Piera Condulmer
La juvarriana chiesa della Madonna del Car-mine di Torino ha esaltato tutto il suo splen-dore architettonico ornamentale in una fastosa e festosa cerimonia che non può essere cele-brata tutti i giorni: si trattava di glorificare nel-la sua patria, nel-la beatificazione procnel-lamata a Roma, di un antico parrocchiano. Si faceva festa in cielo, era giusto fare festa anche in ter-ra, dove le occasioni di gloria sono sempre più rare, oggi specialmente.
Non importa che fosse passato più di un se-colo e mezzo da quando il 17 ottobre del 1820 un ufficiale del Corpo di Stato Maggiore di Sua Maestà portava al fonte battesimale un neonato cui furono imposti i nomi di Giovan-ni, Luigi, Federico; nell'eterna giovinezza della Chiesa quella data era un ieri di cui il parro-co attuale ha potuto gioire parro-come di una sua ventura, sapendo di aver introdotto nella im-mensa Comunione dei Santi, dalla sua chie-sa, un nuovo valore di carità. Perciò ecco il canto alluleiatico prorompere possente sotto la splendida volta settecentesca tra i mille ri-flessi di paramenti preziosi e antichi e di can-delabri, di sacerdoti in bianca stola. È un bisogno dell'animo umano quello di esprimersi nella gioia con la bellezza e l'armo-nia dei canti e chi lo nega è semplicemente un ipocrita, al quale si può chiedere il perché di certi costosi addobbi per certi personaggi po-litici o che so io, la cui santità è tutta e sem-pre, ahimè, da verificare!
Vogliamo invece verificare quella ormai col-laudata di Giovanni Luigi Federico Albert, il
Giovanni Luigi Federico Albert.
nuovo beato festeggiato nella Comunione dei Santi?
Vediamolo ragazzetto intento allo studio ma anche ad accese battaglie a suon di spade di cartone ed elmi di frasche o fresche o secche a seconda delle stagioni, nella nuova piazza d'Armi di S. Secondo, sempre all'inseguimen-to degli austriaci. Egli risentiva, come tanti al-tri ragazzi della sua età, di quel clima di pre-risorgimento che si respirava per l'aria, spe-cie in certe famiglie che a causa degli austria-ci, oltre che dei francesi avevano già molto sofferto e che bramavano disfarsi di tutti gli stranieri. Figlio di militare aspirava alla car-riera militare ed a battaglie vere, ma per pri-ma cosa doveva andare ad iscriversi alla Rea-le Accademia militare. Per questo suo primo importante passo della sua vita fremeva d'im-pazienza.
Intanto la famiglia aveva traslocato nel Bor-go Nuovo, e per andare all'Accademia egli do-veva passare dinanzi alla chiesa di S. Filippo; la madre lo aveva educato molto religiosamen-te, e come spesso gli accadeva, anche quella mattina vi entrò.
Il colloquio spirituale svoltosi dinanzi all'al-tare del beato Sebastiano Valfrè tra il giova-netto Luigi Federico e il grande apostolo del-la carità che fu Valfrè, non ci è dato di cono-scerlo, ma ne conosciamo gli effetti, che fu-rono quelli di far deviare i passi dell'Albert che, anziché recarsi all'Accademia meta dei suoi sogni giovanili, tornò a casa per annun-ciare a suo padre esterrefatto che non avreb-be più intrapreso la carriera delle armi, ma si sarebbe fatto sacerdote.
Fu una decisione ferrea ed irremovibile, sulla quale egli mantenne sempre grande riserbo, quasi un pudore.
Non entrò in seminario, avvalendosi della fa-coltà che gli aspiranti al sacerdozio di Torino avevano di seguirne i corsi come esterni, men-tre quelli provenienti dalla campagna doveva-no entrare come interni nel seminario di To-rino o in quello di Chieri. Però i doveri dei giovani chierici torinesi non si limitava all'ob-bligo della frequenza ai corsi, bensì nei gior-ni festivi di frequentare un presbiterio stabi-lito, che erano S. Filippo, o il Corpus Domi-ni, o Santa Maria di Piazza, dove imparava-no il cerimoniale e il canto gregoriaimparava-no duran-te le funzioni, e nella propria parrocchia dovevano aiutare il loro curato nell'istruzio-ne catechistica dei bambini e nell'istruzio-nei quaresimali. Fu logico per l'Albert iscriversi al clero di S. Filippo.
corte come chierico di corte in aiuto ai cap-pellani di servizio o alla cappella della Sindo-ne o ad altra cappella interna, mentre poteva seguire i suoi corsi di Teologia all'università regia; ma prima doveva superare una prova di filosofia, arti liberali e magistero. Prova brillantemente superata che gli aperse le porte ai gradi successivi. Procedeva negli studi e procedeva nella serie degli ordini mi-nori fino al diaconato e infine al sacerdozio a ventitré anni, nel 1843, quando fu consacra-to dal controverso (politicamente) arcivesco-vo Fransoni.
L'ordinazione a sacerdote fu per lui un even-to di portata immensa, che doveva coinvol-gere tutta intiera la sua vita anche nei minimi aspetti: tutto per lui doveva scaturire dall'e-sercizio del suo ministero, e tutto doveva es-sere finalizzato ad esso.
Intelligenza vivida, cultura, signorilità di modi gli spalancarono le porte della reggia, ch'egli varcò per compiacere i suoi genitori, ma che non sarebbero state quelle ch'egli avrebbe vo-luto varcare; assolse tuttavia il suo compito in maniera edificante, divenendo tosto cappel-lano e poi confessore di due sante regine, Ma-ria Teresa e MaMa-ria Adelaide. Non era questo tuttavia il ministero che aveva sognato rinun-ciando alla carriera militare per farsi prete, era una missione pastorale pel popolo e in mezzo al popolo ch'egli voleva compiere, sentirsi fer-mento di vita nella realtà quotidiana, e cerca-va l'occasione per poter abbandonare la sua carica privilegiata; perciò quando seppe della possibilità che si profilava di un posto di vi-cecurato, egli chiese e ottenne dispensa dal re per lasciare la corte.
La parrocchia era quella di S. Carlo: parroc-chia che nell'apparente eleganza comprende-va un'infinità di poveraglia, quella di tutte le soffitte del centro storico tipica di Torino. E allora incominciò il suo continuo salire e scen-dere gl'infiniti gradini che portavano a quelle soffitte per essere vicino alla sofferenza ed al bisogno.
Ma aveva in serbo ancora tante energie, tan-te capacità, tanto fervore di carità che cerca-vano una loro espressione, e la parrocchia cit-tadina gli parve ancora luogo privilegiato, as-sillato com'era dall'espressione paolina: «Io voglio dare a tutti tutto me stesso », egli cer-cava di annullarsi nel suo prossimo. Perciò quando seppe di una vicaria di mon-tagna, tanto fece e tanto brigò, anche nono-stante il disparere dei suoi, fin che l'ottenne. Lo attendeva a Lanzo, allora paesino miser-rimo, il più assoluto squallore: il parroco
vec-chissimo non era più stato in grado di stare al passo col degrado né della canonica né del-la casa di Dio; poveri e ammadel-lati e vecchi nel più assoluto abbandono, i figli dei molti emi-grati quasi abbandonati a sé. Questo era il campo che egli doveva arare, e qui egli sentì di aver trovato il suo ubi consistam. Il manto di seta e le fibbie alle scarpe tosto divennero ricordi ancestrali; la domenica successiva al suo arrivo egli capitanava già una squadra di parrocchiani a scapicollarsi giù verso il torren-te a raccogliere le pietre da accumulare onde rifare parte della chiesa che stava crollando. Prima la casa di Dio, poi tutto il resto. Tutte le domeniche dopo le funzioni, la processio-ne si faceva sempre più numerosa; qualcuno faceva anche escursioni infrasettimanali, la-voro straordinario per la vigna del Signore. E la chiesa anziché rabberciata venne rifatta su suo disegno, con l'assistenza tecnica del fra-tello studente d'ingegneria da lui amatissimo, disposto anche lui a lasciarsi fagocitare. Quella chiesa aveva proprio il significato della casa del popolo offerta a Dio per ospitarLo, per averLo in mezzo a loro.
Ma il greto dello Stura serbava ancora sotto il ponte del Diavolo, tante belle pietre inuti-lizzate: era un peccato lasciarle inerti mentre sarebbero state così di utile ausilio per costrui-re un bell'orfanotrofio che servisse anche al-la valle. E l'orfanotrofio fu costruito e inau-gurato.
Ma non bastava, perché bisognava pensare ai malati; ma non bastava, perché bisognava pensare all'istruzione e all'educazione delle ra-gazze, le cenerentole della società. Il vicario di Lanzo era un vulcano in conti-nua eruzione d'idee che non si rassegnava mai che rimanessero idee, la loro realizzazione era sempre e solo questione di tempo; tutti ormai lo sapevano, a Lanzo e fuori di Lanzo; occor-reva dargli solo il tempo per raggranellare un poco di denaro per iniziare le nuove opere, perché alla loro prosecuzione avrebbe pen-sato la Provvidenza. E per raggranellarlo l'Al-bert rubacchiava sempre più minuti alla sua breve notte di sonno per prepararsi a corsi di esercizi spirituali, a quaresimali, a novene a cui era invitato in parecchie località della dio-cesi e fuori della diodio-cesi, perché la sua fama di dotto e suasivo predicatore andava ormai diffondendosi.
Senza ch'egli lo cercasse, i suoi contatti con personalità del clero e della politica si faceva-no sempre più ampi ed importanti, ed egli li manteneva nel limite di poterne derivare van-taggi per il suo paese, per la sua gente con la
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- , * i .li, l'apostolo degli operai più giovane di lui di cinque anni; di Luigi Anglesio suo coeta-neo e prudentissimo secondo rettore della Pic-cola casa della Divina Provvidenza, di Gio-vanni Cocchi ideatore delle colonie agricole per i ragazzi dei riformatori.
Nutrita schiera di sacerdoti colti, preparati, ferventi di carità che sembravano essere stati predisposti per far superare alla chiesa pie-montese quei momenti estremamente difficili di esplosione di riformismo liberale attuato senza adeguata gradualità verso le istituzioni religiose e che culminò nei ripetuti arresti del-l'arcivescovo Monsignor Fransoni e nel suo definitivo esilio.
Un interscambio di valori e di virtù, di reci-proco aiuto scorreva tra questi uomini pei qua-li la santità è carità, è amore del prossimo, è sacrificio di sé in un esercizio continuo, inde-fesso sostenuto dalla preghiera.
Così anche la modesta vicaria di Lanzo era di-venuta senza la volontà dell'Albert, un pun-to di riferimenpun-to, un centro di misericordie e di attività, dove lavorando per lo spirituale si lavorava pel temporale, e viceversa, il che non mutava nulla. Perché le costruzioni materiali che si facevano sorgere a Lanzo, trovavano il loro presupposto o il loro compimento in quei convegni pastorali, in quei frequentissi-mi esercizi spirituali che si tenevano tra le aspe-rità dell'eremo di S. Ignazio, dove accorreva-no vescovi e arcivescovi e Don Bosco stesso, a sentire la dotta ispirata parola del teologo Albert vicario di Lanzo, che trasformava ogni sua parola in un mattone o una medicina o in una fonte di lavoro per i suoi figli dello spi-rito. Figli che potevano essere anche i più riot-tosi, ma che difficilmente si mostravano in-grati.
Tutte le miserie fisiche e morali di quelle valli miserabili passavano per le sue mani, capita-tegli esse addosso o andate a cercare, il che aveva per lui lo stesso valore, perché ad ognu-na di esse egli si sentiva in dovere di provve-dere nelle forme che l'amore di Dio suggeri-sce, e coi mezzi finanziari che la Provvidenza fornisce. Suscitava la generosità dei cuori at-traverso la parola il grande vicario che trasci-nando carrette di calce e portando carichi di mattoni, rielaborava mentalmente le sue sa-pienti prediche, o preparava quelle difficili let-tere da scrivere alla Superiora generale delle suore che aveva fatto venire per seguire le sue educande nel suo collegio, e tra le quali era sorto qualche screzio; elucubra il modo di far sorgere anche un istituto per i maschi che ve-de vivaci fino alla violenza, al punto che du-Affreschi dell'Albert sulle volte della Cappella
del-l'Istituto.
quale si era immedesimato. Alleviare le mise-rie del popolo, mettersi a disposizione di chi soffre, aiutare a vivere, vincere il male con il bene, illuminare le menti, riscaldare i cuori, placare i rancori, disporre i cuori all'amore. Questa sentiva egli essere la sua missione, mentre si moltiplicava quella fioritura di san-tità che il Piemonte offerse alla chiesa, all'I-talia, e al mondo nel secolo più anticlericale e antireligioso quale fu l'ottocento. Infatti ec-co di chi era ec-contemporaneo Federiec-co Albert: di Giuseppe Benedetto Cottolengo morto nel 1842, di Giuseppe Cafasso, il grande maestro del sacerdozio torinese più anziano di lui di nove anni, di Giovanni Bosco più anziano di lui di cinque anni, di Leonardo Murialdo il grande fondatore dei Collegi degli artigianel-Istituto Albert, Lanzo Torinese. Veduta generale della Casa Madre.
rante un litigio in sacristia tra chierichetti uscì fuori anche un coltello. E in quel collegio so-gna di far venire ad aiutarlo i chierici meravi-gliosi di Don Bosco. Ed ecco, ne giungono sei, che mentre continuano l'approfondimento teologico col Vicario, sotto la direzione dello stesso Vicario, insegnano nella scuola, spaz-zano la stalla, tosano le pecore anzitempo per-ché inverosimilmente impidocchiate da una povera mendicante ospitata per qualche gior-no in quella stalla gior-non avendo altro locale da offrirle in quel momento. Quei sei chierici pas-sarono dalla scuola di santità di Don Bosco a quella del Vicario Albert senza soluzione di continuità si può dire, e per loro l'Albert fu solo secondo a Don Bosco, e questa convin-zione portarono nel mondo dopo il tirocinio di Lanzo, perché uno di essi, Giacomo Costa-magna, divenne vicario apostolico in Ecuador, e un altro, Giuseppe Fagnano, prefetto apo-stolico della Terra del Fuoco. Monsignor Co-stamagna quando eletto vescovo accompagnò la prima traslazione dell'Albert disse: «Se io ho imparato a predicare a lui lo devo; furono dieci anni per me di scuola santa quelli di Lan-zo, di alto volo. Egli fu un'aquila che m'inse-gnò a volare».
Nel 1873 è il municipio che invia una suppli-ca a Pio IX con la firma di tutti i suppli- capifami-glia per fare revocare la nomina del loro Vi-cario a Vescovo di Pinerolo: né lui desidera-va lasciare Lanzo, né i lanzesi concepidesidera-vano di perderlo.
Nessuna vanità; la caratteristica dell'Albert fu il suo cuore, il suo immenso cuore, dal quale sprigionava una tale intensità di preghiera, da piegare il cielo ai suoi voleri che erano tutti e solo rivolti a beneficare il suo prossimo. Al-l'imperio della sua carità tutti erano costretti ad ubbidire, dal re Vittorio Emanuele II, no-nostante i rabbuffi che riceveva da lui, giù giù per tutta la scala sociale, perché a tutti è pos-sibile di fare il bene, anche non possedendo nulla.
A Lanzo qualunque fosse il colore del muni-cipio, nulla si poteva fare senza l'intervento del Vicario, il suo assenso o il suo aiuto. Tanta attività e tanta carità però pregiudicavano certi interessi non troppo puliti, e perciò anche al-lora avvisi, minacce, lettere minatorie; così fu per la ferrovia Ciriè-Lanzo da lui caldeggiata per comodità della popolazione. Ne benedis-se il tratto costruito. Poco tempo dopo una notte con la scusa della chiamata urgente di un moribondo, fu tratto in un tranello, e gli dissero che il moribondo era lui, e che lo am-mazzavano per quella maledetta ferrovia che
li aveva danneggiati nei loro affari. Sereno egli chiese cinque minuti per prepararsi in preghie-ra e s'inginocchiò. Uno dei malandrini pensò di trarre qualche profitto ancora dalla sua mis-sione e gli chiese cento lire se voleva salva la vita. Il Vicario non aveva soldi, ma gli rispo-se che al mattino rispo-se fosrispo-se andato in canonica gliele avrebbe date. Dato che il Vicario non poteva mentire, gli credettero, ed al mattino il sicario, uno solo, si presentò a richiedere le cento lire e le ebbe, ma non passò molto tem-po che quello stesso treno lo stritolò. L'altro bandito pieno di rimorsi andò a confessarsi, e tutto finì lì.
Anche l'Istituto delle Suore Albertine o Vin-cenzine di Maria era stato costituito, rimane-va al Vicario l'ultimo sogno da far sì che si avverasse: l'istituzione di una colonia agrico-la dove i giovani potessero prepararsi tecni-camente al lavoro dei campi ed essere poi as-sunti nelle varie tenute agricole.
Ed anche questo riuscì a realizzarlo, ma man-cava ancora la cappella che sarebbe servita da oratorio festivo per i ragazzi e i giovani del paese.
Anche quella fu iniziata: egli ne diede il dise-gno, il fratello la tecnica.
Ma egli era anche pittore, e la cappella dedi-cata a S. Giuseppe volle decorarla lui stesso. Come già da parecchie mattine salì sull'impal-catura e si mise a dipingere. Lavorava sulla medesima impalcatura il fido Neretto, che a un certo punto ebbe bisogno di trasportare un asse e si accinse a farlo. Il Vicario vistolo gli disse: «Aspetta è troppo pesante per te, ti aiu-to io», e afferrò l'asse per l'altra estremità. Un piede gli mancò ed egli precipitò a terra rimanendo sul colpo.
Morì come desiderava, sul campo di battaglia, delle sue battaglie.
Egli non aveva mai cercato lo straordinario, ma aveva sempre fatto in modo straordina-rio le cose ordinarie. Dopo la sua morte ten-ne uniti a Dio i suoi parrocchiani con i mira-coli, che lo portarono alla canonizzazione.