle cellule staminali del midollo osseo così da ridurre solo le cellule B circolanti (Bar-Or et al., 2008). È un farmaco approvato nelle malattie linfoproliferative, nell’artrite reumatoide, nelle vasculiti e nella malattia di Devic. Uno studio clinico randomizzato in pazienti con SM-RR ha mostrato una riduzione del 91% nel numero di lesioni Gd+ alla RMN, come pure una significativa riduzione delle ricadute cliniche (Hauser et al., 2008). Anche a causa dei severi effetti avversi, inclusa la PML, non sono stati fatti studi di fase III. Ocrelizumab è un anticorpo monoclonale, ricombinante, umanizzato, anti-CD20. È strutturalmente simile al Rituximab ma poiché umanizzato ci si aspetta sia meno immunogeno e con un miglior profilo rischio/beneficio. Uno studio di fase II con 218 pazienti SM-RR randomizzati a ricevere placebo, Ocrelizumab a basse (600 mg) od alte (2000 mg) dosi o IFN-β1a hanno mostrato una riduzione delle lesioni captanti mdc per entrambi i dosaggi e, del dosaggio minore nell’ARR rispetto a placebo e IFN-β1a (Kappos et al., 2011). Più recentemente è stato avviato uno studio randomizzato in doppio cieco controllato con placebo con Ofatumumab, un anticorpo monoclonale umanizzato di seconda generazione anti-CD20 (Kappos et al., 2014).

Daclizumab (Zinbryta®; somministrazione s.c. mensile), approvato dalla FDA a maggio 2016, è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro la catena alfa del recettore per l’IL-2, una molecola iperespressa sulle cellule T attivate. È utilizzato da oltre dieci anni nella prevenzione del rigetto di trapianto renale. Come antagonista del CD25, inoltre, provoca l’espansione delle cellule regolatorie NK CD56bright, le quali riducono l’attivazione delle cellule T (Sheridan et al., 2011).

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24 Due studi clinici hanno mostrato una risposta migliore rispettivamente a confronto con IFN-β1a i.m. e placebo. In particolare, nello studio SELECT (600 pazienti con SM-RR attiva trattati per 52 settimane con somministrazione mensile di 100 o 300 mg di Daclizumab o placebo) ha mostrato una riduzione del 50-54% dell’ ARR oltre alla riduzione di nuove lesioni o lesioni captanti mdc alla RMN (Gold et al., 2013). Gli eventi avversi più frequenti, invece, sono stati infezioni del tratto respiratorio superiore, eruzioni cutanee ed incremento delle transaminasi.

Laquinimod, derivato della chinolina-3 carbossamide, capace di attraversare la BEE, negli studi su modelli animali, ha mostrato proprietà antiinfiammatorie (riduce l’attività infiammatoria delle cellule T helper 17 favorendo l’espressione delle cellule T-regolatorie, promuove il rilascio di citochine antiinfiammatorie quali Il-4 e IL-10 a discapito di IL-12 e TNF-α; riduce l’ingresso di leucociti nel SNC attraverso una ridotta espressione di VLA-4) ed effetti neuroprotettivi (riduce la demielinizzazione, il danno assonale e l’apoptosi degli oligodendrociti). E’un immunomodulante orale che negli studi di fase III (ALLEGRO e BRAVO) ha mostrato, alla dose di 0,6 mg/die, più che una riduzione del tasso di ricadute, una significativa riduzione della progressione della disabilità e dell’atrofia cerebrale (Comi et al., 2012).

Approccio terapeutico

Quando si decide di trattare un paziente con SM sono possibili due tipi di approccio: l’induction e l’escalation therapy (Fig. 4). L’escalation consiste nell’iniziare con un farmaco di I linea (IFN-βs, GA, DMF, Teriflunomide), dotato di una efficacia moderata ma di elevata sicurezza e, in caso di mancata risposta, passare ad una terapia di II linea (Natalizumab, Fingolimod, Mitoxantrone, Alemtuzumab) più efficace ma allo stesso tempo più rischiosa. Questa è la strategia che più spesso si adotta nella pratica clinica, avendo a che fare, nella maggior parte dei casi, con pazienti che presentano una attività di malattia lieve-moderata. Nei pazienti con elevata attività di malattia, sia clinica (ricadute frequenti e severe) che radiologica, quindi con elevato rischio di disabilità a lungo termine, va considerata una terapia di induzione che consiste nell’iniziare con un farmaco di seconda linea per ottenere un controllo della malattia e poi proseguire con una terapia di mantenimento.

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25 Fig. 4. Induction versus escalation therapy nella SM (Michel L. et al. 2015)

Il trattamento ideale dovrebbe essere quello più sicuro e capace di eliminare l'attività clinica e radiologica di malattia.

Resta ancora difficile definire in maniera chiara e universalmente accettata il concetto di mancata risposta alla terapia e, a riguardo, sono stati suggeriti diversi criteri. Secondo l’EMA sono considerati “non-responders” pazienti che dopo un anno di terapia con IFN-β presentano almeno una ricaduta durante il periodo in cui erano in trattamento e almeno nove nuove lesioni iperintense in T2 o una lesione captante gadolinio alla RMN encefalo. Un consenso crescente nel monitoraggio dell’efficacia del trattamento nei pazienti con SM hanno ricevuto il Rio-score e il Rio-score modificato (Sormani et al., 2013); quest’ultimo che, a differenza del primo esclude il criterio dell’EDSS, prevede:

score = 0 se nuove lesioni in T2 ≤ 4 e ricadute =0;

score = 1 se nuove lesioni in T2 ≤ 4 e ricadute=1, o nuove lesioni inT2 >4 e ricadute=0;

score = 2 se nuove lesioni in T2 ≤ 4 e ricadute ≥2, o nuove lesioni inT2 >4 e ricadute=1;

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26 dopo un anno di terapia con IFN-β i pazienti possono quindi essere considerati a rischio basso (score = 0), intermedio (score = 1) o elevato (score = 2–3) di scarsa risposta al trattamento.

Il NEDA (No Evidence of Disease Activity) è il nuovo outcome proposto per la SM-RR e si basa su: assenza di ricadute, assenza di un peggioramento sostenuto della disabilità definito come un aumento dell'EDSS ≥ 1 punto confermato a sei mesi; assenza di attività radiologica (lesioni captanti gadolinio, comparsa di nuove/estensioni di preesistenti lesioni iperintense in T2) alla RMN (NEDA-3) (Havrdova et al., 2010). Più recentemente è stato aggiunto un ulteriore parametro ovvero l'assenza di perdita di volume cerebrale (NEDA-4) (Giovannoni et al., 2015). Tutti gli agenti iniettabili di prima linea sono stati studiati nella CIS dimostrando una riduzione del rischio di conversione a SM clinicamente definita (Kappos et al., 2006). I farmaci approvati dall'EMA per il trattamento della SM-SP sono il Mitoxantrone e l'IFN-β 1b. Per quanto sia difficile da stabilire, nei pazienti che gradualmente accumulano una disabilità irreversibile senza ricadute ed attività infiammatoria alla RMN, ovvero quelli che, diventando forme SM-SP, non beneficiano di alcuna delle terapie disponibili, il trattamento dovrebbe essere interrotto (Lonergan et al., 2009). Dall’altro lato, soprattutto per i pazienti con elevata attività di malattia prima del trattamento, con stabilità prolungata di malattia ed assenza di effetti collaterali, l’interruzione non è raccomandata perché la malattia potrebbe riattivarsi.

Non ci sono al momento farmaci approvati per la SM-PP che ha pertanto la prognosi peggiore, tuttavia, i pazienti con rapido peggioramento neurologico, ricadute sovraimposte ed attività di malattia alla RMN, possono esser trattati off-label con immunosoppressori come Mitoxantrone o Ciclofosfamide tenendo conto della possibile efficacia sulla progressione della disabilità dimostrata negli studi clinici.

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DEFICIT COGNITIVO NELLA SM

Presentazione clinica e prevalenza

La compromissione cognitiva è una condizione molto comune nella SM, interessando circa il 40-70% pazienti, in particolare il 35-45% di quelli con forma RR ed il 50-60% di quelli con forma primariamente o secondariamente progressiva (Langdon, 2011; Chiaravalloti et al., 2008), anche se i pazienti con forme PP sembrano avere una minore compromissione cognitiva probabilmente perché in queste forme prevale l'interessamento del midollo spinale (Denney et al., 2004). Non ci sono dati certi sul fatto che il deficit cognitivo sia più severo nei pazienti con una lunga durata di malattia, in quanto la maggior parte degli studi ha mostrato solo una debole correlazione tra i due parametri (Piras et al., 2003). D’altra parte, alterazioni della valutazione neuropsicologica sono state riscontrate in fasi molto precoci della malattia, ovvero nelle sindromi clinicamente isolate (Amato et al., 2010) ed addirittura nelle sindromi radiologicamente isolate.

La compromissione cognitiva incide notevolmente sulla qualità di vita spesso con conseguenze maggiori della disabilità fisica, influenzando il corso della malattia e comportando un considerevole stress psicologico ed un elevato costo socioeconomico. Nei soggetti con deficit cognitivi, infatti, si registra una compromissione delle attività strumentali della vita quotidiana (IADL), con conseguenti effetti negativi anche sul lavoro, oltre ad una riduzione dell'autostima, una ridotta partecipazione alla vita sociale ed un più alto tasso di divorzio. Anche il trattamento della malattia stessa può essere influenzata, i pazienti con deficit cognitivo, infatti, mostrano una scarsa aderenza alla terapia e sono quelli che beneficiano meno anche dei programmi di riabilitazione.

La compromissione cognitiva associata alla SM è tradizionalmente classificata come “demenza subcorticale” che generalmente si osserva in altre malattie neurologiche come la malattia di Parkinson o quella di Huntington, sebbene la questione sia ancora controversa, in quanto la SM sembra in realtà posizionarsi a metà tra patologie corticali e sottocorticali, come dimostrano i profili neuropsicologici e le neuroimmagini che documentano il coinvolgimento della sostanza grigia corticale e profonda (Zakzanis 2000).

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28 Solitamente nei pazienti con SM il quoziente intellettivo (QI) è normale o solo lievemente ridotto. In generale la compromissione cognitiva si osserva nei test che valutano l'attenzione complessa, la velocità nell'elaborazione delle informazioni, la memoria verbale e visuo-spaziale e le funzioni esecutive, mentre il linguaggio, la memoria semantica e la capacità di concentrazione sono raramente compromessi. Per quanto riguarda la memoria, in particolare quella a lungo termine, la memoria esplicita (memoria per materiale che il soggetto è stato esplicitamente istruito ad apprendere e ripetere) e, in particolare la memoria episodica (memoria di fatti o conversazioni), sono frequentemente compromesse. La memoria semantica (memoria di parole o simboli) come pure la memoria implicita (apprendere e ricordare ciò che si è appreso senza cosciente consapevolezza) sono generalmente conservate (Beatty and Monson, 1991). La “working-memory” a breve termine (la capacità di mantenere ed utilizzare una serie limitata di informazioni per un breve periodo di tempo) è di solito compromessa. Sia il processo di acquisizione (codifica e memorizzazione) che di richiamo del materiale mnesico sono coinvolti. Il deficit di attenzione e la riduzione nella velocità di elaborazione delle informazioni costituiscono un indice sensibile di declino cognitivo incipiente.

Sono gli aspetti più complessi dell'attenzione (attenzione selettiva, divisa, alternante) ad essere più spesso compromessi, mentre la forma più semplice di attenzione (la capacità di concentrazione) di solito è intatta. (Rao et al., 1991). È stato inoltre osservato che alcuni pazienti mostrano un notevole peggioramento delle performance cognitive nell'esecuzione di test che richiedono una attenzione sostenuta, tale fenomeno è noto come “fatica cognitiva” (Beatty et al., 2003). Per quanto riguarda le funzioni esecutive sono interessati il ragionamento astratto, la risoluzione di problemi, la pianificazione, la capacità di critica e di giudizio. Le capacità visuo-spaziali consentono la corretta interazione dell’individuo con il mondo circostante, consistono nel percepire e stimare le relazioni spaziali tra gli oggetti o parti di essi e il rapporto tra la persona e l’oggetto; la compromissione di tali abilità varia ampiamente a seconda del tipo di valutazione utilizzata. I deficit del linguaggio, in particolare la compromissione della fluenza verbale, si osservano solo in una piccola percentuale di pazienti con SM e possono anche essere il risultato di altri deficit cognitivi. Si può inoltre osservare qualche problema di denominazione, lettura e comprensione verbale (Amato et al., 2008).

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29 Tutti gli studi finora hanno dimostrato che il disturbo cognitivo in corso di SM tende a progredire anche se più lentamente e in misura minore rispetto alle malattie primariamente neurodegenerative, e ci sono poche evidenze di un miglioramento nel corso degli anni. L'unico studio a lungo termine (Amato et al., 2001) condotto su 45 soggetti con SM ha mostrato che le capacità cognitive erano pari al 74% in uno stadio precoce di diagnosi, per ridursi al 51% a 4 anni e al 44% a 10 anni.

Vari studi hanno cercato di individuare eventuali fattori predittivi di declino cognitivo nella SM: il sesso maschile è risultato più vulnerabile e gli afroamericani hanno un rischio maggiore rispetto ai caucasici (sebbene possano influire altri fattori come le condizioni socio-economiche ed il livello di istruzione) (Wallin et al., 2006). Ulteriori fattori di rischio sono risultati l'esordio precoce della malattia, il decorso secondariamente progressivo ed un basso livello cognitivo premorboso (Benedict et al., 2011). Bassa è risultata la correlazione tra stato neurologico (EDSS) e situazione cognitiva (Lynch et al., 2005), ne consegue che la compromissione cognitiva si sviluppa indipendentemente dalla disabilità fisica. Già nel 2006 Amato et al avevano descritto, nel 45% dei soggetti classificati come con B-SM (SM benigna), cioè pazienti con nessuna o lieve compromissione neurologica, definita da un punteggio EDSS ≤3 dopo almeno 15 anni dall'esordio clinico (Lublin e Reingold 1996), la presenza di un deterioramento cognitivo tale da influenzare negativamente le attività lavorative e sociali. In uno studio successivo, condotto nel 2008, sempre da Amato et al., è stato riscontrato un deficit cognitivo nel 23% dei pazienti considerati tradizionalmente come B-SM, per compromissione di attenzione e concentrazione (lobo frontale), memoria verbale (lobo temporale), test con componente visiva (lobo occipitale); in questo sottogruppo di pazienti si è osservata una percentuale significativamente maggiore, rispetto a quelli cognitivamente integri, sia di sesso maschile che di depressione.

Ancora molto discusso è il ruolo del polimorfismo genetico dell'apolipoproteina E. Va poi considerata la presenza di comorbidità (diabete, ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari) che interferiscono con la progressione del disturbo cognitivo e spesso ne ritardano la diagnosi.

Altri studi, tuttavia, volti alla ricerca di eventuali fattori di rischio per un peggioramento dei disturbi cognitivi nel tempo, hanno concluso che l'unico fattore predittivo è la presenza di un deficit cognitivo al baseline.

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30 Ancora controversa è l’associazione tra la compromissione cognitiva e, rispettivamente, la depressione (la prevalenza è del 40-50% se si considera l’intera vita del paziente con SM) e la fatica (in alcuni studi interessa il 70% dei pazienti), in particolare la prima compromette soprattutto memoria e velocità di elaborazione delle informazioni, mentre la seconda oltre alla velocità di elaborazione delle informazioni, influenza anche l’attenzione sostenuta.

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Neurofisiopatologia dei disturbi cognitivi

Infiammazione e neurodegenerazione

I meccanismi implicati nella genesi dei disturbi cognitivi in corso di SM sono numerosi (infiammazione/demielinizzazione, danno neuronale/assonale, stress ossidativo, danno della BEE ed alterazioni della perfusione e del metabolismo cerebrali, con conseguente compromissione delle connessioni cortico-corticali e cortico-sottocorticali), inoltre, le alterazioni al neuroimaging (anomalie corticali, ippocampali, della SB sottocorticale, atrofia talamica e dei nuclei della base etc.) alle quali più frequentemente viene attribuita la compromissione cognitiva, spesso si riscontrano anche nei soggetti con SM ma “cognitivamente normali”.

La SM, tradizionalmente considerata una malattia infiammatoria demielinizzante, è anche caratterizzata da un importante danno e perdita assonale che è poi il parametro maggiormente correlato alla disabilità permanente. Senza dubbio il danno e la successiva perdita assonale contribuiscono in maniera significativa anche al declino cognitivo irreversibile spesso osservato nella SM. L’assone privo di guaina mielinica e dei fattori trofici gliali circostanti è più suscettibile alla degenerazione specie quando elettricamente attivo (Nave and Trappe, 2008); le cellule infiammatorie inoltre sembrano contribuire al danno assonale. La demielinizzazione poi comporta una redistribuzione dei canali ionici lungo l’assone, un danno mitocondriale con conseguente stress ossidativo e compromessa produzione di energia (Haider et al., 2011) ed una disregolazione dell’omeostasi del ferro. La presenza di danno assonale anche nella NAWM, invece, potrebbe in parte essere giustificata come degenerazione assonale retrograda (Walleriana) originata a partire da lesioni attive in strutture come il corpo calloso e, in parte, più che dovuta alla perdita di mielina di per sé, a fattori citotossici solubili, ad una eccitotossicità mediata dal glutammato oppure ad un danno immunomediato.

La visione secondo la quale l’infiammazione è la sola causa della degenerazione assonale e neuronale è però stata rivista. Studi di risonanza magnetica e spettroscopia hanno evidenziata una scarsa correlazione tra la presenza di lesioni captanti gadolinio (marker di infiammazione) e l’atrofia cerebrale e midollare (marker di neurodegenerazione) (Filippi and Rocca, 2005; Anderson et al., 2006). Studi di neuropatologia hanno mostrato una notevole perdita assonale anche nella normal appearing white matter (NAWM) quindi indipendente dal danno assonale da

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32 demielinizzazione. Il danno assonale, inoltre, è stato osservato anche nelle placche inattive suggerendo che la demielinizzazione cronica può rendere gli assoni particolarmente vulnerabili. Nella corteccia cerebrale di pazienti con SM cronica, infine, sono stati osservati processi di demielinizzazione ed associata degenerazione neuronale ed assonale, in assenza di infiltrato infiammatorio linfocitario. Queste osservazioni suggeriscono che nella SM la neurodegenerazione si può realizzare indipendentemente dall’infiammazione ed addirittura potrebbe essere il danno primario a carico del SNC in questa malattia (Trapp and Nave, 2008).

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Ruolo della RMN nei disturbi cognitivi

Oltre alle classiche lesioni iperintense in T2 ed ipointense in T1 (black holes, espressione di danno tissutale cronico con perdita assonale) a carico della sostanza bianca tipicamente periventricolare, spesso già all’esordio della malattia è possibile riscontrare, mediante particolari sequenze di RMN, fluid attenuated inversion recovery (FLAIR) e double inversion recovery (DIR), lesioni della sostanza grigia (nuclei cerebrali profondi e corteccia cerebrale).

Sequenze DIR di RM hanno una più alta sensibilità per le lesioni corticali, il numero e il volume delle quali si è mostrato in stretta correlazione con il deficit cognitivo, tuttavia tale tecnica di RM spesso presenta artefatti ed è poco sensibile nella rilevazione delle lesioni subpiali che sono il tipo di lesione corticale più frequente e specifico in corso di SM.

La correlazione tra il carico lesionale, ovvero le lesioni iperintense in T2 (numero delle lesioni e volume totale) e la comparsa di deficit cognitivi è risultata modesta, nella migliore delle ipotesi (Filippi et al., 2010), mentre non è stata trovata alcuna correlazione tra il volume totale delle lesioni e la gravità dei disturbi cognitivi (Karlińska et al., 2008). Se le lesioni in T2 non sembrano avere quasi nessuna correlazione con il deficit cognitivo in corso di SM-RR, Penny et al., nel 2010, hanno mostrato come invece siano il miglior fattore predittivo di deficit cognitivo a cinque anni, nei pazienti con SM-PP (probabilmente attraverso meccanismi di disconnessione). Il volume delle lesioni ipointense in T1 (registrabili quando ormai si è realizzato un danno tissutale severo) al baseline è in grado di predire, nei pazienti con CIS, il grado di deficit delle funzioni esecutive a sette anni (Summers et al., 2008) e, nei pazienti con SM-RR, una peggior performance ai test di attenzione dopo cinque anni (Summers et al., 2008).

Ulteriori studi sono necessari per valutare se la presenza di lesioni captanti gadolinio influenzi o meno le prestazioni cognitive dei pazienti con SM. Benedict et al. nel 2014 hanno osservato un gruppo di pazienti con ricaduta di malattia (senza coinvolgimento del nervo ottico o degli arti superiori) e con lesioni attive alla RM nel 93% dei casi; il punteggio ottenuto all'esecuzione del SDMT (Symbol Digit Modalities Test) che valuta attenzione sostenuta e velocità di elaborazione delle informazioni, risultava peggiore durate la riacutizzazione rispetto al baseline e al punteggio ottenuto ripetendo il test a tre mesi di distanza.

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34 Altro parametro fondamentale è l’atrofia, non solo a carico di strutture della sostanza bianca come il corpo calloso ma anche a livello di strutture della sostanza grigia come talamo, nucleo caudato, ippocampo e corteccia cerebrale. L'interessamento della sostanza grigia, come appena detto, non è solo corticale ma riguarda anche le strutture profonde, inoltre, diversi pattern di distribuzione del danno a carico della sostanza grigia corrispondono a deficit cognitivi associati a diversi fenotipi clinici di SM: l'atrofia della sostanza grigia ha un pattern di distribuzione maggiore nei pazienti con SM-SP rispetto alle forme RR e PP (Riccitelli et al., 2011). Alcuni studi hanno mostrato come il danno in aree strategiche, ad esempio talamo e putamen, si associano a presenza e severità del deficit cognitivo sin dagli stadi precoci della malattia; il danno dell'ippocampo, invece, si associa principalmente a deficit della memoria.

Vari studi hanno cercato di individuare il contributo rispettivo della sostanza bianca e grigia nelle alterazioni neuropsicologiche in corso di SM, concludendo che l'atrofia della SB è più spesso associata con la velocità dei processi mentali e la working memory, mentre la SG con la memoria verbale, l'euforia e la disinibizione (Sanfilipo et al., 2006). I meccanismi dell’atrofia sono molteplici e non del tutto chiariti. La degenerazione retrograda assonale è strettamente correlata alla demielinizzazione infiammatoria ma altre condizioni, ad esempio la patologica deposizione di ferro a livello delle strutture della sostanza grigia sembra indipendente. Ulteriori studi sono necessari per meglio chiarire la relazione tra atrofia corticale e lesioni della sostanza bianca e grigia. Molti studi hanno già dimostrato come la perdita di sostanza grigia sia maggiore nelle regioni vicine alle aree in cui si formano lesioni in T2, verosimilmente per un fenomeno di degenerazione secondaria ma probabilmente ancora più importante e tutto da chiarire è il rapporto esistente tra anomalie diffuse della sostanza grigia e lesioni corticali.

Più che il carico lesionale, pertanto, correlano fortemente con il deficit cognitivo i marcatori neuroradiologici di atrofia come l’aumento di larghezza del terzo ventricolo (indice di ridotto volume dei nuclei talamici e/o della sostanza bianca posta lateralmente, ovvero di atrofia centrale) e la riduzione globale del volume cerebrale (whole brain atrophy) a carico di sostanza bianca e grigia. Nei pazienti con SM, inoltre, è possibile trovare una atrofia più settoriale che si associa a deficit cognitivi più specifici.

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35 A differenza degli altri deficit neurologici, la compromissione cognitiva non sembrerebbe associata a specifiche lesioni focali, ma piuttosto ad una alterazione strutturale e funzionale globale dell'encefalo. Alcuni studi, tuttavia, hanno osservato l'esistenza di una relazione tra la distribuzione topografica delle lesioni e specifici pattern di deficit cognitivo. La presenza, ad esempio, di lesioni nell'area frontale comporta una compromissione delle funzioni esecutive (es. capacità di risolvere problemi), dell’attenzione sostenuta, più precisamente l’interessamento del lobo lobo sinistro correla con la memoria verbale e la fluenza verbale, l’atrofia del lobo destro, invece, con un deficit della memoria visiva e della working memory. Lesioni dell'area parieto-occipitale sinistra si associano alla compromissione delle abilità visuospaziali e della memoria verbale (Swirsky-Sacchetti et al., 1992), lesioni della fossa posteriore ad un rallentamento dei processi mentali; l’accumulo di lesioni corticali a livello temporo-mesiale compromette la memoria episodica.

Altro aspetto neuroradiologico di rilievo, nell’ambito del declino cognitivo in corso di SM, è la normal appearing white matter (NAWM) che può essere apprezzata mediante sequenze particolari di RM. La DTI (diffusion tensor imaging) è una tecnica RM con tensore di diffusione che consente di ottenere immagini tridimensionali analizzando il movimento delle molecole d’acqua presenti nei tessuti, così da mappare tridimensionalmente la SB mediante trattografia. L'anisotropia frazionale (FA), misura derivata dalla DTI, riflette il grado di integrità delle fibre della sostanza bianca e, in vari studi, ha mostrato una correlazione con la performance cognitiva. Particolarmente significativo si è dimostrato il ruolo del danno a carico delle fibre del corpo calloso, specie nella sua parte anteriore, con conseguente disconnessione delle regioni prefrontali implicate in processi cognitivi come la memoria operativa e le funzioni esecutive (Llufriu et al., 2012). La MTr (Magnetization transfer ratio-rapporto del trasferimento di magnetizzazione), una particolare acquisizione di RM principalmente determinata dal contenuto di mielina nel tessuto ed indice sensibile di integrità assonale, si è dimostrato un fattore più importante del volume cerebrale, del volume totale delle lesioni in T2 e delle lesioni corticali, nel determinare la compromissione cognitiva (Filippi et al., 2000), inoltre, misurato negli stadi precoci della malattia è un fattore predittivo di deficit cognitivo dopo pochi anni (Summers et al., 2008). Mediante RM spettroscopica, inoltre, si è potuta dimostrare l'esistenza di una relazione tra deterioramento cognitivo e riduzione di N-acetilaspartato (marker di integrità neuronale), soprattutto in alcune

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36 aree cerebrali quali sostanza bianca dei lobi frontali, attorno ai corni occipitali dei ventricoli laterali, parte anteriore della corteccia del cingolo, locus coeruleus destro, quest'ultimo in particolare in associazione a deficit dell'attenzione (Gadea et al., 2004; Staffen et al, 2005).

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