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La scuola come agente di pianificazione linguistica: autonomia e isolamento

Nel documento Il sistema geolingueFVG (pagine 124-136)

PARTE IV - APPLICAZIONE DELLA CARTA

comma 3: esclusione dalla fase di sperimentazione di quelle istituzioni scolastiche che già usino – all’atto dell’entrata in operatività delle norme di legge - anche in via sperimentale una delle lingue

7 IL SETTORE DELL’ISTRUZIONE – DISPOSIZIONI REGIONALI

5.2 Potenzialità e modalità della scuola nel suo ruolo di agente di tutela e valorizzazione

5.2.1 La scuola come agente di pianificazione linguistica: autonomia e isolamento

Nella loro quotidiana pratica insegnanti, dirigenti, referenti scolastici per la LM operano di continuo scelte che si configurano di fatto come atti di pianificazione linguistica: si pensi all’ opportunità di accettare o no lo standard in vigore, di optare per l’insegnamento obbligatorio o facoltativo, di quale cultura rappresentare e insegnare (cultura materiale, cultura tradizionale, cultura «alta»). Gli incontri con i docenti sono stati costellati dal riferimento da parte loro alla necessità di operare in prima persona tali scelte, cercando di fare per il meglio con gli strumenti e le competenze a propria disposizione, cosa che talora provoca un fastidioso senso di responsabilità.

Ma spesso si interpretano tali scelte come pure scelte pedagogiche e didattiche, e solo raramente abbiamo trovato nelle discussioni coscienza del fatto che esse incidono anche sul futuro della LM stessa, sulla forma che assumerà e sulle sue possibilità di sopravvivenza. In realtà, dove tale coscienza traspare, è in negativo, riguarda cioè gli errori (o supposti tali) nelle scelte didattiche e pedagogiche e la paura dei loro effetti; si veda per esempio questo scambio di battute nel gruppo di Pagnacco:

c’è quest’errore di considerare il friulano una lingua morta e allora vai coi «lavori dei nonni» | bisognerebbe valorizzare la lingua attuale | altrimenti è come imparare una lingua straniera e non usarla mai [Pagnacco (Ins)].

Questa assunzione di responsabilità da parte del corpo insegnante è un portato diretto della legge stessa che, come si è visto, attribuisce ai dirigenti scolastici, e qualche volta a singoli insegnanti volonterosi, il compito di prendere decisioni strategiche in merito all’insegnamento della lingua e ai suoi metodi.. L’insegnamento della lingua minoritaria è dunque spesso diventato l’ambito privilegiato del singolo insegnante o di un gruppo di appassionati e c’è nel corpo docente una rivendicazione forte di questa autonomia, un senso di indipendenza che si è forgiato, per così dire, in anni di battaglie appassionate e di faticosa costruzione di un personale approccio all’insegnamento della LM. Tutto questo lascia ben poco spazio all’intrusione di soggetti estranei, siano essi lo Stato (indicativa in questo senso l’asserzione più volte ribadita da molte comunità «noi abbiamo incominciato a lavorare ancor prima del 1999») o le autorità locali.

Con altri enti che in qualche modo fanno pianificazione linguistica sul territorio (comuni che lavorano alla toponomastica bilingue, sportelli linguistici, commissioni per la normalizzazione della lingua) ci possono talvolta essere conflitti e politiche mutualmente contraddittorie. Si noti anche a quest’ultimo proposito che, salvo poche eccezioni, il rapporto con gli sportelli linguistici è molto conflittuale e non mancano le stereotipizzazioni velenose del neolaureato messo lì un po’ in parcheggio e che si fa saccente portavoce di una lingua sentita come estranea:

ci sarebbe lo sportello linguistico, ma è solo un carrozzone, una porcheria [Arzana (Ins)]; il comprensorio è una macchina mangiasoldi | un ente politico [Pozza (Gen)].

Che queste rappresentazioni siano fedeli o no, importa poco quello che è chiaro è il rifiuto da parte dei docenti e dei genitori di concedere autorevolezza a tali enti. Maggiore credito viene riconosciuto all’Università, percepita anche come super partes e libera da condizionamenti provenienti da parti politiche che si sono di recente impossessate della tematica delle lingue minoritarie: così come libera da condizionamenti si percepisce e si vuole presentare anche la scuola nel suo approccio alla tutela e valorizzazione delle minoranze:

All’Università ci si rivolge per ottenere un appoggio autorevole, consigli e consulenze specifiche sugli argomenti più vari (dal modo di trascrivere gli etnotesti raccolti dai ragazzi al parere sull’uso dello standard) e soprattutto, per la formazione degli insegnanti.

D’altra parte però questa ostentata rivendicazione di autonomia da parte degli insegnanti non riesce a nascondere dubbi, paure e un forte senso di inadeguatezza rispetto al compito immane che si prospetta. Nei collages abbondano le immagini di pareti impervie e verticali, spesso affrontate in solitaria o di difficili equilibrismi: certo in questa rappresentazione gioca una sorta di visione mitica del compito educativo e dei suoi paladini, ma il senso di solitudine e l’ansia sono palpabili. Aumenta ulteriormente il senso di ansia la netta percezione, che abbiamo già sottolineata, di essere ad una svolta cruciale, di avere di fronte l’ultima occasione: qualsiasi errore rischia di essere fatale.

Al di là della ostentata autonomia, gli insegnanti si rendono ben conto che la scuola non può assumersi in toto il compito di «salvare la lingua» sostituendosi alla famiglia, alla società e persino alla politica:

Per svolgere bene il suo compito la scuola ha bisogno di un contesto favorevole, così come di sviluppare sinergie con gli altri attori culturali e sociali del territorio, anche perché solo un territorio vivace dal punto di vista dell’uso e della tutela della LM dà senso e garantisce consenso all’insegnamento scolastico della stessa. Sono dunque bene accetti tutti i legami con le altre istituzioni culturali e sociali del territorio, biblioteche, musei, comunità montane, piccole realtà industriali purché, beninteso, non pretendano di dire la loro su quello che si insegna a scuola.

Capitolo settimo Conclusioni

Trovare linee comuni nell’apparente grande diversità in cui si trovano le situazioni di minoranza nell’Italia attuale è sempre stato uno dei Leitmotiv della presente ricerca; è forse dunque utile richiamare qui brevemente i criteri che ci hanno guidato nell’accorpare e nel classificare le diverse realtà.

1. Anzitutto, dal punto di vista sociolinguistico, praticamente tutte le LM da noi approfondite si trovano nella condizione di essere dialetto: ossia, nella situazione di essere percepite come tali, al di là dei nomi che vengono utilizzati per indicarle, dagli stessi membri della comunità parlante. Dialetto in questo caso significa codice intrinsecamente subordinato ad un altro sul territorio, adatto – sempre al di là delle affermazioni di principio – semmai alla conversazione ordinaria e probabilmente in lenta decadenza. Tuttavia alcuni di questi «dialetti» trovano poi un tetto in lingue nazionali esterne al territorio della Repubblica (francese, tedesco, sloveno, croato, catalano, albanese ed eventualmente greco) o in standard relativamente più forti rispetto alle varietà immediatamente territoriali (in questa condizione si trova il solo ladino); di contro, l’occitano, il sardo e il friulano dispongono sì di uno standard ufficiale, ma questo ha poca presa sull’attività reale delle Scuole e dell’Amministrazione Pubblica

2. È opportuno distinguere LM regionali da LM locali: nel primo caso, che comprende essenzialmente sardo e friulano, abbiamo a che fare con «dialetti locali» della LM, il che influenza tutta la percezione della lingua e del suo insegnamento; queste sono considerate come semplici varianti nel caso del friulano.

3. Un’altra distinzione interessante è tra lingue «territoriali» e lingue «personali»: nel primo caso il territorio entra a essere parte dell’identità, talora allo stesso livello gerarchico della lingua (è per esempio inconcepibile un patoisant valdostano che parli italiano, ma è perfettamente possibile sentirsi sardi senza parlare il sardo). Le lingue «personali» sono tipiche delle comunità più frammentate.

4. Specificamente linguistica è poi la differenziazione tra repertori di LM diglottici o dilalici: nel primo caso la lingua è ancora stabilmente parlata nei contesti informali e non c’è competizione in questo senso con l’italiano, nel secondo caso è ampiamente possibile, all’interno stesso della comunità, esprimersi in italiano anche nelle situazioni meno linguisticamente sorvegliate.

5. Un ulteriore parametro distintivo, che si riconosce in particolare dall’analisi dei progetti e dalla considerazione, ancorché parziale, dei materiali didattici, è quello fra comunità la cui classe intellettuale e docente è un qualche modo strutturata (o coordinata) e comunità in cui questo non avviene: nel primo caso abbiamo più probabilmente proposte di reti fra scuole, proposta più abbondante di progetti specificamente linguistici, con impiego di personale interno e produzione di materiali didattici duraturi (questi ultimi possono addirittura esser etero prodotti da agenzie esterne quali Province, Regioni o coordinamenti diversi); caratteristiche queste che si ritrovano in minor misura nelle comunità la cui classe intellettuale è più frammentata localmente.

I cinque parametri possono naturalmente incrociarsi per descrivere un’ampia casistica di situazioni, che vanno dalla lingua di piccola minoranza e di uso esclusivamente locale, minacciata nella sua stessa funzione di codice della conversazione ordinaria da varietà in concorrenza e i cui parlanti si riducono in maniera molto netta di generazione in generazione, alla grande lingua di cultura internazionale presente come varietà ufficiale e amministrativa sul territorio.

In particolare le operazioni di tutela messe in atto dalle comunità e che possono essere alle comunità suggerite devono tenere conto di questa molteplice differenziazione: per far solo un esempio, le comunità diglottiche possono supportare un uso veicolare della lingua nella scuola molto più ampio e più duraturo (ancorché, come si è visto e si vedrà, limitato alle scuole primarie e talvolta conflittuale con gli standard scritti regionali); quelle dilaliche sembrano invece necessitare spesso di lezioni formali di lingua.

Al di là tuttavia delle differenze tra le minoranze, ovvie, e dei loro possibili raggruppamenti in serie omogenee, meno scontati, è importante rilevare una marcata continuità di temi di fondo che percorre tutto il vissuto sociale e soprattutto scolastico relativo alla LM. Vale la pena di partire proprio dalle caratteristiche della legge 482/99, percepita dagli operatori come intrinsecamente legata all’autonomia scolastica, anzi strumento di questa autonomia.

Le soluzioni che sono di volta in volta trovate dalle singole scuole e dalle singole comunità sono sempre, riteniamo, una sorta di compromesso – talora molto buono –

tra le esigenze di valorizzazione della LM e le condizioni della società nella quale gli operatori lavorano.

Si pensi per esempio al netto decremento di progetti proposti relativi alla salvaguardia specificamente della lingua avvenuto tra il 2004 e il 2008: tra le spiegazioni accennate vi era quella di una partenza forse troppo avanzata rispetto alle condizioni di «approfondimento linguistico» della minoranza, seguita da un ripensamento più in sintonia con le esigenze del territorio.

Ma qui sta anche un elemento di debolezza abbastanza spiccato: proprio il fatto che il livello decisionale è posto dalla legge piuttosto in basso (i progetti li propongono, quando non sono in rete, i Dirigenti scolastici al livello più alto, o i responsabili per le lingue delle singole scuole, o i singoli insegnanti) diminuisce notevolmente l’autorevolezza e la presa sulla comunità dei progetti stessi.

I genitori e la società percepiscono molto nettamente questa sorta di dispersione territoriale, organizzativa e temporale dei progetti (la scuola X fa a e contemporaneamente, presso la stessa minoranza e in condizioni estremamente simili, la scuola Y fa b) e ciò va a deciso detrimento del prestigio dei progetti stessi. Questo porta ad una situazione abbastanza curiosa, ma diremmo generalizzata, secondo cui paradossalmente gli insegnanti sono in un certo senso nelle mani dei genitori, ossia della comunità adulta che fa riferimento alla scuola. È al gradimento in ultima analisi dei genitori che si guarda spesso quando si decide di lanciare un progetto: una loro eventuale passività, o peggio ostilità, si ripercuoterebbe in maniera molto seccante se non dannosa sui rapporti tra la scuola il suo territorio, e in ultima analisi sull’organizzazione della scuola stessa.

Da qui, talora, si generano proposte molto poco ambiziose, o pedagogicamente poco centrate, o esplicitamente rivolte al passato, o in cui la lingua è chiaramente accessoria alle attività ludiche e così via: l’importante, in queste occasioni, sembra essere il buon andamento «oliato» e senza contrasti tra la scuola e la società civile cui fa riferimento. Forse, come già si notava, questo meccanismo è in parte responsabile della crescita, negli anni successivi al 2004, di progetti incentrati sulla cultura più che sulla lingua.

Vale la pena anche solo di accennare che dal punto di vista di una buona pianificazione linguistica che guarda al futuro i destinatari finali delle operazioni dovrebbero essere gli studenti e non i genitori. Certo questo vuole però anche dire che, nella pratica, questo sistema mimetico ha anche permesso l’ingresso di un «dialetto», ossia di un codice che magari fino a pochissimi anni prima era esplicitamente osteggiato dalla generazione di mezzo, nelle aule scolastiche.

La conflittualità delle comunità rispetto ai progetti è stata infatti bassissima: ci sono stati riportati assai pochi elementi di rifiuto, cosa che a priori non poteva esser considerata scontata.

Tra i pochi punti fissi rispetto ai quali la società non ha seguito la scuola c’è il momento in cui cessare con il «gioco della minoranza», ossia con le attività in

LM: come già osservato, vanno bene le elementari, ma alle medie si deve cominciare a studiare sul serio.

Ora, l’impressione è che questo sistema legato al finanziamento di singoli progetti ha funzionato benissimo come primo intervento d’emergenza sul terreno. Continuerà a farlo ancora per un po’, ma – almeno su un piano ideale – le comunità sembrano pronte a un superamento di questa fase.

Sembra delinearsi un modello possibile in cui le comunità sono tese a incrementare, nella costruzione e valutazione dei progetti, il rapporto con gli altri enti territoriali come musei, biblioteche, comunità montane, osservatori linguistici e culturali, enti per la cura del territorio e così via.

Questo è vero soprattutto per le minoranze del settentrione; nelle comunità del centro-sud questi rapporti sono per il momento più deboli. Altro tratto che accomuna le situazioni indagate e che si evince dalla considerazione dei gruppi non meno che dei progetti è la forte sensazione iniziale di «sbaraglio» da parte di insegnanti e dirigenti; con qualche evidente eccezione, in Valle d’Aosta come in Trentino, come nelle scuole slovene della Venezia Giulia, ma generalmente da tutti condivisa.

Il lavoro, anche questo è un tratto comune, è stato davvero impegnativo e totalizzante: c’era (e c’è spesso ancora, d’altra parte) da inventarsi letteralmente programmi, testi, valutazioni, modi di insegnamento, materiali e così via.

Ogni scuola e ogni comunità ha reagito in maniera diversa e con priorità diverse, e questo contribuisce fortemente all’impressione parecchio eterogenea che si ha del panorama degli insegnamenti di LM nella Penisola.

Gli insegnanti e i dirigenti hanno fatto fronte a questa difficile situazione; tanto che adesso, a distanza di dieci anni, si sono create una serie di competenze e di abilità personali che difficilmente potrebbero essere messe in discussione da eventuali direzioni centrali uniformatrici. E questo, mentre da un lato testimonia della flessibilità e dell’intelligenza con cui si è inventato da zero un insieme di pratiche pedagogiche per l’insegnamento di LM, dall’altro potrebbe rivelarsi un problema nel caso si decidesse di «prendere in mano» la situazione a livello più alto, instaurando quei programmi comuni e richiedendo quelle competenze condivise utili per la migliore prosecuzione del lavoro che il MIUR ha svolto in questi anni rispetto alla legge 482/99.

La situazione attuale, confermata anche dal tipo di progetti proposti per l’approvazione, è quella di una forte autonomia; che da una parte spaventa e fa sentire soli ma dall’altra responsabilizza e infonde entusiasmo: molto difficilmente si sarebbe ora disposti a rimettere in discussione tutta la fatica fatta – si badi, ciascuno singolarmente e ciascuno nel proprio per così dire orticello – nei dieci anni passati, in cui si è giunti dal niente alla situazione attuale, che è comunque una conquista. I progetti in rete indicano tuttavia che la strada per una maggiore compattezza dell’offerta formativa legata alle lingue di minoranza è aperta e utilmente percorribile: la messa in comune delle proprie esperienze, nel caso di rete fra minoranze diverse, ma più ancora il coordinamento che è sotteso a reti interne

ad una stessa lingua di minoranza è sicuramente un punto di arrivo da cui ulteriormente ripartire. Reti molto strutturate, in grado di prendere decisioni cogenti per tutti i partecipanti non sono solo un modo per ottimizzare i tempi, ma diventano un’opportunità per offrire una didattica più uniforme e coerente sul territorio e per questo percepita come meno arbitraria e velleitaria dai genitori, e più appetibile per collaborazioni con altri enti territoriali.

Lo sconcerto non è tuttavia l’unica sensazione non gradevole che testimoniano gli insegnanti.

In più di una situazione domina un notevole senso di precarietà; e questa dipende da una serie di fattori anche diversi ma che tutto sommato si accentrano intorno a una variabile fondamentale: c’è una grossa differenza se la legge 482/99 è l’unica fonte di finanziamento e l’unico pilastro a cui si agganciano le attività di rivitalizzazione della LM, oppure se altre entità sono coinvolte in questa operazione, entità che possono rappresentare una sorta di «rete di sicurezza» che protegga dal progressivo venir meno dei finanziamenti e più ancora da tagli e cessazioni improvvise. Particolarmente citati sono in questo rispetto sono la Provincia Autonoma di Trento e la Regione Autonoma Valle d’Aosta.

Quanto alle minoranze che per il lavoro sulla lingua e sulla cultura possono basarsi soltanto sull’appoggio della 482/99, in loro prevale una sorta di sindrome da inganno: di fatto la legge non ha creato nuovi posti di lavoro; le nuove ore e le nuove forme di lezione sono appannaggio o di docenti interni o di esperti esterni che non vengono poi coinvolti nella normale attività scolastica.

Negli anni i fondi totali si sono molto ridotti, e questo ha spesso costretto talora a veri e propri passi indietro, a riduzioni di ampiezza e ambizione delle attività proposte e immaginate.

Non sono talora i preventivi dei progetti presentati al Ministero a diminuire, quanto la quantità di offerta formativa prevista per la somma richiesta: una costante diminuzione della percentuale finanziata per progetto ha spinto molte realtà a mantenere le stesse richieste economiche, tagliando sul contenuto.

D’altra parte, anche in questo caso la collaborazione e il senso del dovere della maggior parte degli insegnanti è molto alta: in più di un’occasione è stato chiaro che una politica volta a finanziare, a parità di risorse, meno progetti, ma più a lungo e più esaustivamente sarebbe tollerata delle scuole, disposte ad aspettare il loro turno se sanno che possono contare su un finanziamento importante e durevole basato su una proposta di vera qualità. E questo in particolare se, anche in vista di un aumento del prestigio della lingua presso gli studenti – di cui si è a lungo parlato sopra – questo orientamento si accompagnasse alla volontà di dare preferenza a progetti che utilizzino principalmente le risorse umane interne alla scuola. L’«esperto», in sostanza, può servire per interventi puntuali, ma è la scuola che deve farsi carico dell’insegnamento della LM nella sua totalità, in particolare,

quando possibile e quando tollerato dalla società civile, proponendo attività in orario scolastico.

D’altra parte, come già ampiamente argomentato, la formazione del personale interno – e dunque, per quello che qui ci concerne – la sua valorizzazione, assume il valore di un parametro che si correla positivamente con tutta una serie di caratteristiche desiderabili per il buon risultato di una proposta di apprendimento di LM; proprio le relazioni più forti (ossia tra la formazione degli insegnanti e il puntare alla produzione di prodotti culturali duraturi e all’implementazione della competenza linguistica) evidenziano una struttura compatta di fattori utili a intensificare l’efficienza potenziale dell’insegnamento scolastico della LM all’interno dell’offerta didattica.

La scuola – ossia il luogo istituzionale in cui si trasmette il sapere codificato di una certa società in modo da preparare cittadini consapevoli e pronti ad affrontare richieste sempre più complesse, e a un tempo portatori dei valori e del progetto di società che sono stati inculcati loro – è un momento fondamentale della vita linguistica di una comunità. Di conseguenza, una delle attività di pianificazione linguistica più delicate (oltre che più praticate) è la regolamentazione della lingua della scuola.

La legge 482/99 entra in modo diretto in questa dinamica.

Inoltre, proprio riguardo al fondamentale contesto scolastico, la legge stessa tocca uno dei nodi fondamentali della riflessione teorica sul language planning: il nesso lingua-cultura, e questo si riflette molto bene nelle diverse tipologie dei progetti presentati al MIUR.

Ora, il testo normativo prevede che le attività di sostegno alla lingua e quella di recupero culturale siano sostanzialmente coincidenti. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, questo legame, peraltro del tutto naturale, è, per come appare dalla letteratura specifica ambiguo.

In particolare il problema si pone per quanto riguarda il polo «cultura»: qual è,

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