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Le società professionistiche

4.1.1. L’introduzione dello scopo di lucro per lo società sportive professionistiche italiane

Quando si parla di scopo di lucro in ambito sportivo e volgiamo lo sguardo alla realtà italiana, occorre innanzitutto fare una precisazione normativa e andare a verificare in quale momento il legislatore ha definitivamente affrontato la questione. Solamente con

la Legge 586 del 1996 lo Stato italiano ha sancito definitivamente questo passaggio dando inizio ad un nuovo modo di concepire l’attività sportiva all’interno delle società professionistiche. Se già con il precedente intervento normativo era stato imposto alle società professionistiche di costituirsi come S.p.A. o S.r.l., queste avevano però mantenuto una caratteristica che le rendeva di fatto delle società per azioni e delle società a responsabilità limitata del tutto atipiche. La precedente normativa (legge 81/1981) prevedeva infatti che gli utili societari fossero interamente reinvestiti nell’attività sportiva. Limite che è decaduto con la legge 586/96 nella quale, l’obbligo permane solamente sul 10% dell’utile da reinvestire per «scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva».

Si è dovuto pertanto attendere il 1996 affinché il business sportivo abbandonasse quell’aurea che lo aveva sempre contraddistinto e si trasformasse in vera e propria attività imprenditoriale. Si è trattato indubbiamente di un passaggio non semplice, che ha comportato il superamento di alcuni ostacoli culturali generati da un modo di intendere l’attività sportiva come un fine e non come uno strumento utile a trarre profitto.

L’obbligatorietà per le società professionistiche di costituirsi come società a responsabilità limitata o società per azioni, con un solo piccolo limite relativo alla redistribuzione degli utili, ha portato queste a doversi misurare con la loro capacità di creare reddito. Operando in un mercato liberalizzato, con una grande concentrazione di capitali da dover gestire, le società hanno dovuto progressivamente sviluppare anche nuove aree di business. Oltre a ciò, il passaggio ad un atteggiamento business oriented ha necessariamente comportato uno spostamento dell’attenzione verso delle regole proprie della gestione aziendale quali «correttezza dei bilanci, ruolo attivo dei collegi sindacali, chiarezza gestionale, rispetto dell’equilibrio economico-finanziario, garanzie di redditività» (Breghero ed al. 2000).

Per le società professionistiche la necessità di doversi collocare sul mercato, e di conseguenza avere delle prospettive di equilibrio economico di lungo periodo, ha inoltre portato, come accennato precedentemente, allo sviluppo di nuovi rami produttivi connessi all’attività sportiva in senso stretto. Se si pensa alle società professionistiche di oggi risulta evidente la molteplicità degli obiettivi che queste devono perseguire. Il risultato agonistico, il successo sportivo, continuano a rivestire un’importanza primaria,

non solo come fine ultimo ma come strumento in grado di garantire il necessario flusso di ricavi attraverso la vendita di biglietti, degli abbonamenti televisivi, ed anche di tutti i prodotti del merchandising. Per quanto gli obiettivi di carattere sportivo e quelli di carattere economico possano sembrare tra loro contrapposti (basti pensare alle ingenti spese necessarie a rinnovare completamente una squadra: in questo caso il conseguimento di ottimi risultati sportivi coincide con forti perdite di bilancio), in realtà dei buoni risultati sportivi, ripetuti nel tempo, sono spesso la condizione necessaria per ottenere un flusso costante di entrate.

A tal proposito occorre tenere in considerazione un aspetto chiave che caratterizza il mercato dello sport professionistico e che lo rende del tutto peculiare (Neale, 1964). A differenza degli altri mercati, la singola azienda non ha infatti interesse affinché si instauri una situazione di monopolio, poiché, senza l’esistenza dell’avversario verrebbe meno la possibilità stessa di offrire agli spettatori il prodotto. Sempre secondo Neale, non basta neppure che l’avversario sia semplicemente presente ma occorre addirittura che la competizione sia equilibrata, in modo tale che lo spettacolo sia interessante e crei la curiosità degli spettatori. Si tratta di un aspetto su cui ritorneremo parlando della ripartizione degli introiti derivanti dai diritti televisivi, come meccanismo di competitive

balance.

4.1.2. Le fonti di finanziamento delle società calcistiche

Le aziende sportive hanno la necessità, come ogni altro tipo di azienda, di individuare le propri fonti di ricavo. Come già fatto presente, ogni società sportiva può fare affidamento su alcuni tipi di entrate che contraddistinguono il settore: i ricavi da ingressi, i ricavi da sponsorizzazioni, i ricavi derivanti dalla vendita dei diritti televisivi e da quella del merchandising.

Da una parte queste rappresentano le fonti di ricavo, dall’altra i mezzi attraverso cui lo sport-spettacolo viene offerto al pubblico. Per maggiore completezza di dati disponibili prendiamo in questa sede in esame il caso delle società calcistiche.

Il primo aspetto su cui soffermarci è quello relativo al luogo dove si svolge lo spettacolo sportivo. Non possiamo infatti sottovalutare l’importanza che per le società sportive professionistiche ha assunto l’evento e, di conseguenza, il rilievo che ha l’impianto

come luogo intorno al quale ruotano gli affari della società. Aldilà della particolarità del nostro Paese, che per quanto concerne la gestione, ma soprattutto la proprietà degli impianti, rappresenta un caso del tutto particolare, il luogo dove avviene la manifestazione sportiva è infatti in grado di diventare un polo di servizi collaterali dove si possono trovare negozi, ristoranti, sale convegni. Il tifoso, l’appassionato di sport, diventa in questo modo un cliente che l’azienda (sportiva) cerca di soddisfare sotto ogni punto di vista. Il luogo fisico riveste pertanto una decisa importanza economica, dal momento che i servizi, e la qualità stessa dell’ambiente, favoriscono (o sfavoriscono) un maggior afflusso di persone e una più sicura fonte di introiti.

Indubbiamente anche in questo caso il calcio costituisce per il nostro Paese il termometro della situazione. Nel report pubblicato da Arel nella primavera del 2013, sono presenti dei dati che confermano lo scarso potenziale economico degli impianti sportivi presenti sul nostro territorio. La povertà degli impianti di serie A e B si nota da due punti vista, sia confrontando la presenza del pubblico rispetto alla capienza complessiva (e di conseguenza delle entrate derivanti dai biglietti di ingresso), sia in relazione alla presenza di facility. Per quanto concerne il primo aspetto, i dati, riferiti agli impianti di massima serie di Germania, Inghilterra, Spagna, Italia e Francia, collocano il nostro Paese dietro a tutti gli altri. La percentuale italiana di riempimento, in rapporto alla capienza delle strutture presenti sul territorio, si attesta intorno al 53%, contro il 91% della Germania, il 90 % dell’ Inghilterra, il 75% della Spagna e il 67% della Francia. Non è difficile comprendere quanto questi numeri siano strettamente collegati ad una quantità minore di entrate nelle casse delle società, ed il dato diventa ancora più allarmante se si considera la progressiva diminuzione degli spettatori. Sempre secondo i dati riportati da Arel dal 2007 al 2011 i ricavi da ingresso sono calati del 4,4%, passando dai 275 milioni di euro ai 230 milioni della stagione sportiva 2011- 2012.

Per quanto riguarda invece il secondo aspetto di nostro interesse, messo in evidenza da Report Calcio 2013, i dati confermano quello che avevamo precedentemente rilevato come uno degli indicatori di arretratezza dei nostri impianti. Prendendo in considerazione gli stadi di Serie A e Serie B, il 17 % risulta sprovvisto completamente di spazi di ristoro e aree commerciali, solo il 31 % degli impianti è dotato di Skybox, e appena il 25 % ha al suo interno punti vendita per attività commerciali.

Lasciando da parte la questione dell’impiantistica sportiva, lo stesso studio ha messo in rilievo un altro deficit del nostro sistema calcistico. Si tratta di un aspetto chiave: l’assoluta dipendenza finanziaria delle società italiane dai ricavi derivati dalla vendita dei diritti televisivi. Secondo le stime riportate nel Report 2013, i ricavi da diritti televisivi rappresentano il 37% del totale del valore della produzione. Anche in questo caso il dato risulta in qualche modo allarmante soprattutto se lo si legge confrontandolo con quello degli altri paesi europei. I ricavi derivanti dalla vendita dei diritti televisivi coprono in Italia il 57% del totale dei ricavi delle società calcistiche di Serie A, contro il 51% di quelle inglesi, il 38% delle spagnole e il solo 29% delle società della massima serie tedesca.

Per quanto lo studio Arel ci permetta di fotografare unicamente la situazione in cui versa il calcio italiano, senza darci uno spaccato complessivo della situazione delle altre discipline sportive, questi dati possono essere in qualche modo presi ad esempio per capire l’intero andamento del settore sportivo.

Sempre restando in ambito calcistico possiamo dare uno sguardo allo studio pubblicato nel Gennaio 2014 da Doloitte e relativo alle performance finanziarie dei maggiori club calcistici europei. Lo studio ha tenuto in considerazione come parametro la capacità dei club di generare ricavi attraverso gli indicatori già visti precedentemente (biglietti, diritti televisivi, sponsorizzazioni). Per trovare all’interno della classifica, redatta annualmente da Doloitte, la prima società calcistica italiana, occorre arrivare fino al nono posto dove si posiziona la Juventus. Queste le ripartizioni dei ricavi delle prime tre società calcistiche italiane:

Fig. 6: Deloitte Football Money League 2014 – La ripartizione dei ricavi delle prime tre società calcistiche italiane (Juventus, Milan, Internazionale)

Fonte: Sport Business Group – Football Money League 2014