• Non ci sono risultati.

Il ruolo degli attori no-profit e l’importanza del volontariato nello sport

3.3.1. Gli enti no-profit in ambito sportivo: una panoramica

Come è già emerso nella prima parte di questo lavoro, è evidente che parlando di sport deve essere necessariamente preso in considerazione l’operato degli attori no-profit. Le dinamiche che regolano in ambito sportivo l’azione degli enti no – profit sono la medesime che caratterizzano gli altri settori delle loro attività. Proprio per questo motivo appare opportuno comprendere che cosa si intende per terzo settore e successivamente capire il motivo per cui, in ambito sportivo, riveste un’importanza primaria.

Quando si parla di terzo settore, lo si fa riferendoci a quelle realtà che non sono riconducibili ne’ allo Stato (o sue diramazioni) ne’ al mercato, nate in gran parte dei casi

con l’intento di fornire beni e servizi, pur non avendo scopo di lucro. Generalmente il terzo settore si sviluppa con l’intento di sopperire all’incapacità dello stato di far fronte all’intera domanda di beni pubblici, avendo però la capacità e la possibilità di rispondere in modo migliore alle esigenze delle minoranze (Unicredit Fundation, 2013). Gli attori del terzo settore si configurano secondo le tipologie identificate dalla legge in vigore come associazioni non riconosciute, associazioni riconosciute, fondazioni, organizzazioni non governative e cooperative. Queste ultime sono in Italia l’unica forma riconosciuta di impresa privata a finalità sociale.

In ambito sportivo la configurazione prescelta nei maggiori dei casi è quella associativa, senza però dimenticare che il legislatore, con la L. 91/1981, ha espressamente indicato che la forma da adottare nel caso di pratica sportiva a livello professionistico sia quella della società per azioni o della ben più comune società a responsabilità limitata.

Nell’ambito dell’amplissimo settore dello sport dilettantistico il legislatore ha lasciato in tal senso assoluta libertà, andando a prevedere nella legge finanziaria per l’anno 2003 (art. 90 L. 282/2002) la possibilità di costituire società sportive dilettantistiche sottoforma di società di capitali senza scopo di lucro.

Aldilà di questa possibilità, come detto precedentemente, la forma giuridica prescelta in ambito sportivo è in gran parte quella dell’associazione senza personalità giuridica. Nei casi in cui l’attività svolta dalle associazioni è particolarmente intensa, diversificata, coinvolge un ingente numero di soggetti, queste vengono istituite, in alcuni casi, come associazioni con personalità giuridica. Censis e CONI, nel primo Rapporto Sport e Società (2008), hanno evidenziato che, su un campione di 8.500 società/associazioni, il 98,1% era costituito da associazioni con e senza personalità giuridica e solo 1,9% da società di capitali.

Vi è poi una fitta rete di cooperative che operano al fianco non solo degli operatori dello sport di base ma anche nell’ambito dello sport di alto livello per la fornitura di servizi. Le cooperative operanti in ambito sportivo non sono pertanto da ricondurre, se non in rari casi, alla promozione e allo svolgimento dell’attività sportiva in senso stretto, quanto piuttosto all’erogazione di servizi strumentali alla pratica.

Da evidenziare anche la presenza di alcune fondazioni di tipo filantropico, spesso legate ad istituti bancari, nate appositamente per sviluppare progetti in ambito sportivo o che annoverano la promozione dello sport tra i loro molteplici obiettivi. Sicuramente più

settoriale è l’attività svolta dalle fondazioni legate ai principali club sportivi professionistici.

Partendo dai dati a disposizione non è semplice estrapolare numeri che ci diano un’idea esatta di quanti attori no profit operino nel settore sportivo. Nel 2002 l’Istat ha pubblicato uno studio che indicava la presenza di 56.954 istituzioni no-profit che offrivano servizi sportivi. Si tratta di un numero decisamente consistente che corrispondeva il quel momento ad una percentuale del 25,7% del totale delle istituzioni no-profit. Questi sono però dati che si riferiscono al 1999 e non esistono purtroppo fotografie più recenti della realtà no-profit sportiva italiana. Un altro aspetto su cui ritorneremo successivamente è quello delle risorse umane utilizzate all’interno di queste istituzioni. Nella stragrande maggioranza dei casi ad una ridotta dimensione economica si associa infatti un intensivo uso di personale volontario (ISTAT, 2002).

I dati diffusi dal CONI sono invece annuali e ci forniscono un quadro complessivo di tutti gli attori operanti in ambito sportivo, calcolati sulla base della loro affiliazione ad una Federazione Sportiva Nazionale o Disciplina Sportiva Associata. Nel 2012 risulterebbero esistenti per il CONI circa 66.500 società/associazioni sportive, di cui quasi 62.000 affiliate ad una Federazione Sportiva Nazionale, e oltre 4.000 affiliate ad una delle Discipline Associate (CONI, 2012). Questi dati non tengono conto dell’ingente numero di società/associazioni affiliate agli enti di promozione sportiva e neppure della distinzione tra le varie tipologie di forma giuridica.

Ognuna di questi fonti utilizza per il conteggio criteri tra loro molto diversi e che lasciano adito ad interpretazioni. Anche andando a verificare i contenuti degli statuti con cui le ASD si registrano all’Agenzia delle Entrate, è inevitabile un certa confusione. Spesso l’inserimento della promozione di attività di tipo sportivo tra le finalità dell’associazione ha infatti una semplice funzione strumentale, così come riportato da Porro (2006):

Le Associazioni che promuovono e/o organizzano la pratica sportiva come propria attività esclusiva o principale, costituiscono certamente la porzione più massiccia dell’intero universo associazionistico in Italia e nel resto dell’Europa occidentale. Ma in un numero comparabile sono quelle che, non intendendo precludersi l’accesso a eventuali risorse o condizionare possibili sviluppi operativi, includono burocraticamente lo sport nell’elenco

Un altro aspetto su cui soffermarsi nel delineare il quadro dell’associazionismo sportivo è quello delle sue fonti di finanziamento. Parlando di associazioni che offrono servizi sportivi ci troviamo prevalentemente di fronte ad associazioni no market oriented, di tipo mutualistico e che forniscono servizi di pubblica utilità. Data la loro natura e missione, queste si sorreggono in maniera prevalente grazie alla sottoscrizione delle quote sociali, alle donazioni e ai contributi elargiti da istituzioni pubbliche.

3.3.2. L’apporto del lavoro volontario

Come emerge da approfonditi studi condotti in ambito UE, in tutti i paesi membri, il volontariato costituisce un elemento imprescindibile nell’offerta di sport, soprattutto per quanto concerne le attività di base e ricreazionali. L’importanza del lavoro volontario come pilastro inamovibile dell’offerta di sport è confermata dalla legislazione fiscale di numerosi paesi europei, dove sono state previste particolari agevolazioni, sottoforma di esenzioni. Solamente per fare un esempio, possiamo riferirci al caso italiano, dove i rimborsi per i volontari sono esentasse fino ad un tetto massimo di 7.500 euro annuali. Lo stesso meccanismo viene applicato anche in Austria, dove il tetto sale però a 10.900 euro.

Iniziamo però a parlare di volontariato sportivo partendo dalla sua stessa definizione: la definizione a cui ci si rifà per identificare il volontariato dello sport è quella generica che identifica le attività di volontariato come: tutte le attività, formali e informali, full- time o part-time svolte dalle persone sulla base della loro personale volontà e delle loro motivazioni, senza lo scopo di ottenere una remunerazione (IGF GHK, 2010).

Di fronte al lavoro volontario (non solo sportivo ma di qualsiasi tipo) ci si è più volte chiesto, quale è il valore economico generato da questo tipo di attività lavorativa. Una risposta che possiamo prendere in considerazione, per comprendere la rilevanza del volontariato, oltre che in una prospettiva sociale, anche in un’ottica economica è quella contenuta nel Rapporto Finale Volunteering in the European Union prodotto nel 2010 su commissione dall’Educational, Audiovisual & Culture Executive Agency (EAC-EA) - Directorate General Education and Culture (DG EAC). Nel documento si fa

riferimento al Manifesto del Lavoro Volontario pubblicato nel 2006 dall’European Volunteer Centre dove si evidenziavano i casi di alcuni paesi europei:

nel Regno Unito sono 23 milioni le persone che si dedicano al volontariato, garantendo una forza-lavoro pari a quella di 180.000 lavoratori a tempo pieno. Per ogni euro di finanziamento pubblico speso per sovvenzionare il volontariato, i volontari contribuiscono con un valore di 30 euro in termini di tempo lavorativo; si stima che il valore economico del lavoro del volontariato organizzato nel Regno Unito sia maggiore di 65 miliardi di euro all’anno, cioè il 7,9% del PIL.

Per quanto riguarda il nostro Paese, e tornando a riferirci esclusivamente ai numeri relativi al volontariato sportivo, possiamo analizzare i dati elaborati da Nomisma (1999) e relativi ad un arco temporale che va dal 1994 al 1998. Gli operatori che lavoravano presso un ente sportivo erano nell’88% dei casi volontari, persone che prestavano quindi servizio a titolo completamente gratuito. Sono indubbiamente numeri su cui riflettere, alla luce di quella professionalità che dovrebbe contraddistinguere sempre più gli operatori del settore, soprattutto se impegnati come tecnici deputati alla preparazione atletica dei più piccoli.

Anche le stime del 1999 elaborate da Nomisma avevano cercato di mettere in luce il valore monetario generato dalle attività di volontariato in ambito sportivo. Ogni volontario, in media, dichiarava di prestare mensilmente 80 ore di lavoro nell’arco dei nove mesi, che costituiscono generalmente un anno sportivo; calcolando un’ ipotetica remunerazione a 30.000 lire l’ora, il valore aggiunto complessivamente prodotto venne stimato introno 5.700 miliardi di lire. (Nomisma, 1999)

Dieci anni più tardi il rapporto Coni-Censis (2008) ha rivisto i dati in questione stimando un valore aggiunto generato dal lavoro volontario in linea con i rilievi precedenti. Nel 2008 il Censis prese in considerazione un campione di 11.000 associazioni sportive rilevando che in media prestavano servizio in ciascuna di esse, a titolo di volontari, circa 10-12 persone che nell’arco di una settimana si dedicavano all’attività volontaria per circa cinque ore. Anche in questo caso venne ipotizzata una possibile retribuzione di 15 euro l’ora da cui scaturiva un valore annuo prodotto di circa 3,4 miliardi di euro.

Limitandoci all’analisi di un unico settore le problematiche sulla reperibilità dei dati sono rilevanti, dal momento che non è sempre semplice raccogliere l’esatta collocazione del volontario all’interno di un determinato settore. Un esempio che può essere riportato è quello del turismo, dove difficilmente si riesce a distinguere il reale impiego del volontario all’interno di un sistema complesso che determina l’offerta dei molteplici servizi.

Alla luce di questi dati appare chiaro che senza l’apporto materiale di oltre un milione di volontari l’intera macchina dello sport italiano non potrebbe sorreggersi, e se da una parte è vero che questo è maggiore nei settori di base e ricreativi, non è possibile sottovalutare l’apporto che i volontari danno anche nell’organizzazione dei maggiori eventi sportivi (per i quali vengono solitamente effettuate apposite selezioni). A tal proposito non possiamo non notare che negli ultimi anni ha fatto la sua comparsa un’altra tipologia di ente, che ha come obiettivo quello di fare da tramite tra gli organizzatori delle varie manifestazioni sportive e la sempre più alta offerta di manodopera volontaria; si tratta di soggetti che operano a livello nazionale e internazionale e si occupano del reclutamento e del coordinamento dei volontari dello sport. Se i maggiori eventi internazionali, come le olimpiadi, prevedono specifiche call per coloro che saranno impiegati nelle varie attività richieste dall’organizzazione, per alcuni eventi, magari di dimensioni minori, è possibile proporre la propria candidatura, utilizzando intermediari che operano come e vere e proprie agenzie di collocamento del volontario. A muovere l’offerta di lavoratori volontari in questi casi, più che il legame con il territorio e la comunità, è la possibilità far parte di queste affascinanti macchine di produzione dell’evento sportivo.

Quanto incide l’apporto del lavoro volontario sull’offerta complessiva dello sport ci viene confermato da ulteriori dati: sono volontari, il 94 % dei dirigenti, l’ 80,7 % degli addetti alla segreteria, il 74,3 % degli addetti alla manutenzione ma anche ben il 69,3 % dei tecnici41 (CONI-CENSIS 2008).

Questi dati si riferiscono solamente al nostro paese, ma il volontariato rappresenta indiscutibilmente un pilastro dello sport in tutti gli stati dell’Unione Europea. Nei 25 paesi membri che hanno comunicato i dati relativi alla loro situazione è stata stimata la presenza di 14,1 milioni di volontari operanti nel settore sportivo, un numero che

       41

A tal proposito bisogna annotare che vengono annoverati anche i tecnici con una remunerazione, a titolo di rimborso spese, inferiore ai 7.500 euro annui.

corrisponde al 3,9 % della popolazione in età lavorativa. L’Italia, nei confronti degli altri stati membri, in relazione al numero di volontari sulla popolazione totale, si posiziona in una situazione intermedia, con 0,225 persone che si dedicano a questa attività ogni cento abitanti.

Come si può evincere dai dati riportati di seguito, il volontariato sportivo è una realtà con una diffusione capillare su tutto il territorio europeo (per quanto il grafico dimostri l’esistenza di una certa disomogeneità tra le percentuali rilevate).

Fig. 5: Numero di lavoratori volontari ogni 100 abitanti (2008)42

Fonte: Eurostrategies

3.3.3. Associazionismo e capitale sociale: il valore economico del terzo settore

Attraverso l’esposizione di una serie di dati, nei precedenti paragrafi abbiamo cercato di comprendere la consistenza di due fenomeni tra loro correlati: da una parte il ruolo, all’interno di quella macchina che produce sport in senso stretto (corsi, attività agonistica dilettantistica e amatoriale) dell’associazionismo di carattere sportivo; dall’altra la consistenza e l’apporto del lavoro volontario nella composizione dell’offerta di sport.

A margine di questo quadro, poiché elemento non estraneo al contesto di cui stiamo parlando, è forse opportuno fare menzione della rilevanza che ha assunto a livello sociale, e di conseguenza anche a livello economico, la partecipazione degli individui alla vita associativa. A partire dagli anni ’90 un’ampia letteratura ha infatti cercato di dimostrare i benefici sociali ed economici derivanti dall’esistenza di alti livelli di capitale sociale, un elemento strettamente connesso alla presenza sul territorio di associazioni e reti, le quali sono in grado di accrescere la fiducia, la quantità e la qualità delle relazioni interpersonali (Nicholson M., Hoye R. 2008).

I nodi da sciogliere riguardavano da una parte la possibilità di misurare il capitale sociale, dall’altra quella di estrapolare gli effettivi meriti e l’effettiva incidenza di questo sulle performance delle istituzioni e sulle economie regionali.

Partendo proprio dal secondo aspetto, fu Putnam, nel 1993, a teorizzare per primo l’esistenza di una correlazione tra crescita delle economie regionali del nostro Paese e alti livelli di capitale sociale. Nelle indagini di Putnam la variabile indipendente era costituita proprio da quest’ultimo, che determinava diversi stadi di crescita economica (in termini di reddito procapite) nelle varie regioni. Si poneva però a questo punto il problema della scelta degli indicatori più opportuni per la misurazione del livello di capitale sociale. A tal proposito, sia Putnam che gli studiosi successivi, scelsero di inserire proprio il coinvolgimento all’interno delle associazioni (di tipo culturale e sportivo) come uno dei parametri da tenere in maggiore considerazione. Il motivo di una tale scelta era dettato dalla convinzione che la vita all’interno di un’associazione potesse servire in qualche modo da «scuola di democrazia», grazie al moltiplicarsi di occasioni di interazione che permettono l’instaurarsi di legami di fiducia tra individui (Lopolito, Sisto, 2007).

Per quanto gli studi empirici non abbiano sempre prodotto risultati significativi, siano sempre stati condizionati anche da altri elementi e nonostante l’effettiva difficoltà di misurazione, non si può mettere in discussione l’esistenza di una certa correlazione tra elevati livelli di associazionismo e crescita economica. Si possono piuttosto sollevare dei dubbi in merito alla relazione causa-effetto ed ipotizzare un’influenza reciproca tra le due variabili prese in considerazione.

Ovviamente il legame con l’associazionismo sportivo acquista rilevanza dal momento che, come emerge dai dati riportati nei precedenti paragrafi questo rappresenta, almeno sulla carta, la tipologia di associazione maggiormente presente sul nostro territorio. L’associazionismo va pertanto a configurarsi come elemento chiave nell’offerta sportiva, sia direttamente, relativamente al servizio che eroga; sia come elemento strumentale al perseguimento di altri fini di rilevanza primaria nell’ambito della comunità nel quale l’attore opera.

Proprio per questo motivo, come visto nel precedente paragrafo e nel capitolo dedicato, gli attori pubblici sono chiamati in causa nel sostentamento della rete associativa. La fonte di finanziamento è in larga misura quella pubblica: le istituzioni, non riuscendo ad intervenire in modo diretto nell’offerta di attività di tipo sportivo, si appoggiano, nell’esplicazione delle loro funzioni, agli attori del terzo settore, attraverso la concessione di una serie di agevolazioni (agevolazioni fiscali, concessione di spazi a tariffe agevolate) ma anche attraverso l’elargizione di contributi diretti.

E’ pertanto dalla sforzo economico pubblico e dei cittadini/famiglie (che grazie alla sottoscrizione di quote associative riescono a coprire parte delle fabbisogno delle stesse associazioni presso le quali svolgono le loro attività), che il terzo settore riesce a configurarsi come l’attore primario nell’offerta di sport, almeno per quanto riguarda l’attività sportiva giovanile, dilettantistica ed amatoriale. Dalla sinergia tra il pubblico, il privato (inteso in questo caso come singoli individui) e terzo settore scaturisce l’offerta di servizi sportivi per tutti così come noi la conosciamo.

Capitolo 4

Il ruolo del privato for profit: lo sport che genera profitto

Fino a questo momento abbiamo analizzato il ruolo del settore pubblico e degli enti no profit come attori del mercato dello sport e abbiamo visto quanto la composizione dell’offerta di servizi sportivi a livello base non possa assolutamente prescindere dall’impegno materiale e finanziario delle istituzioni pubbliche e dei soggetti appartenenti al terzo settore.

Non bisogna però pensare, ed è quello che emerge anche dai paragrafi precedenti, che l’azione di ogni settore sia scissa da quella degli altri, bisogna piuttosto pensare ad una missione comune, nel perseguimento della quale gli sforzi dell’uno sono strettamente connessi a quelli dell’altro. Analizzando la realtà dello sport nazionale, non si può pertanto non sottolineare quanto, nella composizione completa dell’offerta di sport, pubblico, aziende e terzo settore, abbiamo trovato ognuna il proprio spazio di azione, nel tentativo di soddisfare l’intera e variegata domanda di servizi sportivi.

In questo capitolo analizzeremo pertanto quale è lo spazio e quali sono i campi di azione, che si sono progressivamente ritagliati gli attori profit oriented, capendone il ruolo ma, soprattutto, capendo in che cosa si differenzia la loro azione da quella degli altri attori precedentemente presi in considerazione.

Numerosi autori hanno cercato di leggere l’ingresso del privato nell’offerta di sport come l’inevitabile esito di un processo di espansione dell’attività sportiva (sia in termini numerici, sia in termini di differenzazione, sia per quanto concerne l’espandersi, non solo dei praticanti, quanto piuttosto dei potenziali fruitori passivi).

Questa lettura non deve essere assolutamente scollegata da una di tipo storico/culturale, che vede il mercato dello sport come uno dei tanti settori le cui caratteristiche sono state modificate dall’evoluzione della cultura politica ed economica. La struttura dello sport si è plasmata in modo diverso a seconda delle varie realtà nazionali, lasciando più o meno spazio all’attività privata e dando, a seconda del contesto, un maggiore o minore peso alle istituzioni pubbliche. Proprio una lettura storica degli eventi ci può far notare quanto, ancora adesso, analizzando da vicino le varie tipologie di organizzazione dello

sport, si possano notare i lasciti di economie di tipo dirigistico oppure più marcatamente liberiste.

Bisogna però prendere atto del fatto che, di fronte ad un sistema che non conosce più barriere nazionali (basti pensare al mercato degli sportivi professionisti, contesi dai club di tutto il mondo) le diverse impostazioni nazionali hanno subito fortemente l’influenza proveniente dall’esterno.

Pertanto, se da una parte le radici culturali proprie di ogni paese continuano a pesare su alcuni aspetti organizzativi ed influenzare lo sport di base, dall’altra parte, per sua stessa natura, lo sport professionistico (largamente inteso)43 vive di continui contatti e scambi con l’esterno che hanno portato ad una progressiva omogeneizzazione a livello internazionale delle sue caratteristiche.

Occorre a questo punto andare a ribadire la fondamentale distinzione tra sport di base e sport ad alto livello, poiché ciò permette anche di comprendere il motivo di una certa iniziale diffidenza nei confronti della commercializzazione dello sport. L’attività sportiva viene solitamente intesa dalla comunità come un’attività praticata per il