• Non ci sono risultati.

Una nuova risposta: le virtù non sono di genere ma di specie 1. Oltre la dicotomia maschile e femminile

FILOSOFIA DELL’AGIRE UMANO

3. Una nuova risposta: le virtù non sono di genere ma di specie 1. Oltre la dicotomia maschile e femminile

Occorre pertanto non insistere sulla contrapposizione tra virtù ma-schili e virtù femminili identificate rispettivamente con le virtù forti e le virtù deboli: si tratta di una contrapposizione tale da far ritenere che, se le virtù deboli erano rintracciate in un uomo, questo era conside-rato un “effeminato”; se le virtù forti erano rintracciate in una donna, questa era considerata una “virago”. Una tale impostazione ha fatto il suo tempo: oggi il problema non è quello di distinguere le virtù in femminili o maschili, ma quello di considerare virtù che favorisca ciò che ostacola la umanizzazione della persona. E qualsiasi virtù può

essere coltivata da uomini e donne per umanizzare se stessi e gli altri.

Ne consegue che non si devono esaltare o svalutare le virtù in base a criteri maschilisti, ma che le virtù si devono apprezzare solo sulla base della loro capacità di coltivare l’umano e di farlo fruttificare. Può allora accadere che certe virtù apprezzate ieri vadano ridimensionate oggi, e che certe altre disprezzate ieri vadano invece valorizzate oggi.

Sotto questo profilo può essere interessante ricordare quanto scri-ve Adriana Cavarero nel volume intitolato Inclinazioni e sottotitolato critica della rettitudine, dove l’elogio della inclinazione posturale ha una valenza etica come elogio della cura, e la critica della rettitudine posturale simboleggia la critica del distacco: la postura inclinata come metafora della soggettività premurosa, e la postura retta come metafora della oggettività rigorosa, possono essere rispettivamente simboleggia-te dalla madre (o, più in generale dalla donna) e dal militare (o, più in generale nell’uomo). Mentre in passato tale distinzione ha dato luogo a una vera e propria contrapposizione di genere, reputata come “natu-rale”, oggi si ritiene che la distinzione abbia una connotazione “cul-turale”, così il fatto che l’atteggiamento di “cura” sia stato declinato al femminile e l’atteggiamento di “distacco” al maschile, non significa che i due atteggiamenti siano prerogativa rispettivamente della donna e dell’uomo.

Anzi, l’odierna situazione sociale porta a evidenziare che l’atteggia-mento di cura è virtuoso ed è virtuoso per tutti: uomini e donne; per-tanto la virtù della cura non è da lasciare alle donne, ma va esercitata anche dagli uomini: questi e quelle potranno incarnarla in modo di-verso, ma nella consapevolezza che si tratta di una virtù non di genere, bensì di specie: è l’umanità, comune a uomini e donne, a richiedere l’esercizio della cura e delle virtù ad essa collegate: la fratellanza tra uomini e donne viene allora riconosciuta come la piattaforma su cui porre la differenza di genere e di personalità. È pertanto necessario ritrovare quella “fratellanza inquieta” di cui parla nel libro omonimo la Fusini, la quale scrive: “camminano insieme con gli uomini anche le

donne. Ma con passo diverso”. Ciò significa andare oltre il maschilismo e oltre il femminismo, per trovare una unità antropologica che non an-nulla le differenze, ma non le trasforma in diseguaglianze, non fa cioè delle differenze motivo di antagonismo reciprocamente escludente.

3. 2. Virtù “meticce”

Allora si potrebbe dire che è da rivendicare una universalità di vir-tù, le quali, però, non sono nascostamente appannaggio di un genere o dell’altro (tanto meno di un genere contro l’altro), ma che costituisco-no un patrimonio etico comune, un’etica condivisa da uomini e don-ne, consapevoli della loro comune fratellanza, per cui le virtù hanno finalmente una portata veramente universale. Quindi, non si tratta di passare dalle “virtù forti” (maschili) alle “virtù deboli” (femminili): il problema è invece quello di coniugarle insieme. È, questa, la condizio-ne nuova che occorre inaugurare adottando un paradigma etico, secon-do cui le virtù sono tali se - a prescindere dal genere che le ha finora incarnate - sono umane e umanizzanti, cioè esprimono e potenziano l’umanità della persona. Invece, è solo apparentemente virtuoso un comportamento che, pur in nome delle virtù, direttamente o indiret-tamente giustifica e incentiva la disumanità.

Per questo possiamo dire che oggi le virtù non sono di genere (ma-schile e femminile), ma di specie (umana), e questo diciamo senza di-menticare che le virtù sono state originariamente alcune maschili e altre femminili, ovvero coltivate maggiormente dagli uomini alcune e dalle donne altre. Questa è una constatazione storica, che non porta però ad alcuna giustificazione teoretica.

Quindi la consapevolezza che si va facendo strada è che c’è bisogno di praticare virtù “meticce”, per dire che le virtù devono essere “virtù miscuglio”, in cui cioè si mescolano valori che sono stati (all’origine fino al passato recente) privilegiati da uomini oppure da donne, e che ora perdono questa connotazione escludente o alternativa, per confi-gurarsi come comportamenti che sono semplicemente umani e

uma-nizzanti. Perciò tanto gli uomini quanto le donne sono chiamati a col-tivarli, magari colorandoli in modo differente sulla base di specificità di genere, di generazioni e di genealogie o sulla base di particolarità individuali, culturali e confessionali.

Ne consegue che, diversamente dal maschilismo, che rivendica come

“universali” virtù che a ben vedere rispondono a un’idea di uomo al maschile, e diversamente dal femminismo che a quella “universalità” si adegua (come copia al modello) ovvero a quella universalità si oppone in nome della “differenza” femminile, la nuova impostazione va (alme-no in campo etico) “oltre il maschile e il femminile”, per promuovere comportamenti all’insegna di virtù che sono insieme forti e deboli, razionali ed emozionali, cognitive e affettive.

3. 3. Ragione e sentimento

Tutto ciò richiede una adeguata teoria dei sentimenti: al riguardo risulta interessante quanto Agnes Heller (nell’omonimo libro. pubbli-cato da Castelvecchi quest’anno) ha detto sul rapporto tra sentimento e pensiero. In una recente intervista questa filosofa ha sintetizzato la sua posizione dicendo: “non condivido la tradizionale separazione fra ragione e sentimento”, perché “la cognizione è integrata in qualsiasi sentimento”, e non c’è il pericolo di una caduta nell’irrazionalismo, giacché “nessun sentimento in quanto tale è irrazionale, solo l’occasio-ne che s’inl’occasio-nesca su di esso può renderlo tale”.

A prescindere dalla teoria della Heller, potremmo parlare di un’e-tica all’insegna di ragione e sentimento, per usare il titolo di una autri-ce, Jane Austin, che letterariamente è tornata di moda; quel titolo ci serve qui per segnalare non due opzioni alternative, ma un binomio inscindibile dal punto di vista etico, e per esprimere ancora una volta la necessità di un’etica che sia umana e umanizzante, e che valorizzi l’istanza razionale e quella emozionale, evitando rispettivamente l’in-tellettualismo e l’irrazionalismo.

Dopo quanto detto, si può sostenere che le virtù sono da

considera-re come comportamenti di ragione e di sentimento. Comportamenti dettati dalla ragione: non nel senso della razionalità scientifica, ben-sì (come già aveva avvertito Aristotele) nel senso della ragionevolezza pratica; così le virtù si possono ancora identificare con la scelta del

“giusto mezzo”, ma avvertendo che tale capacità è dell’essere umano maschile e femminile diversamente dalla classicità, secondo cui le “vir-tù etiche”, per quanto dichiarate universali, avevano una sottesa origi-naria connotazione maschile (l’animale razionale era l’animale politi-co, cioè l’uomo). Comportamenti ispirati al sentimento: non nel senso sentimentalistico, ma nel senso esistenziale, proprio di quelle virtù che erano state attribuite specificamente alla condizione femminile o, più in generale, alle persone deboli (e deboli per antonomasia erano consi-derate le donne, popolarmente definite “sesso debole”), virtù conside-rate minori, deboli o liquide; quest’ultima definizione aiuta a chiarire che si tratta di virtù che si caratterizzano per il rifiuto della “rigidità” e si richiamano invece alla “fluidità”, e proprio l’adattabilità deve carat-terizzare l’etica perché abbia un carattere umanistico.

Dunque, la novità etica sta nella consapevolezza da acquisire oggi che le virtù devono coniugare insieme “vicinanza” e “distanza”, per-ché - come ha osservato Massimo Recalcati in altro contesto - la sola vicinanza produrrebbe un eccesso di empatia, e la sola distanza un eccesso di estraneità. Tenendole collegate, entrambe sono comporta-menti a carattere universale, praticabili sia da donne sia da uomini, pur con diversa caratterizzazione individuale e situazionale. E si tratta di una vera e propria urgenza quella di tenere unite la “vicinanza” e la

“distanza”, in modo che la “empatia” non annulli la “alterità”, e questa non diventi “estraneità”. Una virtù diventa allora esemplare, quella di

“cura”, che è poi una costellazione di virtù che tutti (uomini e donne) possono e debbono praticare o, quanto meno, a cui tutti (uomini e donne) possono e debbono ispirarsi.

4. Le virtù devono essere umane e umanizzanti