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Le virtù devono essere umane e umanizzanti 1. Virtù forti e virtù deboli per coltivare l’umano

FILOSOFIA DELL’AGIRE UMANO

4. Le virtù devono essere umane e umanizzanti 1. Virtù forti e virtù deboli per coltivare l’umano

In ogni caso, si tratta di superare la tradizionale distinzione tra vir-tù maschili (razionali o virili) e virvir-tù femminili (muliebri o materne) che ha finito per dar luogo a una contrapposizione, caratterizzata dal carattere “forte” attribuito alle prime e dal carattere “debole” attribuito alle seconde. Invece, senza “snaturare” la differenza tra uomo e don-na (differenza che non inficia la pariteticità, conseguente alla comune dignità umana), è da riconoscere che le cosiddette virtù deboli non sono dei deboli e non vanno quindi disprezzate come virtù inferiori, proprie di qualcuno che le eserciterebbe per genere o per temperamen-to o per cetemperamen-to. Il fattemperamen-to che queste virtù si siano legate in passatemperamen-to a tali distinzioni non deve più portare a dare loro una connotazione di tipo sessuale o caratteriale o sociale, perché quanto è avvenuto storicamen-te non comporta una legittimazione dal punto di vista ontologico e antropologico.

La portata di ogni virtù va, quindi, commisurata non a condizioni particolari o contingenti, bensì alla sua valenza umana e umanizzante.

In tale ottica, il criterio classico della “medietà etica” (in medio stat virtus) va integrato con un altro criterio, quello della “individualità esistenziale”, che chiama in causa non solo la ragione ma anche il sentimento, non solo la ragionevolezza, ma anche l’affettività. Non si tratta, ovviamente, di cedere ad atteggiamenti “viscerali”, bensì di coniugare insieme mente e cuore con la sola preoccupazione di coltivare l’umano nell’uomo, tenendo presente l’affermazione di Terenzio (ripre-sa da Marx), secondo cui “nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. In etica, questa è una consapevolezza irrinunciabile: pertanto, se non si vuole mortificare l’umano, occorre non uniformarsi a una “ragione”

astrattamente valutativa, ma far posto a “ragioni” concretamente esi-stenziali.

Ciò comporta che le cosiddette virtù “forti”, a partire da quelle cardinali, non sono certamente da superare, piuttosto occorre fare

at-tenzione a non isolarle o assolutizzarle; sono invece da correlare alle cosiddette virtù “deboli”: in tal modo l’universalità delle prime gua-dagna la necessaria concretezza, e la concretezza delle seconde si apre a una inedita universalità. Per chiarire il senso di questa operazione si potrebbe fare riferimento a due virtù: quella “forte” della giustizia e quella “debole” della mitezza, per dire che oggi si fa strada la convin-zione che le due virtù non devono essere viste in alternativa, bensì in interazione, nel senso che c’è bisogno di una “giustizia mite”, dove la qualificazione “mite” salva la giustizia dal rischio di diventare ingiusta;

pertanto la mitezza non snatura la giustizia, bensì la rende veramente giusta, in quanto umanistica; in altre parole, un approccio mite alla giustizia è meno incentrato sulla norma e più sulla sua buona (e con-creta) attuazione.

Ne deriva che solo ciò che è umanizzante, è veramente etico, e ciò che non è umanizzante, non è veramente etico, per quanto si appelli a norme e leggi: vale insomma l’ammonimento che non l’uomo è per la legge, bensì la legge è per l’uomo. Una tale impostazione comporta il riconoscimento delle cosiddette “virtù deboli” non come virtù di ca-rattere (degli individui deboli) o di genere (del sesso debole) o di classe (dei cittadini deboli), ma come virtù che hanno una valenza universale in un duplice significato: fanno appello all’appartenenza alla “umani-tà” (come specie) e al diritto alla “umani“umani-tà” (come valore).

4. 2. Principio umanità

In questo modo si può parlare di una “etica” rinnovata che supera il tradizionale “ethos”. In base all’ethos tradizionale si distinguono due tipologie di virtù: le virtù maschili (implicitamente o esplicitamente maschili) sono caratterizzate in senso razionale, e si configurano come virtù forti, e le virtù femminili sono caratterizzate in senso emozionale, e si configurano come virtù deboli. Invece, in base ad un’etica rinnova-ta le virtù sono caratterizzate in senso razionale ed emozionale, cogni-tivo e affetcogni-tivo, e alle virtù deboli si riconosce un ruolo inedito, perché sono virtù a pieno titolo in se stesse, perché rinnovano il senso delle

virtù forti, e perché sono espressioni di persone tutt’altro che deboli.

Per usare una metafora, potremmo dire che ragione e sentimento non costituiscono due “compartimenti stagni” (ognuno dei quali pro-cede juxta propria principia) ma costituiscono due “vasi comunicanti”, ed è proprio tale comunicazione a rinnovare il senso dell’etica, e la considerazione in cui tenere le virtù. Il cambiamento di paradigma etico finisce per rendere evidente la necessità di rinnovare l’approccio antropologico e in particolare il rapporto uomo-donna da non confi-gurare in ottica maschilista né in ottica femminista, bensì in ottica umanistica, cioè sulla base del “principio umanità”, per cui si rivendica (ribadiamolo) in modo prioritario e primario il valore dell’umanità sia come appartenenza umana, sia come scelta umanitaria. In questa ottica, si fa appello (per così dire) prima alla “specie” e poi al “genere”.

Da questo punto di vista, alcune virtù, finora considerate minori e confinate nell’ambito delle buone maniere o delle attitudini psico-logiche, possono invece considerarsi esemplari; pensiamo a tenerezza, dolcezza, delicatezza, gentilezza, cortesia, mitezza, umiltà pazienza, cor-dialità, affabilità, premura, pudore, gratitudine, benevolenza, compassio-ne, e sopra tutte misericordia (intesa oltre che come proprietà di Dio e suo comandamento agli uomini, anche come attitudine esistenziale e virtù civile).

Qui, per esemplificare, ci limitiamo a segnalarne sei, scelte tra le più quotidiane, e su cui hanno richiamato l’attenzione e il magistero di papa Francesco e il pensiero filosofico e scientifico, sottolineando che non si tratta semplicemente di buoni sentimenti, ma propriamen-te di sentimenti buoni, cioè etici (così, per esempio propriamen-tenerezza e mipropriamen-tez- mitez-za), non si tratta semplicemente di buone maniere, ma propriamente di maniere buone, cioè etiche (così, per esempio, gentilezza e cortesia), non si tratta semplicemente di buoni atteggiamenti, ma propriamente di atteggiamenti buoni, cioè etici (così, per esempio, pazienza e umil-tà): il fatto che non siano di moda non è motivo per non prestare loro attenzione, tanto più che si rende sempre più evidente che rozzezza e grettezza non favoriscono l’esercizio di nessuna forma di virtù.