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CAPITOLO II DISTRIBUZIONE CINEMATOGRAFICA

2.2 DISTRIBUZIONE

2.2.5 SHADOW ECONOMIES OF CINEMA, LA DISTRIBUZIONE INFORMALE

collaborazione con il British Film Institute, “Shadow Economies of Cinema – Mapping

Informal Film Distribution”, con l’intento di offrire un differente punto di vista e di

pensiero riguardo le innumerevoli pratiche per guardare film che sono parte integrante della vita quotidiana, ma marginali per gli studi cinematografici come disciplina accademica, attraverso un preciso focus sui sistemi informali di circolazione dei film. Pur senza demonizzare i luoghi fisici storici come cinema e multisala dalla loro essenziale carica di principali siti per il consumo culturale, si vuole evidenziare come l’esibizione

theatrical formale associata alle major non sia più l’epicentro della cultura

cinematografica, ma ci si sia indirizzati meglio verso delle shadow economies del cinema attraverso un radicale cambiamento concettuale.

Si parte dal presupposto che un film non sia semplicemente un supporto in pellicola o un disco, ma un artefatto culturale dotato di potenziale trasformativo con la capacità di catalizzare un risveglio etico, nuovi modi di pensare, sentire, agire, cambiare anche nel piccolo ma in maniera ugualmente significativa i modi di comprendere il mondo che ci circonda. Affinché ciò avvenga, è necessario che un film raggiunga audience di riferimento, in altre parole che venga distribuito: la distribuzione quindi, come già affrontato precedentemente in questo capitolo, gioca un ruolo cruciale nella cultura cinematografica determinando quali film è possibile vedere, dove e quando, ma anche quali film non è possibile vedere. Difatti, migliaia di progetti vengono lavorati ogni anno, ma soltanto un numero limitato di questi viene messo a disposizione di un ampio

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pubblico: i distributori, sia formali che informali, determinano quali film vincono e quali perdono nel gioco del consumo culturale (Lobato, 2012).

Lobato (2012) fornisce una definizione più ampia di distribuzione, “the movement of

media through time and space”, che gli permette di aprire lo studio ad una matrice di

canali informali raramente documentati ma che possono (o non) essere classificati come reti distributive dal punto di vista della ricerca e della policy del settore ed è in grado di mettere in primo piano il ruolo degli operatori informali, collocandoli così allo stesso livello analitico delle loro controparti formali. I modelli di distribuzione degli studi cinematografici devono quindi comprendere non solo le major e le case indipendenti, ma anche un'ampia varietà di informal agents, ovvero individui, organizzazioni e pubblici virtuali che operano ai margini o completamente al di fuori dell'industria cinematografica legale.

Nel formulare ciò che tipicamente viene chiamata industria cinematografica internazionale come un tipo di sistema distributivo tra molti altri, Lobato (2012) cerca di sviluppare un vocabolario diverso per l’analisi di questa industria, in grado di rappresentare una gamma più ampia di sistemi e network in varie parti del globo, per osservare come il cinema circola attraverso diversi contesti socio-economici. Non si tratta di un lavoro di confronto tra cinema dominante vs marginale o cinema commerciale vs underground, ma di una distinzione analitica tra distribuzione formale e informale che cerca di ridefinire alcune di queste categorie e riorganizzarle in maniera produttiva. Mentre la formalità si riferisce al grado con cui le industrie sono regolate, misurate e governate da istituzioni statali, i distributori informali sono coloro che operano al di fuori di questa sfera o in una parziale articolazione di essa. Queste premesse sono essenziali per poter dimostrare come il regno della distribuzione informale, lungi dall'essere una forza marginale ai bordi della cultura cinematografica, sia in realtà il motore chiave della distribuzione su scala globale. Le shadow economies emergono dall’interconnessione tra distribuzione formale e informale, due sfere esposte in maniera differente a specifiche dinamiche organizzative, regolamentazioni e misurazioni: mentre la distribuzione

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formale è caratterizzata da modelli di business di compartecipazione alle entrate, sistemi di enumerazione statistica e modelli di rilascio delle finestre guidati da premiere teatrali, la distribuzione informale è prevalentemente non-theatrical e caratterizzata da accordi con strette di mano, vendite forfettarie e pirateria, intesa come forma euristica piuttosto che come campo o categoria chiaramente definito (Lobato, 2012).

C’è poco spazio nei modelli convenzionali degli studi su film e media per diversi sistemi informali esistenti, la sfida sta nel pensare alla distribuzione attraverso obiettivi della politica culturale tanto quanto dell'economia politica. Comprendere come si svolge questa relazione in tempi e spazi diversi richiede un set flessibile di strumenti e nessuna “meta-teoria” sarà appropriata ad ogni setting, pertanto Lobato (2012) sintetizza una serie di rivendicazioni fondamentali riguardanti la natura della distribuzione cinematografica e la sua relazione con la vita quotidiana:

• la distribuzione è un campo delle politiche culturali e si occupa della trasmissione di valori, competenze e ideologie;

• la distribuzione è il terreno su cui si verifica la ricezione e senza di essa non esisterebbe un pubblico;

• la distribuzione comporta differenze culturali e frammenta il pubblico secondo genere, età, orientamento sessuale, etnia e classe sociale;

• la distribuzione definisce il modo in cui i prodotti sono vissuti e recepiti dai pubblici;

• la distribuzione modella la cultura cinematografica e la propria immagine; • la distribuzione cinematografica informale è la norma globale.

Queste affermazioni, che assieme formano una specie di logica per un’analisi critica dei canali distributivi, permettono di focalizzare l’attenzione contemporaneamente su ciò che è materiale e ciò che è simbolico, culturale ed economico, micro e macro. La distribuzione riflette differenze culturali e socio-economiche, ma non solo, indica differenze anche in nuove direzioni: mantenere questi concetti generali in mente quando

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si studiano i sistemi distributivi assicura un punto di vista maggiormente critico, non “istituzionale”, tradizionale o dato per scontato (Lobato, 2012).

Oltre alle infrastrutture che costituiscono ciò che viene considerata industria cinematografica internazionale (multisala, film festival, tv via cavo, videoteche), si trovano altri terreni in gran parte non mappati della distribuzione cinematografica. Lobato (2012) si allontana ulteriormente dall'economia del cinema “formale” per considerare le numerose reti di distribuzione che operano in articolazione libera o al di fuori di questo sistema, al fine di avvicinare le modalità distributive informali al centro del quadro analitico classico, a cui giustamente appartengono. Un beneficio di tale riorientamento risiede nella possibilità di introdurre gli studi sul settore cinematografico nel dialogo con altre tradizionali ricerche sulla circolazione di prodotti culturali (si pensi come ad esempio in campi come la geografia umana, l'economia, l'antropologia e gli studi urbani sia già presente un ricco corpus di lavori sui sistemi economici informali - mercati di strada, reti di venditori ambulanti, grandi imprese criminali - che ha generato modelli di particolare interesse per l'analisi delle reti di distribuzione).

L’espressione “informal economies”, o “shadow”, può essere definita in una serie di maniere diverse, ma in generale l’uso di questo termine si riferisce alla produzione e agli scambi economici che intercorrono all’interno di economie capitalistiche ma all’esterno del campo di applicazione dello stato. Nella sua forma più pura, la shadow economy è uno spazio di attività economica non misurata, non tassata e non regolamentata. Mentre la sfera formale è caratterizzata da uno spazio e dal controllo, nell’informalità sono accordi di stretta di mano, reciprocità, economie del dono, pirateria, baratto e altre modalità di scambio e ridistribuzione che bypassano le istituzioni (Lobato, 2012). Molti studiosi continuano a dibattere se l'informalità sia meglio concettualizzata come un settore a sé dell'economia o come una modalità di produzione, come un sintomo del neoliberismo o una miniera dell'imprenditorialità, come un problema da risolvere o un potenziale da sfruttare. Pochi, tuttavia, contestano il fatto che l'informalità sia un processo politico-economico fondamentale al centro di molte società. L’informalità non

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riguarda soltanto il crimine e il furto, ma può anche essere considerata una strategia accattivante per attività multinazionali al core del settore formale; questo discorso può anche calarsi nella logica cinematografica osservando come ad esempio gli studios di Hollywood operino in larga parte in un regno formale mentre la produzione filmica coinvolge una serie di attività informali come apparizioni cameo non pagate, riprese in siti non regolamentati del terzo mondo e sfruttamento del potere promozionale dei fan (Lobato, 2012).

Anche se etimologicamente l’informalità sembra far pensare all’ombra (shadow) e quindi implicitamente sembrare meno centrale della sua radice (la formalità), è sbagliato pensare che la formalità sia un tipo di costante organizzativa dalla quale deriva l’informalità. Lobato (2012) rimarca quindi con convinzione la centralità dell’informalità e si domanda in che maniera il cinema si adatti all’interno di queste economie, con quali dinamiche, cercando di identificare delle caratteristiche comuni tra i prodotti informali e di forte distacco rispetto a quelli tradizionalmente formali:

1) Molti circuiti informali hanno qualità temporali che differiscono da quelle delle strutture di distribuzione convenzionali. Nel sistema di finestre su cui si basano i principali modelli di distribuzione, la canalizzazione lineare dei contenuti attraverso i formati classici (dal teatrale al dvd alla tv) monetizza il tempo, creando una gerarchia di valori basata sulla novità di un prodotto. Le reti informali non utilizzano tale modello, preferendo in generale portare i propri prodotti ai consumatori il più rapidamente e direttamente possibile.

2) Molti circuiti informali hanno una relazione diversa con lo spazio. Il modello consolidato di distribuzione cinematografica internazionale divide il mondo in zone separate in cui ai distributori selezionati sono concessi diritti esclusivi (modello di diffusione dal mercato interno al mercato esterno/internazionale). Ma le operazioni legali di importazione parallela da una parte e di pirateria illegale dall’altra significano che la separazione spazio-temporale dei mercati è uno stato ideale piuttosto che una realtà, eppure al suo centro il modello di distribuzione

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tradizionale riguarda il movimento ordinato dei prodotti attraverso e all'interno di territori delimitati nello spazio. In contrasto, infatti, i canali di circolazione informali sono largamente sotterranei, nel senso che i prodotti si muovono attraverso lo spazio e il tempo con un livello inferiore di interferenza da parte di leggi sul copyright, tasse, tariffe e censura statale.

3) La distribuzione informale è spesso invisibile negli indici industriali e nei data set. In questo tipo di economia ci sono pochi sistemi comparabili di contabilità e sorveglianza e pertanto nessuna ricerca di mercato può sperare di dare un senso all'infinito numero di visualizzazioni che avvengono in modo informale.

4) A differenza della distribuzione formale che è dominata dalla standardizzazione del prodotto filmico e dal mantenimento dell’integrità del brand, i film che circolano informalmente tendono a presentare livelli più alti di variazione del prodotto.

5) Le implicazioni della distribuzione informale vanno oltre la disponibilità e possono modellare in modo significativo l’esibizione e la ricezione. I prodotti distribuiti in modo informale vengono generalmente consumati in casa o negli spazi sociali oltre il cinema e di solito in uno stato di distrazione, concetti come l'immersione o la sutura (spettatore come soggetto) non possono essere trapiantati all'ingrosso nel regno informale (Lobato, 2012).

Un ultimo interessante argomento riguardante l’informalità che cita Lobato (2012) riguarda la città di Karachi, in Pakistan, dove gran parte della popolazione vive in “insediamenti informali”: qui una vasta rete di piccole imprese private offre molti servizi di base e la liberalizzazione del commercio ha fatto sì che le merci di consumo quotidiano, compresi molti prodotti mediatici, siano più convenienti per le classi inferiori. Un nuovo panorama mediatico sta emergendo nelle crepe del sistema consolidato: un settore informale capace di offrire varie forme di intrattenimento audiovisivo ai consumatori tagliati fuori dai mercati legali. Queste nuove culture consumistiche illustrano la distanza tra “a First World economy and sociology and a Third World wage and political structure”,

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con merce mediatica economica e onnipresente che attenua il colpo della crescente disuguaglianza strutturale. In questo contesto, il ruolo della distribuzione mediatica informale sta nel fungere da ponte tra questi due presunti mondi, una funzione quindi mediatrice capace di collegare economie e culture attraverso immaginari popolari (Lobato, 2012).

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