II. Le edizioni critiche principali
2. A NALISI D EI V ERSI 1-
2.7. Il secondo κιθαρισμός e la fuga di Sileno (vv 203 220)
L'eccitazione della caccia si dissolve improvvisamente a causa di un nuovo
κιθαρισμός. Cessano all'istante i fischi di Sileno e i vari κελεύσματα direttivi,
lasciando il posto al terrore che spingerà il vecchio satiro ad abbandonare la scena,
lasciando solamente i figli ad adempiere il compito prefissato. La brusca rottura
dell'atmosfera gioiosa, scandita, a livello metrico, dal passaggio del coro dal metro
lirico al trimetro, emerge in modo chiaro dal “πά̣τερ, τί σι̣γᾷς;” del v. 203, domanda
proferita dai satiri stupiti dall'inaspettato silenzio del padre. Se il coro si riferisse
all'interruzione improvvisa delle esortazioni o dei fischi non è molto chiaro; la
questione presenta delle problematiche difficili da risolvere che riguardano anche la
spartizione dei versi del passo lirico precedente.
441In ogni caso, ciò che possiamo
affermare con certezza è che nel successivo scambio di battute tra il coro e Sileno si
assiste a una delle scene più comiche del dramma. L'immagine del corifeo sconfitto
viene estremamente ridicolizzata a causa del repentino rovesciamento di punti di
vista che vede il nostro personaggio assumere lo stesso atteggiamento che poco
prima aveva rimproverato ai satiri e fuggire via a gambe levate, rinunciando così ai
premi di libertà e oro tanto ambiti. Codardia e ipocrisia intimamente nascoste dalla
fiera esternazione di coraggio mostrata in precedenza, adesso emergono
chiaramente, completando la caratterizzazione di un Sileno sempre più incoerente. I
satiri, al contrario, non rivelano la minima preoccupazione nell'udire per la seconda
volta il suono della lira, anzi è proprio la loro compostezza che contrasta con la
mancanza di raziocinio del padre. Il cambio di prospettiva a cui si assiste vede il
coro in una posizione di supremazia rispetto ad un Sileno soccombente e
ammutolito. L'ironico πά̣τερ, τί σι̣γᾷς;, espressione di una vendetta puntuale, fa eco
al borioso τ[ί...] σιγ ᾶτ' del v. 135, ⸤
⸥
con cui i satiri erano stati redarguiti dopo la
manifestazione del primo κιθαρισμός. La derisione a cui è soggetto il nostro
vigliacco corifeo sarebbe culminata nell'abbandono frettoloso della scena. Dopo la
sua dipartita, il coro, rimasto solo e arrivato nel frattempo davanti alla grotta di
441 V. infra.Cillene, avrebbe fatto così tanto baccano da provocare l'ingresso della ninfa,
personaggio che avrebbe fornito loro preziose informazioni sull'identità del ladro.
La differente ed erronea distribuzione delle battute del v. 205 ha alimentato
l'ipotesi, peraltro insostenibile, che il vecchio satiro non si allontanasse dalla scena,
ma rimanesse fino all'entrata di Cillene (v. 220). Fu Hunt,
442seguito da
Wilamowitz,
443il promotore di questa teoria, che, a causa delle paragraphoi presenti
prima e dopo il passo lirico dei vv. 213-15, attribuisce i vv. 210-12 e i vv. 217-20 a
Sileno e i vv. 206-09 al coro, modificando, di conseguenza, l'assetto offerto dal
papiro del v. 205, da Hunt diviso tra due personaggi piuttosto che nei tre dello
scriba. Per essere più chiari, il v. 205 presenta in antilabè tre cambi di interlocutore
per cui all'ἔα̣
444e all'οὐ μενῶ di Sileno si contrapporrebbe il τί ἐσ̣τ̣ι̣ν; e il μέν’, ε[ἰ]
θέλεις del coro. I versi seguenti (206-09) sarebbero da attribuire di nuovo al vecchio
satiro che esprimerebbe la sua intenzione di fuggire dalla scena.
Hunt, invece, sorvolando sulla prima paragraphos, considera ἔα̣ e τί ἐσ̣τ̣ι̣ν; come
appartenenti ad un solo personaggio, in questo caso Sileno e assegna, quindi, οὐ
μενῶ al coro. Tale divisione di versi, del tutto ingiustificata, rivoluziona l'intera
scena perché non sarebbe il coro ad incoraggiare il padre a rimanere insieme a loro e
ad allontanare la paura per il misterioso ψόφος, ma quest'ultimo che, invece di
lasciare l'orchestra, resterebbe fino all'entrata della ninfa.
445Pearson
446ha dimostrato la vacuità delle affermazioni di Hunt con
considerazioni pienamente condivisibili. In primo luogo, la mancata uscita di scena
di Sileno eliminerebbe l'effetto comico basato sulla baldanza vanagloriosa del
personaggio, motivo su cui sembra essere fondata questa sezione. Inoltre, se ad
essere sconvolto fosse nuovamente il coro, si ripeterebbe in maniera sciatta la stessa
scena del primo κιθαρισμός. Tale soluzione risulta, dunque, decisamente immotivata
oltre che mancante di logica scenica. Le domande dei satiri “πάτερ, τί σιγᾷς; μῶν
ἀληθ[ὲς εἴπομεν;/ οὐ[κ ε]ἰσακο[ύε]ις; ἦ κεκώφη[σαι” dei vv. 203-04 non si
spiegherebbero se fossero questi ultimi ad essere nuovamente spaventati. Ci
aspetteremmo, al contrario, il loro silenzio più assoluto o, in generale, un
442 Hunt 1912, 49-51, 76.443 Wilamowitz 1912, 459.
444 Si consideri che Hunt non legge ἔα̣, ma σί[γα].
445 Wilamowitz (in Hunt, 1912, 79) addirittura postula che Sileno si trattenga ancora di più, prendendo parte al dialogo con Cillene.
comportamento simile a quello della prima fase della caccia (cfr. e.g. v. 135: τ[ί …..
σιγ]ᾶτ᾽, ὦ πρ[ὸ τοῦ λαλίστ]ατοι;). Il tono ironico dei quesiti del coro suggerisce che
ad essere spaventato è in realtà Sileno che, udendo il suono della lira per la prima
volta, ne è terrorizzato. Di conseguenza, un'uscita di scena del coro sarebbe priva di
coerenza rispetto alla loro manifestazione di coraggio e alla presa in giro nei
confronti del padre, la cui dipartita dopo l'apparizione di Cillene non sarebbe,
peraltro, né segnalata a testo, né motivata.
Riguardo alla diversa considerazione delle paragraphoi, c'è da sottolineare come
il cambio di interlocutore tra ἔα̣ e τί ἐσ̣τ̣ι̣ν; sia sicuramente più plausibile rispetto a
quello precedente e successivo ai vv. 213-16. Quest'ultima segnalazione dello scriba
è stata vista da Pearson come un tentativo consapevole di indicare il passaggio dai
trimetri ai versi lirici, distinguendo metricamente una sezione che vedrebbe sempre
il coro come protagonista. Non è escluso, tuttavia, che tali paragraphoi siano erronee
dal momento che sviste del genere sono state riconosciute anche in altri passi del
nostro dramma.
447In ogni caso, per i motivi addotti sopra, un'uscita di scena di
Sileno anticipata al v. 210 pare essere molto probabile. Anche a prescindere dalla
disposizione delle paragraphoi, è stato sottolineato da Maas
448come l'attore che
interpretava il vecchio satiro doveva inevitabilmente eclissarsi per affrontare in
seguito il ruolo di Hermes o addirittura quello di Cillene. Il suo rientro in scena è da
collocare molto più avanti, verosimilmente al v. 458, sulla base di un Σ poco
leggibile individuato come l'iniziale del nome di Sileno. Il nostro corifeo avrebbe
lasciato ai suoi figli la parte più faticosa, ossia la ricerca delle tracce e la scoperta
dell'identità del ladro, riapparendo solamente alla fine con l'intenzione di
accaparrarsi ugualmente i premi promesso da Apollo. Questa ipotesi scenica non è
da sottovalutare, dal momento che sarebbe conforme alla natura egoistica e
opportunista del personaggio. L'ingresso di Apollo al v. 451, precedente di pochi
versi quello del vecchio satiro, potrebbe essere una spia di un probabile dialogo tra i
due, di cui però non abbiamo certezza a causa della lacuna finale del papiro.
La lunga assenza dall'azione del nostro personaggio è stata oggetto di
discussione e ha portato all'ipotesi per cui Sileno, nel dramma satiresco, fosse un
corifeo autentico, in grado, però, di uscire e rientrare in scena con ampia libertà. Al
447 Cfr. e.g. v. 74.suo posto doveva entrare, secondo Sutton, un sostituto nel ruolo di sotto-corifeo,
capace di guidare il coro fino all'ingresso della grotta di Cillene.
449Il triplo cambio di interlocutore, concentrato in un unico verso, riprende quel
ritmo frenetico che era stato caratteristico della seconda fase della caccia,
evidenziando ancora di più il contrasto con la precedente pausa di silenzio, vista
come un breve momento di stallo. La concitazione dell'antilabè è motivata dalla
paura di Sileno, espressa chiaramente dapprima con l'esclamazione ἔα̣ e dal seguente
οὐ μενῶ che rivela una certa fretta nel fuggire dalla scena.
450L'impossibilità di
trattenersi ulteriormente è chiarita da οὐκ ἔστιν (v. 206), espressione ellittica e
diretta che fa pensare ad una sua provenienza dal linguaggio colloquiale. Il suo
impiego in passi dialogici ci dà conferma di tale natura.
451Questa situazione comica rimanda a specifici passi della commedia, in cui
l'espediente dell'antilabè serve a marcare un'urgenza specifica, spesso accompagnata
da ridicoli e veloci movimenti scenici. È il caso, ad esempio di Aristoph. Plut. 439-
44: οὗτος τί δρᾷς; ὦ δειλότατον σὺ θηρίον / οὐ παραμενεῖς; - ἥκιστα πάντων. - ὀὐ
μενεῖς;.../ στῆθ᾽, ἀντιβολῶ σε, στῆθι./ μὰ Δί᾽ ἐγὼ μὲν οὔ, e di Av. 354-56: τοῦτ᾽
ἐκεῖνo. Ποῖ φύγω δύστηνος; - οὗτος οὐ μενεῖς;/ ἵν᾽ ὑπὸ τούτων διαφορηθῶ; -πῶς γὰρ
ἂν τούτους δοκεῖς/ ἐκφυγεῖν; - οὐκ οἶδ᾽ ὅπως ἄν. - ἀλλ' ἐγώ τοί σοι λέγω. Anche nel
Ciclope ritroviamo un uso simile delle antilabai : ai vv. 680-86, nel momento in cui i
satiri distraggono il cieco Polifemo per far scappare Ulisse e i suoi compagni e ai vv.
558-60 e 565, durante la famosa scena del vino che vede protagonisti Sileno e
Polifemo.
452La seconda parte del v. 206 è stata ricostruita grazie ad un'annotazione inserita a
margine dal revisore. Hunt
453ha esplicitato la sequenza ]θ̣οπηιδυναι βε
λI ]’οπηιθελεισ in ταῦ]θ’ὅπῃ δύνᾳ <·> βέλ(τιον) I ταῦθ]’ὅπῃ θέλεις. La sua ipotesi è
che originariamente la lezione a testo fosse ὅπῃ δύνᾳ e che solo in seguito fosse stata
449 Sutton 1980, 140.450 Abbiamo già incontrato ἔα (probabilmente iterata) al v. 100, atta ad esprimere la concitazione del coro durante la prima fase della caccia (v. infra). In questo contesto, invece Sileno non pronuncerebbe l'interiezione come segno di eccitazione e smania quanto come sintomo di sorpresa di fronte ad una nuova situazione non positiva.
451 Cfr. e.g. Eur. Alc. 539, Hipp. 893, Med. 814, 1404, Aristoph. Ach. 1032, Pl. Phlb. 60e, Resp. 335c.
452 Si consideri che tra i poeti tragici solamente Sofocle fa uso di tre antilabai in un solo verso (cfr. e.g. Phil. 753, OC. 539, 546), mentre in Euripide se ne trovano al massimo due (cfr. Cycl. 682, Alc. 391, 1119, Her. 1418, 1420). Eschilo invece generalmente evita questo espediente.
corretta dalla seconda mano in ὅπῃ θέλεις. Ciò viene desunto, però, da
un'interpretazione soggettiva della suddetta nota, che porta lo studioso ad inserire
arbitrariamente un punto in alto tra δύνᾳ e βέλ(τιον), segno che nel papiro non è
presente.
454Siegmann
455offre invece una visione diversa poiché legge ταῦ]θ’ὅπῃ
δύνᾳ βέλ(τιον) [τοῦ ταῦθ]’ὅπῃ θέλεις. Il corpo del testo avrebbe ospitato ὅπῃ θέλεις,
ma il revisore avrebbe preferito ὅπῃ δύνᾳ forse per evitare la ripetizione dello stesso
verbo del verso precedente. È noto, tuttavia, che gli antichi non avevano la nostra
stessa ritrosia nei confronti dell'iterazione di uno stesso termine nell'arco di poche
righe e tale effetto non era per nulla sgradevole dal loro punto di vista. Anzi, la
ripetizione della stessa forma verbale in due versi consecutivi, potrebbe suggerire,
come propone sempre Siegmann,
456un tentativo voluto e consapevole di Sofocle di
porre in evidenza la battuta ironica dei satiri del v. 205 attraverso la sua ripresa da
parte di Sileno che avrebbe fatto eco al verbo θέλεις con un tono più preoccupato e
serio. Merita di essere citata anche un'importante considerazione di Pearson
457secondo cui il verbo δύναμαι è spesso usato come glossa di θέλω in contesti simili al
nostro (cfr. e.g. schol. Aesch. Pers. 177: θέλῃ· ἀντὶ τοῦ δύνηται, schol. Aristoph. Av.
581: οὐκ ἐθελήσει· ἀντὶ τοῦ οὐ δυνήσεται).
458La questione controversa ha diviso
nettamente gli studiosi tra le due proposte di Hunt e di Siegmann, lasciando nel
dubbio altri, come Diggle,
459incerti su quale lezione accogliere. Ὅπῃ θέλεις resta
comunque una soluzione allettante, sia per il botta e risposta comico che creerebbe
con l'eco repentino di Sileno del v. 206, sia perché il significato pare essere più
appropriato in questa situazione. Il pubblico avrebbe subito notato la diversità di
tono con cui il secondo θέλεις sarebbe stato pronunciato dal vecchio satiro
desideroso di dileguarsi. D'altro canto, l'uso del verbo θέλω al posto di δύναμαι si
adatterebbe maggiormente alla vaghezza e all'indifferenza espresse da Sileno al
momento del suo addio. “Cerca e fiuta come preferisci” esprime appieno questa
indefinitezza, legata ad un'azione di cui quest'ultimo non ha più intenzione di
454 Wilamowitz (in app. Hunt 1912, 76) si spinge ancora oltre, influenzando Hunt a modificare anche il μέν', ε[ἰ] θέλεις del verso precedente in μέν', ε[ἰ] <δύνᾳ>, sicuro di offrire una migliore resa rispetto all' οὐκ ἔστιν immediatamente successivo.455 Siegmann 1941, 72.
456 Ibidem.
457 Pearson 1917, 251. 458 Ibidem (per altri esempi). 459 Diggle 1998, 54.
occuparsi. Di contro, “cerca e fiuta come puoi” si soffermerebbe maggiormente
sull'intensità della ricerca e sulla fiducia riposta nell'impegno dei satiri, che se da un
lato può sembrare un ulteriore incoraggiamento, dall'altro rifletterebbe la sempre più
ricorrente natura egoistica di un personaggio codardo che non agisce per poi godere
del risultato delle fatiche altrui.
460Un riferimento all'imminente ricchezza di cui avrebbero goduto i satiri in caso di
successo si ha subito dopo con ζήτει τε κἀξίχνευε̣ καὶ πλού[τ, in quello che ad alcuni
è parso un tricolon enfatico simile ai vv. 149-50 (ἄνευρα κἀκ̣όμιστα κἀν̣ε[λε]ύθερα/
διακονοῦντες). La lacuna finale del v. 207 lascia un πλου[ in sospeso che da Hunt è
stato interpretato come un πλού[τει, completato dal λαβών congetturato da
Wilamowitz e riferito a τὰς βοῦς τ̣ε κα[ὶ] τὸν χρυσὸν (v. 208).
461Distaccandosi
dall'idea della successione di tre verbi consecutivi, Radt
462opta invece per πλού[του
κράτει o πλού[του γέμε, scorgendo nella parola lacunosa un sostantivo piuttosto che
un verbo. Qualunque sia la soluzione migliore, è chiaro che proprio in questo
momento Sileno, prima di congedarsi, accenna alla ricompensa pattuita con Apollo,
apparentemente con la volontà di non prenderne più parte, risoluto com'è a lasciare
definitivamente il campo di caccia. Questa immagine sarebbe stata di grande effetto
comico se, al v. 458, dopo l'entrata di Apollo, Sileno si fosse ripresentato in scena,
cercando di accaparrarsi lo stesso i premi che il dio era in procinto di consegnare ai
satiri, ora che il mistero delle vacche rubate era stato risolto e il segreto del suono
misterioso era stato svelato.
463Un atteggiamento del genere, sarebbe stato
sicuramente consono all'indole del nostro buffo personaggio.
Le sue ultime parole (v. 209) non sono facilmente ricostruibili. Grazie al μὴ
πλεῖστ[ον] ἔτι proposto da Hunt
464e generalmente adottato dagli editori, che si
legherebbe al χρόνον della fine del verso, è fondata l'idea che Sileno abbia reso
manifesta la propria volontà di non perdere ulteriormente tempo. La sua impazienza
460 Non è da sottovalutare l'ipotesi di Antonopoulos (2010, 329) secondo cui ὅπῃ non andrebbe tradotto come avverbio di modo o maniera, ma come avverbio di luogo (“dove”) poiché dipendente da verbi di moto come ἐξιχνεύω e ζητέω. Se così fosse, tale uso potrebbe essere un'ulteriore prova della guida di Sileno che, giunto ora al punto di abbandonare la scena, depone il ruolo di cacciatore, lasciando i figli liberi di spostarsi e fiutare nel luogo che preferiscono, senza l'ausilio di fischi ed eventuali incitamenti.461 Hunt 1912, 49, 76. Wilamowitz (cfr. Hunt 1912, 76) 462 Radt 1977, 289.
463 Cfr. Siegmann 1941, 71. 464 Hunt 1912, 49.
nel dileguarsi doveva anche essere espressa dal progressivo ed impacciato
avvicinarsi verso l'uscita, mentre il coro cercava invano di convincerlo a rimanere al
suo fianco.
L'avversativa ἀλλά (v. 210) introduce l'estremo tentativo dei satiri, desiderosi,
invece, di voler andare fino in fondo per scoprire finalmente chi fosse l'artefice di
quel suono così strano. Tracce di questa loro intenzione si hanno nelle poche parole
riconoscibili all'interno della sequenza molto frammentaria che riguarda i vv. 210-
16. Oltre all' ἀλλ᾽ οὔ τι μ[ con cui il coro prende la parola, si ha, al verso seguente,
ἐξυπε̣λθ[εῖ]ν, un hapax legomenon connesso, secondo Pearson, alla predilezione di
Sofocle nei confronti dei composti verbali con ἐκ-.
465Quest'ultimo prefisso indica
un'azione che prevede un allontanamento dal luogo di partenza, mentre l' ὑπό-
seguente dà l'idea di qualcosa di subdolo e nascosto. Il doppio prefisso assolve ad
una funzione chiarificatrice del senso del verbo principale. Sileno, a cui ἐξυπε̣λθ[εῖ]ν
pare essere riferito, se la starebbe “svignando”, ritirandosi dall'impegno assunto. Di
significato molto simile è il composto ὑπεξέρχεσθαι in cui l'ordine dei prefissi
risulta invertito.
466Data la maggiore frequenza di quest'ultimo, Hunt ha pensato che
il nostro ἐξυπέρχομαι fosse la forma poetica equivalente e più rara. Il motivo della
trasposizione di ἐκ- e ὑπό- è stato spiegato sia da ragioni metriche che rendevano
necessaria la sequenza di una vocale lunga seguita da una breve (– ⏑) invece della
successione ⏑ – , sia dall'enfasi voluta sul prefisso ἐκ- che, posto in rilievo, avrebbe
sottolineato il dileguarsi di Sileno, sia dalla già citata inclinazione di Sofocle per
l'uso di composti con tale prefisso, spesso affiancati da altri.
467Il canto lirico astrofico a cui si abbandona il coro, rimasto ormai unico
protagonista della scena, è di appena tre versi, purtroppo molto mutili. Il metro non è
ricostruibile se non fosse per l'ultimo verso che con ]όμοισιν ὀλβίσῃς lascia supporre
la presenza di giambi.
468Le paragraphoi che incorniciano questa sezione sembrano
ingiustificate, poiché, in base all'analisi condotta in precedenza, non si avrebbe qui
un cambio di interlocutore, quanto un semplice passaggio dal trimetro ai metri lirici,
465 Cfr. Pearson (1917, 252) che cita, a proposito, il verbo ἐξεπομβρῶν del fr. 524.4.466 Cfr. e.g. Eur. Phoen. 1465: ὑπεξῆλθ' Ἀντιγόνη στρατοῦ δίχα, Thuc. VI.51.2: ὡς εἶδον τὸ στράτευμα ἔνδον, εὐθὺς περιδεεῖς γενόμενοι ὑπεξῆλθον, Plut. Ages. 3.2.: τῆς Λακεδαίμονος Ἀλκιβιάδης ὑπεξῆλθε, φοβηθεὶς τὸν Ἆγιν.
467 Cfr. Pearson 1917, 252. Cfr. e.g. ἐξεφίεσθαι (Aj. 795), ἐκπροτιμᾶν (Ant. 913), ἐξεπεύχεσθαι (Phil. 668), ἐξανευρίσκειν (Phil. 991), ἐξαποφθείρειν (Trach. 713).
evidenziato dallo scriba in maniera anomala.
469Come la maggior parte degli interventi dei satiri, questo breve passo lirico è
introdotto dall'interiezione ἰ̣ὼ che, secondo Hunt, inaugura “an ineffective summons
to the occupant of the cave”.
470A causa sua della frammentarietà, tutte le
informazioni che riusciamo a ricavare da questa sezione sono legate ad una
congettura basata su un'annotazione marginale.
Al v. 214 si intravede uno φθεγ[ che è stato ricostruito dalla maggior parte degli
editori con φθέγ̣ μ' ἀφύσεις , a fronte del ⸤
⸥
φθ̣εγ̣γ̣μααφυσ[.]ις aggiunto da P
2al
margine destro.
471Il problema principale di tale integrazione è che il verbo ἀφύειν
mal si adatta al significato di φθέγμα. Il primo, infatti, vuol dire “attingere” ed è
usato prevalentemente in riferimento a liquidi (cfr. e.g. Il. I. 598: νέκταρ ἀπὸ
κρητῆρος ἀφύσσων, Il. I. 170-7: οὐδέ σ᾽ ὀΐω ἐνθάδ᾽ ἄτιμος ἐὼν ἄφενος καὶ πλοῦτον
ἀφύξειν, Eur. IA. 1051-52: ἄφυσσε λοιβὰν/ ἐν κρατήρων γυάλοις). Il sostantivo
seguente, invece, indica propriamente la voce o, in generale, un'emissione di suono.
La mancata affinità tra i due vocaboli e l'assenza di paralleli hanno portato Pearson
ad intravedere in γλώσσαν ἐκχέας in Soph. fr. 929.3 una possibile prova a favore di
tale accoppiamento.
472Anche Maltese salva questa “nuova iunctura”
riconoscendone, allo stesso modo, un'analogia con χέω φωνήν, espressione
riscontrata in Od. XIX, 521, Nonn. Dion. 4.140, 23.78, 29.107.
473Tuttavia, il paragone tra i due verbi in questione non è dei più appropriati. Essi
descrivono due procedure differenti e hanno un significato opposto: ἀφύειν, infatti, è
il contrario di χεέιν “versare”. Quest'ultimo, allargandosi semanticamente fino a
comprendere l'accezione di “spargere/emettere”, è facilmente applicabile a sostantivi
quali voci o suoni che si espandono. È per questo motivo che il verbo χέω si trova
spesso accompagnato da termini quali φωνή, γλώσσα, αὐδή (e.g. Hes. Sc. 396),
φθόγγος (e.g. Aesch. Sept. 73) e θρῆνος (e.g. Pind. I. 8. 58). Diversa è la situazione
per ἀφύειν il cui senso non si presta ad adattamenti di questo tipo.
469 V. supra.
470 Hunt 1912, 76. Per l'esclamazione ἰώ cfr. vv. 88, 176.
471 Il doppio Γ che presenta la parola φθέγμα nella suddetta annotazione non è una novità per il nostro scriba che anzi usa molto spesso questa forma ai vv. 114, 260, 284, 299, 328. Tuttavia, resta preferibile la variante con un solo Γ.
472 Cfr. Pearson 1917, 252. 473 Maltese 1982, 86.
Le alternative φθέγμ’ ἀφήσεις e ἀπύσεις proposte da Vollgraff
474hanno riscosso
un discreto successo, essenzialmente perché si accordano meglio al significato di
φθέγμα rispetto all'inconsueto ἀφύσεις. Molto spesso, infatti, i due verbi assumono
la traduzione di “emettere” e affiancano sostantivi di campo semantico affine a voce,
suono o parola. Per il primo verbo in questione possono essere citati molti esempi,
475ma vale la pena riportarne solamente due che testimoniano la possibilità di accordo
con il sostantivo φθέγμα: Ael. NA. XV. 27: φθέγμα ἀφιέντες ed Eus. ad Il. XI, 441.
τὸ ὦ ὄψ φθέγμα (scil. ἐστὶ) τῶν ἀφιέντων τινὰς ἅμα τρέχειν. Anche per ἀπύειν,
forma dorica di ἠπύειν, abbiamo numerose ricorrenze, ad esempio in Aesch. Pers.
122: ἔπος...ἀπύων, Nonn. Dion. 41.251: ἤπυε φωνήν, Eur. Hec. 154-55: οἲ ἐγὼ
μελέα, τί ποτ᾽ ἀπύσω;/ ποίαν ἀχώ, ποῖον ὀδυρμόν..;, Suppl. 798-801: στεναγμόν,.../
ἀύσατ᾽ ἀπύσατ᾽ ἀντίφων᾽ ἐμῶν/ στεναγμάτων κλύουσαι, Mosch. Eur. 124: μέλος
ἠπύοντες, sebbene manchi una sua concordanza con il nostro sostantivo.
476La suddetta analisi verte a favore di ἀφίημι, unico verbo, tra i due analizzati, a
presentarsi insieme a φθέγμα. Tuttavia, la posizione di ἀπύειν (ἠπύειν) può essere
rivalutata se si pensa alla difficoltà che poteva aver avuto il revisore nell'interpretare
una forma poco comune e per di più dorica. Ciò lo avrebbe indotto ad annotare a
margine le due parole φθέγγμα αφύσ[ε]ις, per la probabile confusione derivata dalla
prima Φ di φθέγγμα e forse dalla scriptio continua in cui mancava la segnalazione
dell'elisione (φθεγγμαπυσεισ). È interessante notare, altresì, che ἠπύειν, in un passo
dell'Odissea, indica il “risuonare” della lira: XVII. 270-71: ἐν δέ τε φόρμιγξ/ ἠπύει,
ἣν ἄρα δαιτὶ θεοὶ ποίησαν ἑταίρην. Sorge il dubbio, a questo punto, che si assista ad
uno degli artifici retorici propri dell'arte sofoclea che ha nel gioco di parole uno dei
suoi punti fondamentali. I satiri potrebbero aver inconsapevolmente utilizzato un
verbo che, nel raggio dei suoi possibili significati, si adatterebbe sia ad un suono
generico che alla specifica melodia della lira. Solo il pubblico avrebbe colto tale
ambiguità, vedendo nell'accoppiamento di ἀπύειν e φθέγμα una chiara allusione al
nuovo strumento musicale, ancora ignoto al coro.
Vani tentativi di ricostruzione hanno riguardato i vv. 215-16, da cui non si riesce
a trarre, purtroppo, nessuna informazione utile. L'unica parola leggibile più o meno
474 Vollgraff 1914, 89.475 Cfr. e.g. Eur. Hipp. 418: φθογγὴν ἀφῇ;, v. 991: γλῶσσάν μ᾽ ἀφεῖναι, Phoen. v. 1440: φωνὴν μὲν οὐκ ἀφῆκεν,Soph. OC. 731: μήτ᾽ ἀφῆτ᾽ ἔπος.