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ANCHE L'EUROPA CONDANNA LA TORTURA

3.2. Inutilizzabilità delle prove assunte in violazione del''art.3 CEDU.

3.2.1. La sentenza Gafgen c Germania

Il fatto oggetto della sentenza Gafgen c. Germania del 2010 ha fatto molto discutere, avendo forti ripercussioni sia in ambito giuridico che “etico” e costituendo base essenziale per i futuri lineamenti dettati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. La Corte, peraltro, ha modificato con sentenza definitiva della Grande Camera del 2010, la decisione emanata nel 2008. Il caso trae origine da un ricorso (n.22978/05) presentato dal cittadino tedesco Magnus Gafgen alla Corte EDU, contro la Repubblica Federale di Germania, in virtù dell'art.34 della Convenzione, con il quale lamentava la violazione dell'art.3 CEDU: il ricorrente affermava di essere stato sottoposto a tortura mentre veniva interrogato dalla polizia su dove si trovasse il bambino da lui rapito. Il fatto oggetto della sentenza riguarda, infatti, il rapimento a scopo di estorsione e l'uccisione di un ragazzino di 11 anni, figlio di noti banchieri del luogo e fratello di una conoscente del rapitore (in quanto entrambi studenti di giurisprudenza nella stessa

facoltà). Oltre a ciò, il ricorrente lamentava la violazione della norma sul diritto ad un equo processo ex art.6 CEDU, in quanto gli elementi di prova utilizzati e posti alla base della condanna, erano stati ottenuti attraverso una confessione a lui estorta ed erano, pertanto, lesivi dei diritto a non incriminare se stessi206.

Il fatto: il 27 settembre 2002 il ricorrente attirava il bambino J. nel suo appartamento a Francoforte sul Meno fingendo che la sorella vi avesse lasciato una giacca, poi lo soffocava. Successivamente lasciava una lettera nel luogo di residenza dei genitori del piccolo, in cui affermava che era stato rapito da varie persone, le quali lo avrebbero rilasciato solo a seguito del pagamento di un milione di euro e nel caso in cui i rapitori fossero riusciti a lasciare il paese in sicurezza. Il ricorrente raggiungeva, invece, in auto uno stagno di una proprietà privata vicino Birstein, ad un'ora di macchina da Francoforte, dove lasciava il corpo morto del bambino sotto un pontile dello stesso. Egli in seguito raccoglieva il riscatto presso una stazione dei tram, da quel momento veniva segretamente osservato dalla polizia: versava parte del riscatto sul proprio conto e nascondeva il restante denaro all'interno dell'appartamento in cui viveva. Quello stesso pomeriggio la polizia lo arrestava all'aeroporto di Francoforte sul Meno e lo conduceva al quartier generale del luogo, dove veniva informato dall'ispettore M. di essere sospettato di aver rapito il bambino. Veniva, quindi, interrogato con l'obbiettivo di trovare il bambino ma affermava che questo si trovava detenuto da altre due persone presso una capanna sul lago; i poliziotti decidevano allora di sospendere l'interrogatorio. La mattina seguente si presentava in sostituzione di M, l'ispettore E, il quale, agendo su ordine del vice capo della polizia D., minacciava il

206 Sentenza consultabile al sito www.echr.coe.it , Grande Camera, 1 giugno 2010, ricorso n. 22978/05.

ricorrente che se non avesse rivelato dove si trovava il bambino gli sarebbero state procurate notevoli sofferenze ad opera di figure esperte. Il ricorrente lamentava anche di essere stato minacciato di abusi sessuali compiuti da due uomini neri (che il governò negò). L'ispettore lo colpiva poi sul petto con la mano, agitandolo fino a che la sua testa colpiva il muro.

Dopo soli dieci minuti di interrogatorio, il ricorrente, terrorizzato dalle minacce di tortura, riferiva il preciso luogo in cui si trovava il bambino. La polizia individuava così il corpo nel punto da lui indicato, rilevando anche i segni di pneumatico lasciati dalla macchina del ricorrente presso lo stagno. Sulla via del ritorno veniva quindi interrogato dall'ispettore M. e in quell'occasione confessava di aver rapito e ucciso il bambino J. Successivamente la polizia rinveniva in un container indicato dallo stesso sulla via del ritorno, il libro di esercizi di scuola del piccolo, uno zaino, gli abiti che indossava il giorno della scomparsa e la macchina con cui aveva scritto la lettera di riscatto. I poliziotti trovavano, inoltre, all'interno dell'appartamento del ricorrente, gran parte della somma di denaro versata per il riscatto e un appunto sul disegno criminoso. Nel frattempo l'autopsia accertava la morte del bambino per soffocamento.

Successivamente, il vice capo della polizia di Francoforte D. affermava in una nota, che per salvare la vita del bambino, il quale si sarebbe trovato in serio pericolo se fosse stato ancora vivo, gli era stato ordinato di far procedere l'interrogatorio a opera dell'ispettore E., il quale avrebbe solo minacciato il ricorrente di sofferenze non letali, senza il rilascio di ferite e alla presenza di un medico. Nella nota si affermava con precisione che scopo dell'interrogatorio era esclusivamente quello di salvare la vita al bambino, e non di portare avanti il procedimento. Dato che subito dopo la minaccia il ricorrente

procedeva con la confessione, non seguivano altre misure; inoltre ripeteva, dopo, la confessione di fronte alla polizia e successivamente al procuratore e ad un giudice della corte distrettuale.

Il primo giorno di udienza di fronte alla corte regionale, al contrario, il ricorrente presentava istanza di interruzione del procedimento, affermando di essere stato sottoposto a minacce e abusi sessuali da parte dell'ispettore E. su ordine del vicecapo della polizia M., sostenendo, quindi, la violazione dell'art.136a207 codice di procedura penale tedesco e l'art.3 della CEDU: sollevava inoltre questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art.1 della Legge Fondamentale tedesca che tutela la dignità umana. Affermava, inoltre, la inutilizzabilità di tutti gli elementi di prova (anche corpo del bambino), raccolti dal momento della minaccia in poi, in quanto “Fortwirkung”, frutti dell'albero velenoso208: poiché raccolti solo a seguito delle dichiarazioni estorte e quindi contrari all'art.136a codice procedura penale tedesco. La corte regionale rigettava l'istanza di interruzione del procedimento, ritenendo sussistente la violazione dell'art. 136A, ma escludendo una compressione dei diritti di difesa tale da interrompere il processo. Tuttavia, mentre le dichiarazioni successive alla minaccia non potevano essere utilizzate come prova ai fini del processo, in quanto frutti dell'albero velenoso, tutti gli altri elementi, acquisiti successivamente, quali il corpo del bambino, non

207 Art. 136a codice procedura penale tedesco recita << La libertà della determinazione e della manifestazione del volere dell'incolpato non deve essere pregiudicata con maltrattamenti, stanchezza, attacchi corporali, tormenti, inganno, o ipnosi. […] la minaccia di misure non consentite dalle sue disposizioni e la promessa di vantaggi non previsti dalla legge sono proibite.// Non sono consentite misure che pregiudichino il patrimonio mnemonico o le capacità di accorgimento dell'incolpato. Dichiarazioni poste in essere con violazione di questo divieto non possono essere utilizzate neanche se l'incolpato vi acconsente>>.

208 Teoria dei frutti dell'albero avvelenato: in generale, si intende la teoria secondo cui le prove ottenute mediante un atto illegittimo e tutto ciò che ne consegue non possono essere ammesse all'interno del processo.

venivano ritenuti tali, sulla base di un bilanciamento tra l'ingerenza avvenuta nei diritti fondamentali dell'imputato e il crimine di cui accusato, tale per cui l'esclusione delle prove note a seguito delle dichiarazioni dell'accusato (come la scoperta del corpo e i risultati dell'autopsia) appariva sproporzionata.

Nel secondo giorno di udienza di fronte alla corte regionale di Francoforte sul Meno il ricorrente affermava in un primo momento di aver ucciso il bambino senza, però, averlo pianificato; successivamente, alla fine del processo (dopo che gli erano state esposte le prove a carico) affermava, invece, di aver agito con quell'intento.

La corte emanava, quindi, sentenza di condanna all'ergastolo affermando che il ricorrente all'udienza era stato avvisato nuovamente del suo diritto di rimanere in silenzio e del fatto che tutte le dichiarazioni precedentemente rilasciate non potevano essere utilizzate contro di lui nel processo. Il ricorrente, tuttavia, confessava di nuovo di aver rapito e ucciso il bambino.

La corte ritenne che durante l'interrogatorio erano stati usati metodi violenti affermando la necessità di aprire un procedimento penale a carico del vice capo della polizia e dell'ispettore, tuttavia le loro eventuali azioni illegali non attenuavano la colpa del ricorrente. Il procedimento si concludeva, quindi, a carico di E. con la condanna per coercizione nell'esercizio delle sue funzioni, con l'imposizione di un'ammenda, consistente nel pagamento giornaliero di sessanta euro per sessanta giorni (che avrebbe dovuto pagare se avesse commesso un altro crimine durante il periodo di sospensione condizionale della pena), e con la condanna di D. per istigazione a commettere un abuso di coercizione, accompagnata dall'imposizione del pagamento

giornaliero di una pena pecuniaria di centoventi euro per novanta giorni con beneficio di sospensione.

Il ricorrente proponeva appello alla sentenza di primo grado ma la corte federale di giustizia confermava la decisione, ribadendo che la corte regionale vi aveva posto a base la piena confessione resa in processo, dopo che era stato informato sull'inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni.

Similmente, la corte costituzionale rigettava la richiesta, abbracciando la visione secondo cui, sebbene i metodi di indagine utilizzati fossero vietati, non andavano a pregiudicare l'equità del processo in generale, poiché la lesione di un diritto fondamentale nella fase investigativa non poteva influire sull'equità del dibattimento.

Una volta esauriti tutti i ricorsi interni, il signor Gafgen si rivolgeva alla Corte europea dei diritti dell'uomo, lamentando la violazione dell'art.3, nella specie di tortura, e dell'art. 6 della Convenzione. Dopo aver ribadito i principi generali da essa adottati nel suo operare e la portate assoluta del divieto contenuto nell'art.3, considerato uno dei valori più importanti delle società democratiche, sottolinea che, in considerazione del divieto assoluto di trattamento contrario all'art.3, a prescindere della condotta della persona coinvolta persino nel caso di emergenza pubblica che minacci la vita della nazione e, quindi, a

fortiori di un individuo, il divieto di maltrattamento di una persona

finalizzato ad estorcere informazioni si applica a prescindere dalle ragioni per le quali le autorità intendono estorcere una dichiarazione: sia che si tratti di salvare la vita di una persona sia di procedere con le indagini. Inoltre, il trattamento ricevuto doveva essere stato causa di notevole sofferenza come dimostrato dal fatto che l'indagato aveva proceduto con la confessione.

La Corte ritenne che, data la durata limitata dell'interrogatorio di soli dieci minuti e la non messa in pratica delle minacce esposte, il comportamento posto in essere dai funzionari di polizia doveva considerarsi trattamento inumano e non tortura.

In merito alla perdita o meno dello status di vittima ai sensi della Convenzione, la corte si espresse affermando che la condanna da parte degli agenti di polizia, in quanto rilevava la contrarietà dei metodi utilizzati alla Convenzione e alla normativa interna, fosse sufficiente a riconoscere il ricorrente quale vittima dei trattamenti subiti e a prevenire nel futuro la possibile commissione di pratiche simili. Pertanto, non ritenne sussistente la qualifica di vittima di una violazione dell'art.3 CEDU.

In relazione alla violazione della norma sull'equo processo ex art.6 CEDU, la Corte ha riaffermato, innanzitutto, come il diritto al silenzio e a non auto-incriminarsi siano standard internazionali posti alla base della nozione di equo processo e, successivamente, che la valutazione in ordine alla equità sia da farsi nel complesso del procedimento, tenendo conto del rispetto dei diritti di difesa, in particolare all'opportunità del ricorrente di contestare l'autenticità delle prove e di opporsi al loro utilizzo. Non rientra, infatti, nelle competenze della corte determinare se particolari tipi di prove siano da ritenersi ammissibili, operando invece una valutazione sulla generale equità del procedimento.

Nel caso di specie ha quindi valutato il trattamento inumano, che ha condotto alla prima confessione e la violazione del principio nemo

tenetur se detegere, che aveva permesso il reperimento di materiali di

prova reali. La Corte affermava, dunque, che la confessione resa dal ricorrente durante le fasi delle indagini gli era stata estorta tramite

trattamenti inumani, in violazione dell'art.3 CEDU, tuttavia il primo giorno di udienza la corte regionale aveva affermato l'inutilizzabilità della confessione così estorta e di tutte quelle successive poiché in contrasto anche con l'art.136a codice procedura penale tedesco. Non risultava, però, nessun elemento che facesse pensare che il ricorrente fosse stato nuovamente minacciato durante il tragitto da e per Bristein, con l'intento di fargli svelare gli altri elementi di prova reali, di modo che non vi si sarebbe verificata nessuna forma di costrizione e di violazione del principio di non auto-incriminazione. Gli elementi rilevati erano, perciò, da considerarsi come risultati indiretti delle dichiarazioni precedentemente rese.

In questo senso, quindi, il caso si distanziava nettamente dalla sentenza

Jalloh c. Germania , in cui gli elementi di prova erano stati ottenuti

direttamente dalla commissione di trattamenti in violazione dell'art. 3 CEDU (la somministrazione forzosa di emetico al fine di far vomitare la sostanza stupefacente al soggetto interessato).

La sentenza di condanna della corte regionale si era invece fondata essenzialmente sulla nuova e completa confessione resa in dibattimento, dopo aver ricevuto gli avvisi qualificati in ordine al diritto al silenzio e a non auto-incriminarsi. Allo stesso modo, la corte di giustizia federale, aveva ritenuto la confessione resa in dibattimento base essenziale per le conclusioni in ordine alla pianificazione del crimine. Le prove materiali rinvenute si ritenevano, pertanto, di natura secondaria e accessoria, utilizzate solo per testare la veridicità della confessione.

In conclusione la Corte, nel valutare l'equità del caso, ritenne che, essendo la confessione estorta ritenuta inutilizzabile da parte delle corti nazionali, avendo lo Stato punito i responsabili penalmente e

avendo avuto, il ricorrente, la possibilità di contestare l'utilizzo delle prove materiali, ritenendo, inoltre, che le prove impugnate fossero indirettamente collegate alla confessione e, quindi, non determinanti per il convincimento del giudice, in quanto la confessione in dibattimento risultava la prova decisiva ai fini della condanna, i diritti di difesa, nel complesso, non furono limitati, pertanto, non riscontrò l'avvenuta violazione della norma sulla tutela dell'equo processo. Sulla base di ciò la corte decise, con sei voti contro uno, che il ricorrente non poteva più affermarsi vittima di una violazione ex art. 3 della convenzione e, sempre per sei voti contro uno, che non vi fu violazione dell'art.6 della Convenzione.

Il giudice Kalaydjieva, unico dissenziente nella decisione, redasse la motivazione della sua opinione, ponendo l'attenzione sulla necessaria distinzione della coercizione finalizzata all'accusa penale, dalle altre forme di maltrattamento, in considerazione degli scopi specifici e del risultato prodotto (un processo iniquo). Secondo il giudice sarebbe stato più opportuno, dal punto di vista di una tutela efficace, apportare rimedi, non solo in ordine al trattamento vietato subito, quali la punizione degli agenti e il risarcimento del danno, ma anche in relazione all'effetto prodotto sull'equità del processo. Scrive, infatti, il giudice che, laddove le prove ottenute con la coercizione sono state utilizzate, la conclusione che il ricorrente abbia perso lo status di vittima solo in conseguenza della condanna penale a carico degli agenti, può essere interpretata nel senso di legittimare la coercizione finalizzata all'assunzione di prove nel procedimento, andando così a giustificare e incoraggiare le violazioni del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti in nome della “giustizia”.

affermato che bilanciare il livello di gravità del trattamento inumano e degradante, con la “pericolosità per la comunità” del crimine compiuto, significava constatare che <<[...] la protezione della sicurezza nazionale giustifica una più rapida accettazione di un rischio di maltrattamento dell'individuo209>>.

Pertanto, accettando che il pagamento di una somma pecuniaria a titolo di risarcimento, come nella sentenza di specie, sia idonea a rimuovere lo status di vittima, significherebbe incoraggiare una politica di “paga e tortura” nei casi più rilevanti210. In casi del genere, il beneficio di assicurare l'arresto del colpevole, risulterebbe certo maggiore rispetto ad un risarcimento pecuniario e la punizione degli agenti. Ad avviso del giudice, inoltre, risulterebbe fallace il ragionamento della Corte, secondo cui la confessione resa in dibattimento risulterebbe la base essenziale ai fini della condanna, mentre le prove reali impugnate e ottenute a seguito della coercizione, risulterebbero di natura accessoria, utilizzate solo per testare la veridicità della confessione. La stessa corte regionale aveva sottolineato l'importanza cruciale della confessione in merito alla esecuzione del crimine, affermando che le prove ottenute indipendentemente da questa, potevano dimostrare solo il reato di rapimento a scopo di estorsione, mentre l'utilizzo delle prove impugnate servivano a supportare le accuse in merito alla premeditazione del reato di omicidio. Il giudice ritiene, pertanto, che il ricorrente sia stato ritenuto responsabile sulla base delle azioni auto- incriminanti fatte sotto coercizione.

Con sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo il primo giugno

209 Sentenza Saadi c. Italia del 22.02.2008 n. 37201/06.

210 Gli agenti della polizia avevano da sempre affermato che l'unico motivo per il quale avevano compiuto le minacce era quello di poter salvare il bambino, ritenendolo ancora vivo. Fecero, tra l'altro, un comunicato stampa per “aggraziarsi”l'opinione pubblica.

2010211, la Grande Camera capovolgeva la precedente conclusione emanata dalla V sezione, ritenendo sussistente lo status di vittima di una violazione dell'art.3 CEDU ai sensi dell'art.34 CEDU212. Affermava che, benché l'indagine fosse stata intrapresa in modo tempestivo (come richiesto ai fini di una adeguata riparazione ex art.41 CEDU213 da parte dello Stato colpevole), la condanna degli autori dei trattamenti inumani risultava inadeguata e manifestamente sproporzionata rispetto alla violazione di un diritto tutelato dalla Convenzione (peraltro condizionalmente sospesa), non risultando idonea ad esplicare un adeguato effetto deterrente verso future infrazioni del divieto. Gli agenti, inoltre non erano stati sospesi ma solo trasferiti e ad oltre tre anni di distanza dalla instaurazione del procedimento amministrativo, volto a ottenere il risarcimento del danno, non si era ancora celebrata alcuna udienza214.

Quanto alla violazione dell'art.6 CEDU, la Corte ha ritenuto che, mentre le prove ottenute in violazione dell'art.3 sub specie tortura risultassero automaticamente lesive dell'art.6, ciò non valeva per i trattamenti qualificati come inumani: in tale ipotesi l'iniquità deve essere valutata in relazione alla influenza sulla condanna. Nel caso in

211 C. eur. Dir. Uomo, grande camera, sent. 1 giugno 2010, pres. Costa, Gafgen c.Germania, in Riv.it.dir.proc.pen. 2010, p.1311.

212 Art.34 CEDU: <<La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto. >>

http://www.echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf

213 Art.41 CEDU: <<Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa>>. http://www.echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf

214 Colella, la giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art.3 CEDU), in Diritto penale contemporaneo

esame la corte non ha preso posizione sulla inutilizzabilità delle prove estorte mediante minaccia di tortura, non ritenendo sussistente il nesso tra metodi di indagine vietati e sentenza di condanna, in quanto questa