3. Dalla devianza all’ empowerment
3.4 Empowerment
3.4.1 L’empowerment nel lavoro sociale
Se l’empowerment coincide con il processo che porta le persone a liberare le proprie potenzialità con l’intento di porre fine al legame di dipendenza e costrizione vissuto in relazione a gruppi sociali terzi, all’interno delle politiche e professioni sociali diviene “il processo di riequilibratura e accrescimento del potere personale, interpersonale e politico che i cosiddetti “utenti dei servizi” o le comunità locali nel loro complesso, possono attivamente ricercare con o senza aiuti esterni, per migliorare la loro condizione di vita”
(Folgheraiter, 2004, p. 37). All’interno delle pratiche sociali diviene soprattutto un approccio e una metodologia di lavoro con le persone grazie alle quali i professionisti cercano di attivare percorsi di empowerment per fare in modo che gli utenti possano sperimentare il “potere di controllo” sulle proprie vite. Come si diceva poc’anzi, è a questo livello che si colloca il paradosso inerente alla relazione tra esperti e beneficiari di interventi: ad esso gli operatori sociali hanno cercato di rispondere avvalendosi
inizialmente del concetto di empowerment secondo un’accezione anti-oppressiva legata particolarmente al community work e al lavoro con i gruppi. Per comprendere meglio a che cosa ci si riferisce quando parliamo di pratica anti-oppressiva è bene portare in luce i due approcci che hanno storicamente adottato le politiche sociali e di welfare nei confronti dei cosiddetti bisognosi. Da sempre gli individui con minor risorse o privi di tutele sono stati considerati da quanti operano nel sociale come i principali responsabili della propria condizione e per questo necessitanti interventi di tipo correttivo, spesso attuati all’insegna della beneficenza (Sennet, 2009). Il risultato di queste forme di azioni è stato quello di produrre ancora più dipendenza e impoverimento nelle persone che accedevano ai servizi stessi. Parallelamente a questo primo modus operandi, ne è emerso un secondo che ha iniziato a considerare le condizioni in cui versavano gli utenti come l’effetto di una pessima organizzazione sociale o l’esito di politiche ingiuste che facilitavano, seppur non in maniera intenzionale, la divaricazione già presente tra classi socio-economiche differenti. I promotori di questi approcci hanno cercato di esplorare a fondo le radici dei problemi ricercandole anche nelle strutture sociali; lo sforzo è andato anche nella direzione di promuovere cambiamenti politici al fine di migliorare le opportunità che l’ambiente metteva a disposizione delle persone fragili o con particolari bisogni. All’interno del lavoro sociale, le origini dell’empowerment rientrano in questo secondo approccio, quando con l’inizio del nuovo secolo, negli Stati Uniti d’America iniziavano a configurarsi scenari nuovi che necessitavano strategie d’intervento alternative. Come ricorda Sennett (2009) infatti in seguito ai processi di industrializzazione, ai grandi flussi migratori e alla conseguente urbanizzazione del Paese, la nuova classe sociale che si andava a delineare si doveva confrontare con sistemi abitativi, sanitari e assicurativi inadeguati, assenza di tutela per lavori spesso con un rendimento minimo, ma particolarmente rischiosi senza contare l’enorme difficoltà di integrazione sociale che si trovava a vivere. È proprio in questo momento che nasce la spinta da parte di coloro che erano impegnati nella tutela delle fasce più fragili della popolazione a trovare nuove strategie per “lavorare con” e non “su” le persone più in difficoltà: lo sforzo andava nella direzione di rafforzare il loro senso di competenza, autoefficacia e di responsabilità per la promozione del benessere non solo individuale, ma anche collettivo. Gli operatori che si riconoscevano in questo modo di agire, capace di passare attraverso il riconoscimento e il “rispetto” nobilitante verso l’altro (Sennett, 2009), erano fermamente convinti del fatto che dovevano accompagnare le persone in difficoltà nella rivendicazione di diritti e opportunità con i mezzi messi a disposizioni dagli apparati della democrazia. Questa filosofia di intendere il servizio
sociale si è trovata fin da subito pronta ad abbracciare i valori dell’uguaglianza e dell’equità così come quelli della collaborazione comunitaria e della mobilitazione collettiva, tutti chiaramente riconoscibili alla base dell’empowerment – come ampiamente illustrato in apertura al paragrafo. Nel tempo si è lentamente assistito a un cambiamento degli orientamenti di questi primi “riformatori sociali”: non c’era più solamente il desiderio di provocare cambiamenti socio-politici, ma anche culturali perfino all’interno dei servizi sociali stessi e dei corpi sociali intermedi. Il tentativo era infatti quello di provare a modificare gli atteggiamenti giudicanti e stigmatizzanti che si generavano anche all’interno degli stessi servizi socio-assistenziali e che avevano l’effetto di provocare un’ulteriore vittimizzazione delle persone maggiormente fragili.
Questa filosofia “anti-oppressiva” è stata quindi trasportata e rimodulata nel tempo all’interno della quotidianità dell’agire sociale anche grazie alle suggestioni lanciate dalla concezione liberistica del post-welfare state (Donati & Folgheraiter, 1999) e dal pensiero relazionale di Donati (2009). Negli anni ‘80 dello scorso secolo accanto alla concezione dell’empowerment come pratica anti-oppressiva si è sviluppato infatti un nuovo approccio liberistico al costrutto che trae le sue ragioni nella decostruzione delle corporazioni sociali e dei servizi di welfare state in opposizione alla rivalutazione del potere del consumatore e della sua libertà di scelta all’interno del mercato. In linea con questo nuovo approccio la meta inizia a diventare il rafforzamento dell’utente in quanto “libero consumatore”.
Chiaramente si tratta di un’interpretazione completamente alternativa del concetto, portata avanti soprattutto dai governi conservatori e guardata con particolare scetticismo dai precedenti riformatori sociali. Questi ultimi, infatti, accusano di aver ridotto l’empowerment a una concezione individualistica in cui le relazioni sociali sono ristrette al mero livello interpersonale, nascondendo invece l’influenza esercitata dalle più ampie forze politico-sociali in campo. Il disappunto è legato al fatto che il “concetto cardine dei movimenti rivoluzionari degli anni Sessanta [si è trasformato] a bandiera della Destra per la liberazione dell’individuo attraverso le libere forze del mercato, le quali [oppongono]
allo Stato oppressivo la creatività (il potere) della libera iniziativa individuale”
(Folgheraiter, 2006, p. 41). Un’ultima, ma non meno importante criticità dell’approccio liberistico dell’empowerment concerne la sovrapposizione tra il coinvolgimento della popolazione e la semplice consultazione: con questo si intende il fatto che il protagonismo dei cittadini caldeggiato nelle pratiche anti-oppressive viene ridotto, per l’appunto, alla semplice consultazione per le decisioni tecniche-amministrative dove a ben vedere le persone hanno poche possibilità di effettivo controllo e influenza. Proprio per questo
motivo le accuse verso la concezione liberistica sono andate nella direzione di denunciare che dietro all’apparente positività dell’utilizzo del concetto ci sia il tentativo di giustificare lo smembramento dello Stato socio-assistenziale.
Accanto a queste due principali approcci all’empowerment emersi nel campo dei servizi sociali, è possibile intravederne un terzo sviluppato anche grazie alle intuizioni del pensiero relazionale di Donati (2009). Collocandosi come una “terza via” tra le due polarità, l’empowerment è stato definito, secondo un’accezione maggiormente
“relazionale” (Folgheraither, 2006) come possibilità di trasferire il potere di cura ai diretti e principali interlocutori dei servizi per evitare di essere considerati come materiale da plasmare attraverso la forza dei detentori del sapere professionale. La logica sottostante questo approccio è la visione dei beneficiari non più come meri consumatori di servizi, ma al contrario dei veri e propri prosumers ovvero soggetti in grado essi stessi di contribuire all’erogazione di beni se non materiali, relazionali. Come ricorda Folgheraiter (2006) questa “postura” sociale è quanto emerge, in particolare, dalla fenomenologia post-moderna che interpreta la professione di aiuto non tanto come la supremazia dei saperi e delle competenze specialistiche, ma piuttosto come un avanzamento incerto verso la ricerca della migliore soluzione possibile in condivisione con tutti gli attori coinvolti nel problema. Detto diversamente tutte le parti sociali, beneficiari diretti, cittadini, operatori professionisti, care giver devono esercitare una “flessibilità di ruolo” al fine di uscire dalla propria posizione sociale per sposare una modalità di interazione maggiormente orizzontale verso il raggiungimento di un benessere condiviso. In questo modo gli “utenti”
riconosciuti come portatori di saperi non tanto professionali, ma esperienziali possono anche essi divenire “operatori”, sentendosi autorizzati e legittimati ad occupare un Ruolo Sociale, direbbe Archer (2003), prima personificato da altri. Ecco dunque che in questo modo è possibile uscire dal famoso quarto paradosso presentato nelle righe precedenti e innescare un circolo virtuoso in cui tutti i soggetti possono esprimere inventiva e responsabilità non solo nei confronti di sé stessi, ma anche verso tutte le altre parti co-implicate in questo processo di crescita collettivo. È evidente che, all’interno di questa logica, coloro che sono i detentori del sapere “curativo”, “professionale” devono essere disposti a rinunciare al proprio potere, talvolta narcisistico e gelosamente custodito, per consegnarlo nelle mani di tutti coloro che compartecipano alla rete e che, in un tempo precedente, erano tendenzialmente pronti ad accettare passivamente le indicazioni e soluzioni fornite “dall’alto”. In un certo senso è come se gli utenti scomparissero proprio perché finalmente considerati e riconosciuti come “agenti” pronti a mettere in atto tutte
quelle azioni che solitamente sono ad appannaggio delle figure già empowered. Gli esperti devono fare in modo che gli interessati possano “agire”, incentivando il loro operare, il loro decidere con l’obiettivo di poter attivamente compartecipare alla definizione del personale percorso di emancipazione e di rivendicazione dei propri diritti. La filosofia alla base è che i professionisti non hanno il mandato di “empowerizzare” le persone, ma piuttosto creare le condizioni affinché esse possano esprimere il proprio punto di vista, in primo luogo rispetto alla propria condizione di vita. Allo stesso tempo i professionisti sono chiamati a pensarsi all’interno di una dinamica di co-apprendimento in cui anche essi imparano dai detentori del sapere esperienziale modalità relazionali nuove, punti di vista alternativi, strumenti di attivazione da poter rigiocare in altri setting o con altre persone. Lo sforzo da parte degli operatori è di abbandonare “concezioni paternalistiche e assistenzialistiche, [alimentati dalla] subdola idea che i problemi sociali abbiano soluzioni oggettive e migliori e che queste vadano comunque imposte, in omaggio a un presunto dovere di impiantare nel mondo la felice perfezione della razionalità oggettiva”
(Fogheraiter, 2006, p. 45). L’approccio relazionale invita, infatti, a non pensare che il potere debba essere considerato solamente all’interno di una logica “o – o” tale per cui se l’operatore cede il proprio all’utente rimane senza di esso, ma che al contrario è proprio dall’assunzione di una simmetria relazionale che anche il professionista stesso può ricevere nuovi beni, assenti prima dell’interazione avuta con “l’utente”. Se il potere non viene solamente ceduto, ma anche intrecciato, contaminato e condiviso allora è possibile un suo sviluppo generativo. Desiderando mettere in relazione quanto appena esposto con le riflessioni di Archer rispetto alla modalità con cui gli Agenti Corporati facilitano la
“liberazione” degli Agenti Primari, occorre mettere in evidenza come la “pressione” a cui fa riferimento la sociologa assume in questo caso una sfumatura leggermente differente.
Non si tratta infatti di convincere gli agenti primari all’interno di un gioco di forze in cui ancora una volta si verrebbe a creare una situazione di “imposizione di potere”, ma al contrario presentarsi ad essi come leve propositive di cambiamento possibile attuabile solamente con la compartecipazione di tutte le parti in campo, soprattutto quelle appartenenti ai gruppi con minor possibilità di azione. L’unico modo che gli agenti corporati hanno di acquisire nuove adesioni è cedere e condividere il proprio potere al fine di creare alleanze per la “lotta” verso una causa comune: un aspetto che ci sembra particolarmente centrale per mettere a fuoco in che modo le donne precedentemente trafficate della nostra ricerca arrivino a impegnarsi in enti che lavorano per contrastare il
medesimo fenomeno di sfruttamento condividendo con “gli esperti” il loro sapere esperienziale.
Desiderando concludere questo capitolo, prima di addentrarci nella presentazione del lavoro di ricerca condotto sul campo, ci sembra importante ripercorrere brevemente i passaggi logici effettuati anche alla luce del fenomeno che vogliamo indagare. Nei capitoli iniziali abbiamo, infatti, messo a fuoco in primis il problema della tratta e in seconda battuta gli scenari che si configurano nel periodo successivo all’uscita dal sex trafficking.
A tal proposito abbiamo dedicato particolare attenzione alla categoria includente donne affrancate dallo sfruttamento sessuale e operanti in diversi modi nel movimento anti-tratta:
la ragione si deve al fatto che rimane ancora un aspetto poco esplorato da un punto di vista della letteratura scientifica, ma allo stesso tempo di forte rilevanza sociologica perché capace di aprire una riflessione su come avvengono i processi di morfogenesi sociale.
Proprio per tale motivo vogliamo soffermarci su questo particolare tema nell’attuazione del lavoro empirico di ricerca che presenteremo nella successiva parte dell’elaborato. Al fine di meglio descrivere l’oggetto di nostro interesse abbiamo ritenuto importante osservarlo riferendoci ai concetti sociologici presentati in questo terzo capitolo. In questo senso gli studi sulla devianza e in particolare le teorie dell’etichettamento e della stigmatizzazione ci sono di aiuto per comprendere quali siano le dinamiche sociali e d’interazione a cui le vittime della tratta sessuale sono esposte durante il periodo dello sfruttamento, ma anche nella fase di affrancamento dalla tratta. Nonostante le persone non scelgano (quasi mai) liberamente di essere trafficate per scopi sessuali, la socializzazione a un contesto ritenuto socialmente inadeguato le porta ad essere fortemente esposte al giudizio critico e severo degli “altri”. I contributi della Scuola di Chicago così come l’approccio drammaturgico di Goffman ci permettono di cogliere come lo sguardo altrui e la definizione che le persone danno degli “a-normali” sono importanti nella costruzione della propria identità sociale, del proprio modus operandi e dell’evoluzione della propria traiettoria di vita. A tal proposito, infatti, gli studi sulle carriere presentati nel secondo paragrafo offrono rilevanti indicazioni su come studiare le evoluzioni di vita dei (s)oggetti delle nostre ricerche, come quelle che si verificano per le donne “ex-vittime” di tratta impegnate nelle organizzazioni anti-trafficking. In particolare riferendoci a questa particolare categoria di situazione (Betraux, 1998) abbiamo ritenuto fondamentale riferirci alle teorizzazioni di Archer per inquadrare come agenti primari – le persone vittime di trafficking – riescano a organizzarsi in agenti corporati fino a divenire veri e propri attori sociali – soggetti impegnati
consapevolmente nel contrasto alla tratta sessuale. Il percorso che queste donne compiono sembra, infatti, essere caratterizzato dal passaggio da condizione di sottomissione e oppressione verso l’acquisizione di un maggior potere d’azione: per questo motivo abbiamo voluto approfondire il concetto di empowerment collocandolo in continuità con le teorizzazioni di Archer.
Dopo aver ripercorso brevemente il senso della nostra articolazione concettuale alla luce dell’oggetto d’interesse, ci addentreremo nel capitolo successivo nel cuore della ricerca empirica condotta sul campo.