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Lo scenario delle donne sopravvissute alla tratta, impegnate negli enti o servizi

2. L’uscita dalla tratta sessuale e le traiettorie di vita nel post trafficking

2.3 Lo scenario delle donne sopravvissute alla tratta, impegnate negli enti o servizi

2.3 Lo scenario delle donne sopravvissute alla tratta, impegnate negli enti o

dello sfruttamento. Nonostante la situazione paradossale a cui i sopravvissuti sono esposti, la loro presenza nelle attività anti-tratta è divenuta centrale non solo per le campagne mediatiche e le azioni di sensibilizzazione, ma anche per gli interventi di recupero destinati alle persone che sono in affrancamento dal trafficking. Il richiamo a valorizzare il sapere esperienziale dei cosiddetti “sopravvissuti” deriva dal dibattito originatosi a Chicago durante la conferenza mondiale SAFE, Coalition of Human Rights (SAFECHR) nel 2014.

Durante l’occasione erano presenti non solo i rappresentati socio-sanitari impiegati nel settore dell’anti-tratta, ma anche un gruppo consistente di persone uscite dallo sfruttamento sessuale connesso al trafficking. Per questi ultimi la conferenza è divenuto presto uno spazio per esprimere con fermezza i bisogni maggiormente sentiti, di cui il lavoro o l’avere un impiego professionalizzante si collocava al primo posto. A fronte di una simile affermazione, la discussione congiunta tra personale socio-sanitario e “ex-vittime” ha portato in quel frangente all’elaborazione di un modello specifico basato proprio sulla collaborazione tra questi due tipi di figure: il Clinician- Survivor- Driven Mentor Model.

Gli aspetti centrali del modello consistono in uno sforzo di co-presenza tra clinici, operatori sociali e sopravvissuti alla tratta che in maniera sinergica lavorano congiuntamente nella messa a disposizione dell’assistenza alle vittime prese in carico. Nel frattempo i survivors sono continuamente seguiti in modo da ricevere ulteriore sostegno e guida nonostante abbiamo già recuperato una loro autonomia. La presenza di un’equipe mista composta da persone con competenze differenti (esperienziali vs professionali), etnie e appartenenze culturali diverse va a rafforzare l’efficacia degli interventi messi in atto della “semplice” equipe di operatori socio-assistenziali (Walker, Gaviria & Gopal, 2018).

Nel caso del modello elaborato nel 2014 durante la Coalition of Human Rights, i sopravvissuti sono abbinati alle ospiti delle strutture residenziali in modo che facciano da ponte tra l’equipe di operatori, il mondo esterno e quello inerente alle pratiche attuate nelle abitazioni. Il desiderio che sottostà tale modello è agire su due fronti: in primo luogo rafforzare le competenze relazionali, organizzative, tecniche e comunicative dei sopravvissuti; in seconda battuta offrire alle vittime un “mentore” che possa fungere da modello ispiratore per i comportamenti da mettere in atto e il recupero di una propria autonomia. Anche se il contributo offerto dai sopravvissuti è di estrema importanza nella misura in cui tende a fare leva sulla condivisione di una stessa esperienza di sofferenza e del connesso desiderio di riscatto, non mancano le criticità connesse al modello. Le

persone che entrano nei canali dell’accoglienza sperimentano molte volte colpa, vergogna e rabbia per quanto hanno vissuto69 ed è facile che entrino in competizione con coloro che sono riusciti ad affrancarsi dallo sfruttamento e rilanciare la propria vita impegnandosi nel movimento anti-trafficking. In molti casi, come detto in apertura, i “sopravvissuti” si trovano a partecipare a eventi o convegni importanti godendo di riconoscimenti ufficiali: la possibilità di riscattare e assistere a una scalata dallo status sociale è l’elemento che crea, in alcuni casi, tensione nel rapporto con le vittime presenti nelle strutture di accoglienza e protezione. In linea generale la presenza intrusiva dei mezzi mediatici viene gestita tranquillamente anche nel rapporto con i beneficiari dei servizi.

Il modello appena presentato è solamente una delle tante forme che vede la presenza di sopravvissuti all’interno degli enti anti- trafficking: non è raro riscontrare storie di persone che scelgono di dedicarsi volontariamente al sostegno e alla protezione di altre donne cadute nella medesima rete criminale. In alcune circostanze sono altresì leggibili le testimonianze di ex-beneficiari che fondano associazioni per contrastare il sex trafficking facendosi promotori di importanti rivoluzioni culturali nei contesti in cui operano (Maragnani & Aikpitanyi, 2014). A tal proposito sul territorio nazionale italiano possiamo ritrovare sia associazioni costituite solamente da persone uscite dal circuito della tratta, come nel caso delle “Donne di Benin City”70 oppure enti anti-tratta fondati da ex-beneficiari, ma co-gestiti con operatori che non hanno avuto precedenti esperienze di trafficking, come ad esempio la realtà del “Piam- Progetto Integrazione Accoglienza Migranti”71. Si tratta di un tema che seppur emergente, non è ancora stato approfondito dalla letteratura scientifica nazionale e internazionale. Per cercare quindi di inquadrare questo particolare aspetto possiamo trovare spunti interessanti e aspetti di convergenza con i movimenti sociali degli utenti e dei care giving presenti soprattutto nel campo della disabilità, della tossicodipendenza o della psichiatria (Folgheraiter, 2004). Negli anni Novanti dello scorso secolo anche in questo campo hanno iniziato a emergere organizzazioni composte da utenti e/o familiari con l’obiettivo di acquisire degli spazi in cui poter mettere a disposizione di altri soggetti il proprio sapere esperienziale. In molti casi gli appartenenti a questi movimenti rivendicano una propria indipendenza dai servizi formali entrando con essi anche in aperto contrasto: alla base vi è il desiderio di affermarsi come agenti “capaci”, il cui potere di azione non può essere completamente delegato alle

69 Vedi la revisione sui fattori di uscita esposta nella prima parte del capitolo.

70 https://donnedibenincitypalermo.wordpress.com.

71 https://piamonlus.org.

figure professionali esterne, ma al contrario deve implicarli direttamente. Questi movimenti tutt’oggi presenti e diffusi non mirano a produrre un generico cambiamento socio-politico, ma al contrario “si impegnano in un’azione libera da condizionamenti o strumentalizzazioni in direzione dell’adeguamento legislativo, di una migliore definizione dei loro bisogni, di un’affermazione della loro identità rispetto all’opinione o alla cultura dominante, […] basandosi primariamente […] sulle loro stesse risorse di auto/mutuo aiuto” (Folgeraither, 2004, p. 43). È evidente che sottostante tale orientamento vi sia il desiderio di farsi specchio di valori ben precisi come l’uguaglianza, la parità o il riconoscimento della dignità della vita umana (Ripamonti, 2018). Le prime esperienze di rivendicazione di una propria autonomia decisionale da parte degli utenti si collocano, infatti, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso con la deistituzionalizzazione e il reinserimento comunitario di persone come pazienti psichiatrici o disabili sottoposti per anni a controlli rigidi e invasivi da parte delle istituzioni assistenziali. Con la riammissione

“in società” dei cosiddetti “sopravvissuti”, il desiderio da parte di questi ultimi di riappropriarsi del potere di azione, di avere spazi di espressione personale li ha portati a costituire le organizzazioni costituite da soli beneficiari. Storicamente, infatti, i movimenti degli utenti e/o dei loro familiari sono rimasti intenzionalmente indipendenti dai servizi socio-assistenziali al fine di far valere il proprio punto di vista sulle esigenze vissute e sulle difficoltà connesse alla condizione di vita che personalmente si trovano ad affrontare.

Tuttavia in molte circostanze le organizzazioni costituite da utenti sono spinte a collaborare con i professionisti del settore che si mostrano interessati e capaci di intessere relazioni paritarie, di reciprocità e simmetriche mostrandosi, in un certo senso, sostenitori del movimento “degli utenti”. In questi casi viene molto più facilmente accettata la presenza di professionisti che mettono a disposizione il proprio “sapere” anche se non sono beneficiari o non hanno parenti con le stesse criticità. Allo stesso tempo il sentimento di estraneità che “gli utenti” molte volte avvertono nei confronti dei servizi socio-assistenziali riguarda perfino il mondo del volontariato impegnato a offrire sostegno verso le persone più fragili. Anche in questo scenario l’operato delle organizzazioni no profit viene vissuto come eccessivo o, per meglio dire, un ulteriore esercizio di potere che trova il modo di manifestarsi su di loro.

Le iniziative che vengono portate avanti dal movimento degli utenti e dei familiari si sono consolidate nel corso degli anni contribuendo in modo significativo al cambiamento della condizione sociale dei propri membri. La mission e l’orientamento valoriale che contraddistinguono le organizzazioni di “beneficiari” sono così specifiche e peculiari che

hanno facilitato il riconoscimento delle associazioni stesse come qualche cosa di diverso dal tradizionale Terzo Settore (Folgheraiter, 2004). Secondo un’ipotesi interpretativa, quest’ultimo potrebbe essere composto da tutti quei movimenti, organizzazioni e servizi che agiscono “per gli altri”, mentre tutte le realtà che tendono a muoversi “per il proprio gruppo”, secondo differenti modalità, potrebbero rientrare nel cosiddetto Quarto Settore. In questi casi il modello che viene praticato si basa principalmente sulla metodologia della peer- education, simile per molti versi a quanto descritto in apertura della sezione dal Clinician- Survivor- Driven Mentor Model di Chicago utilizzato per il recupero delle donne vittime di tratta. I riferimenti teorici a cui possiamo guardare nel descrivere le organizzazioni di utenti e dunque le realtà che anche nel settore dell’anti tratta includono, in diverse forme, le persone sopravvissute alla tratta sessuale affondano nella

“participatory education” di Freire (1975), nei contributi della di Bandura sull’apprendimento tramite osservazione (1977) o ancora nelle riflessioni di Fishbein e Ajzen (1975) rispetto all’importanza dei pari nel cambiamento delle norme sociali. Il filo rosso che unisce tutti questi studi consiste nel ritenere che la partecipazione nell’educazione di un target specifico da parte dei membri che appartengono allo stesso gruppo faciliti il raggiungimento di obiettivi anche complessi. L’enfasi viene messa sul tipo particolare di relazione che si viene a creare tra beneficiari mentori (che si prendono cura degli altri pari) e utenti: un rapporto di asimmetria non giudicante che facilita il riconoscimento reciproco tra le parti e una ri-socializzazione alle nuove norme sociali fornite dal gruppo dei pari “mentori”. Questi ultimi non hanno qualifiche professionali specifiche, ma sono persone che in primis condividono o hanno condiviso, come nel caso delle vittime di tratta, una stessa condizione di vita, e allo stesso tempo possiedono l’obiettivo esplicito di educare. È evidente che, anche se non si tratta di soggetti il più delle volte professionalizzate, vengono preparati attraverso specifici training finalizzati ad acquisire e sviluppare competenze relazionali o in alcuni casi perfino tecniche. Il vantaggio è la presenza di figure che sono portatrici in parte di saperi “specifici” appresi con il training specificamente preparato e in parte in possesso di grammatiche e semantiche simili a quelle del gruppo target dell’intervento (Ripamonti, 2018).

La ripresa di alcune categorie e aspetti del movimento degli utenti in generale ci permette di ritornare al nostro oggetto di ricerca con uno sguardo più consapevole. Non essendoci letteratura specifica sul tema, abbiamo percorso e recuperato coordinate interpretative importanti in altri campi di studio, ma che ci hanno ugualmente permesso di comprendere verso quali elementi prestare particolare attenzione. Tuttavia, ripensando ai nostri

(s)oggetti di ricerca, ovvero, persone precedentemente trafficate inserite in diverse forme72 nei servizi anti-trafficking rimangono aperte alcune importanti questioni: in primo luogo rimane ancora debole la riflessione sui processi e le modalità che portano le ex-vittime a divenire parte attiva all’interno del movimento anti-tratta. A differenza di quanto verificatosi per i pazienti psichiatrici o disabili a cui abbiamo fatto riferimento poc’anzi, nel campo della tratta, almeno in contesto nazionale, non si è ancora arrivati alla mobilitazione organizzata e strutturata di movimenti di rivendicazioni dei diritti; quello che è possibile osservare è la presenza socialmente attiva, ma politicamente silenziosa di

“sopravvissuti”. È con lo sguardo rivolto a loro che ci domandiamo come si caratterizzano gli snodi di carriera delle donne che, uscite dalla tratta, scelgono di impegnarsi negli enti-anti tratta; quali sono le ragioni e le motivazioni che le spingono ad andare in quella direzione? Come di caratterizza e contraddistingue il loro agire? In secondo luogo un’altra questione che non ci sembra essere stata sufficientemente approfondita nei dibattiti scientifici riguarda le conseguenze dell’impegno assunto delle donne sopravvissuti nei confronti dei vari soggetti sociali, in particolare non sembrano essere chiari gli effetti reali che il loro agire può avere verso la società più ampia (in termini preventivi) e nei confronti delle vittime stesse. Come domanda uno dei leader dei sopravvissuti al trafficking: “il mio raccontare fornisce a un gruppo di persone prove sufficienti dell’esistenza del traffico sessuale, oppure c’è qualcuno che ancora ne dubita a questo punto? Abbiamo davvero bisogno di una nostra maggiore presenza […]? Queste (nostre) testimonianze aiutano (realmente) le vittime? (Cojocaru, 2015, p. 8). Soprattutto da un punto di vista scientifico, queste due questioni rimangono ancora privi di evidenze empiriche. Al contrario nella letteratura internazionale e nazionale è possibile identificare alcuni scritti autobiografici di donne che uscite dallo sfruttamento, si sono impegnate nel movimento anti-trafficking come volontarie, operatrici professionali oppure leader e fondatrici di nuove associazioni.

Molto probabilmente lo sbilanciamento presente tra la letteratura scientifica sul tema e quella divulgativa si deve proprio al fatto che da una parte i movimenti anti-trafficking se ne servono in termini di sensibilizzazione con tutte le criticità che abbiamo mostrato in apertura al paragrafo rispetto al “taglio” del racconto. Dall’altra parte anche la ricerca sul campo73 mostra una forte concentrazione sulla fase dello sfruttamento e poco sul post-uscita andando in risonanza con il sensazionalismo culturale volutamente o

72 Come volontari, collaboratori esperti (mediatori, interpreti…) o perfino fondatori di enti impegnati nella lotta contro il sex-trafficking.

73 Come ampliamente dimostrato nelle pagine precedenti (vedi primo paragrafo del presente capitolo).

involontariamente creato dagli stessi movimenti anti-tratta ed enfatizzato dai canali mediatici. Ciò nonostante, i contributi che derivano dalla letteratura divulgativa offrono senza dubbio ulteriori spunti di riflessione nel comprendere meglio la categoria che desideriamo studiare. A tal proposito ci riferiamo, per esempio, ai lavori di Okoedion &

Pozzi (2017) oppure Maragnani & Aikpitanyi (2014) che basandosi sulla propria personale esperienza raccontano il percorso che le ha portate a uscire dalla tratta impegnandosi in attività pro-sociali per le proprie connazionali e di sensibilizzazione sul fenomeno divenendo punti di riferimento, discussi o meno, sul territorio nazionale. Nelle loro trattazioni si ritrovano alcuni brevi spunti che cercano di mettere in luce le modalità e le motivazioni grazie alle quali sono riuscite non solo a superare la tratta, ma ad impegnarsi in attività di contrasto al fenomeno, soprattutto nei termini della sensibilizzazione e prevenzione74. A tal proposito, un ruolo sicuramente particolarmente importante viene attribuito alla fase di accoglienza all’interno delle strutture di protezione: si tratta di un momento in cui la persona può vivere un tempo di sospensione per osservare il proprio passato e riprogettare il futuro. In questo frangente temporale la presenza di persone significative come gli operatori o le figure religiose delle strutture di accoglienza possono facilitare la ripresa del senso di controllo sulla propria vita così come viene riportato da Okoedion & Pozzi (2017). In questa particolare testimonianza vengono evidenziati come significativi altri due elementi: la spiritualità, connessa al desiderio di restituire l’esperienza di “liberazione” ad altre connazionali e la dimensione valoriale ereditata dalla propria famiglia. Il primo aspetto viene descritto come uno strumento importante non solo per uscire dall’esperienza del trafficking e dello sfruttamento sessuale, ma anche per trovare una nuova prospettiva di senso anche in termini progettuali: “Per questo ringrazio Dio, perché quello che ho vissuto sulla mia pelle mi permette ora di parlare e forse di liberare altre donne. Sono dovuta scendere nell’abisso per rinascere a una nuova vita, con più coraggio, determinazione e fede. Dio mi ha dato la voce” (Okoedion & Pozzi, 2017, p.

50). Sempre nelle medesime autobiografie è riconosciuto un particolare ruolo ai valori appresi nel contesto familiare: essi hanno orientato e sostenuto la donna sia nelle fasi di progettazione del proprio percorso migratorio precedenti all’esperienza della tratta, sia nelle scelte portate avanti una volta arrivata in Europa, inclusa quella di impegnarsi nel movimento anti-tratta. In ultima battuta vogliamo sottolineare come tra le righe del

74 Gli stessi libri editati hanno, infatti, tale funzione e forse per questo rischiano per certi versi di scivolare nella “narrazione al negativo” di cui abbiamo trattato in apertura al paragrafo. In entrambi i casi il racconto è particolarmente incentrato nel periodo le due testimonianze si ritrovano alcuni dei

racconto sembra emergere una dinamica molto simile a quella descritta dai teorici del dono (Godbout, 1993) rispetto al desiderio di offrire un supporto paritario a quanti sperimentano, allo stesso modo, l’esperienza della tratta proprio perché a loro volta vissuto durante l’accoglienza. Ripercorrendo la dinamica donativa del “dare, riceve e ricambiare”

lo sforzo delle protagoniste sembra andare nella direzione di far crescere una nuova etica generatrice di legami e beni relazionali come la fiducia, la reciprocità e il riconoscimento della dignità umana. Tutti gli elementi che ritroviamo nei contributi autobiografici ora citati offrono sicuramente degli aspetti importanti da andare ad analizzare e osservare nel nostro lavoro empirico. Senza voler mettere in discussione l’intenzionalità degli scritti autobiografici di sopravvissuti alla tratta, dobbiamo, infatti, tenere in considerazione che i testi presentati sono di stampo prettamente divulgativo che richiederebbero di essere

“messi alla prova” con un lavoro di ricerca strutturato e approfondito.

In conclusione del paragrafo, desideriamo riassumere brevemente gli aspetti principali che abbiamo avuto modo di illustrare in questa parte della trattazione. Abbiamo aperto la sezione presentando una quarta possibile evoluzione di carriera delle donne vittime di tratta uscite dal circuito dell’accoglienza ovvero il ritorno in enti anti-trafficking sotto forma di collaboratori, volontari o professionali. Dopo aver brevemente esposto i paradossi e alcuni aspetti di criticità cui sono esposte tali figure, si è voluto illustrare il ruolo e le funzioni che esse assumono all’interno del movimento anti tratta anche a partire dalle sollecitazioni emerse durante la conferenza mondiale SAFE, Coalition of Human Rights (SAFECHR) del 2014 a Chicago. Essendo, tuttavia, la letteratura scientifica internazionale e nazionale estremamente povera per quanto riguarda la condizione di vita che queste donne si trovano a vivere, abbiamo dovuto integrarla con le riflessioni che in campo socio-pedagogico sono fiorite in riferimento ai movimenti sociali degli utenti (come quelli dei pazienti psichiatrici o disabili) proprio perché presentano molteplici punti di convergenza con il nostro oggetto di analisi. La ricostruzione che abbiamo cercato di fare ha fatto emergere inoltre due questioni che rimangono particolarmente scoperte e poco approfondite se non dalla letteratura divulgativa: in primo luogo la fragilità della riflessione sui processi e le dinamiche che portano le donne vissute in accoglienza a divenire parte attiva all’interno dei servi di contrasto al trafficking. In seconda battuta risulta esigua anche l’attenzione rivolta verso gli effetti reali che l’azione di questa particolare categoria provoca non solo verso le altre donne trafficate, ma anche nei confronti della comunità più estesa; riteniamo, dunque, che occorre partire da questi due punti nevralgici per sviluppare il nostro progetto di ricerca. Prima di addentrarci

nell’esplorazione del lavoro condotto sul campo, vogliamo dedicare uno spazio alle categorie sociologiche che possono esserci di aiuto per inquadrare al meglio l’oggetto che desideriamo studiare: le pagine successive saranno dunque dedicate a questo intento.