I bisogni che stanno alla base della ricerca e sperimentazione di modalità alternative di relazione tra produzione e consumo traggono origine dai problemi percepiti e vissuti all’interno del modello agroalimentare dominante. Questo, nella diversa prospettiva dei produttori e dei consumatori o, se ci si sforza di uscire dalla 1 Ricercatore presso il Dipartimento di Agronomia e gestione dell’agroecosistema dell’Università de-
classica dicotomia di ruoli e prospettive, in quella unica dei cittadini.
Vengono spesso citati, tra i bisogni primari di chi consuma il cibo, l’accesso (in termini di disponibilità e accessibilità economica) a cibo di qualità, salutare e nutriente, sicuro, fresco e, da parte di chi anche lo produce, l’esigenza di un’alter- nativa ad un sistema che non offre più condizioni di sostenibilità economica se non addirittura di accesso al mercato.
In realtà, dietro alla mobilizzazione sociale che ha portato ad “accorciare” la filiera c’è una gamma di esigenze molto più estesa.
C’è, in primo luogo, un’insospettabile voglia da parte degli attori rimasti ai margini del sistema agroalimentare moderno di riappropriarsi di autonomia de- cisionale, di libertà di scelta: il recupero di un controllo, rispettivamente, sui pro- cessi produttivi (e quindi sui prodotti realizzati e sulle tecniche adottate) e sul cibo consumato (quale, quando). Laddove si sviluppa consapevolezza dei cambiamenti intervenuti nel processo di modernizzazione del sistema agroalimentare (cosa di per sé non scontata), cresce il disagio rispetto alla mancanza di libertà di azione. E’ il senso di frustrazione che prova l’agricoltore o l’allevatore che, obbligato nelle scelte tecniche o nei rapporti con il mercato, si vede fortemente ridimensionato nel suo ruolo di imprenditore e nella possibilità di esprimere la sua capacità pro- fessionale. Come anche è il disagio dei consumatori che hanno visto nel tempo ridursi le alternative di acquisto, in un sistema dominato in misura crescente dalle imprese dell’agro-industria e della Grande distribuzione e dalle relative strategie commerciali.
A monte di questo bisogno di autonomia c’è il desiderio di raggiungere co- erenza tra valori e comportamento, di poter rispettare nelle proprie pratiche dei principi etici di riferimento - la sostenibilità ambientale, il benessere animale, la dignità del lavoro -; bisogno che, evidentemente, non trova adeguata soddisfazio- ne nel sistema convenzionale. Il movimento che spinge per una moralizzazione dell’economia, per una rifondazione delle attività economiche su base etica - che trova nella «moral economy» (Sayer, 2000) la sua concettualizzazione - e che, in riferimento più specifico al cibo sta dando vita al cosiddetto «ethical foodscape» (Goodman et al., 2010), trae la sua origine primariamente dal bisogno crescente maturato in tale direzione all’interno della società civile.
La capacità di mettere in atto scelte alternative porta con sé un altro biso- gno, quello di riappropriarsi delle necessarie conoscenze e quindi ricostruirsi una cultura, ovvero:
- una cultura alimentare per i consumatori: conoscenze e abilità pratiche nel rapportarsi al cibo (caratteristiche dei diversi prodotti, modo di utilizzarli) e
conoscenza dei processi produttivi e dei relativi “contesti” (i luoghi, le per- sone, le specificità della produzione); conoscenze in entrambi i casi andate perse nell’evoluzione del sistema agroalimentare e quindi dei comporta- menti di consumo (Jaffe e Gertler, 2006). Il bisogno di riscoprire i processi produttivi e i “significati” del cibo da parte delle giovani generazioni (dalle visite ai «nonni contadini» alla coltivazione di orti nella scuola primaria, dai corsi di educazione alimentare all’apprendimento del consumo critico nella scuola secondaria) è espressione del più generalizzato vuoto di conoscenze e di senso attorno al cibo creatosi dagli anni ’60 in poi (che coinvolge quindi almeno altre due generazioni), complice il cambiamento degli stili di vita, ma certamente anche conseguenza delle strategie di marketing perseguite da industria e distribuzione alimentare;
- un bagaglio di saperi e abilità per i produttori: riacquisizione e/o possibi- lità d’uso di conoscenze tecniche per la gestione dell’attività produttiva, andata semplificandosi nel processo di modernizzazione e specializzazio- ne dell’agricoltura e divenuta sempre più dipendente dalle altre fasi della filiera, molto spesso con riferimento ad esigenze tecniche non coincidenti con quelle proprie di una corretta pratica agronomica (si pensi al modo di rapportarsi alla terra o alla biodiversità nell’agricoltura intensiva e specia- lizzata); ma anche riacquisizione di conoscenze di tipo organizzativo e rela- zionale, anche in questo caso impoveritesi nella loro valenza di scambio (le relazioni di filiera sono spesso a senso unico e i beni scambiati abbastan- za ridotti) e nella loro varietà (a seguito della rarefazione di relazioni tra l’azienda e l’ambiente esterno) (Rossi e Brunori, 2010, 2011a).
Entrambi i soggetti, produttori e consumatori, possono assumere consape- volezza di questo impoverimento culturale e questo rappresenta un fattore impor- tante nel processo di attivazione per la ricerca di alternative.
Emerge poi prepotentemente un bisogno di un altro modo di vivere le stes- se pratiche di produzione e di consumo, riportandole a una dimensione umana e sociale, dove i produttori e le loro attività non siano più entità isolate e siano visibili alla società e dove i “consumatori” non siano solamente acquirenti-fruitori dei beni, ma persone con desideri, aspettative, incertezze ma anche capacità di assumersi e condividere responsabilità. E’ un riportare le pratiche di produzione e di consumo e lo scambio economico in una dimensione relazionale, dove contano la conoscenza reciproca, la trasparenza, il rispetto e dove trovano spazio occasioni di mutualità e convivialità. Accanto alla riconnessione tra mondo della produzio- ne e mondo del consumo, dopo la separazione netta determinata dal processo di
sviluppo del sistema agroalimentare, questo processo coinvolge anche le relazioni tra “pari”: tra i consumatori, che in questo modo escono dalla dimensione “indi- vidualizzata” delle loro pratiche di acquisto-consumo (Jaffe e Gertler, 2006), con- dividendo processi di scelta e ritrovando la funzione di mediazione sociale svolta dal cibo; ma anche tra i produttori, i quali ritrovano una condizione di interazione e collaborazione, in molti casi impoverita nei rapporti di filiera.
Al bisogno di risocializzazione delle pratiche di produzione-consumo si af- fianca quello di una loro riterritorializzazione (Renting et al., 2003). In controten- denza rispetto al processo di de-territorializzazione che caratterizza lo sviluppo del sistema agroalimentare moderno (van der Ploeg, 2004; Murdoch et al., 2000; Marsden, 2003), le attività produttive tornano a rapportarsi con le risorse - umane, sociali, ambientali, culturali, istituzionali - dei territori (Renting et al., 2003; Watts et al., 2005; Renting et al., 2008; van der Ploeg e Marsden, 2008). Detto in altri termini, è un riportare l’economia nello «spazio dei luoghi» rispetto al dominio dello «spazio dei flussi» che caratterizza l’economia globalizzata (Castells, 1996). In questa nuova attenzione all’appartenenza ai territori, che accomuna produttori e consumatori, le microeconomie che si creano valorizzano le risorse locali - il patrimonio di saperi legati all’agricoltura e di tradizioni gastronomiche, la terra e il biogenoma locale, il lavoro e la professionalità, il tessuto di imprese e la loro capa- cità di fare rete, l’integrazione con altre progettualità sul territorio -, garantendone al tempo stesso la riproduzione nel tempo.
Laddove è ancora maggiore il livello di consapevolezza, la ricerca di modali- tà diverse di rapportarsi alla produzione e al consumo di cibo è espressione della volontà di costruire un’alternativa al sistema dominante, in una rivendicazione del diritto alla sovranità alimentare calata nelle pratiche reali, quotidiane.
Più in generale, il coinvolgimento attivo nella ricerca-costruzione di alter- native evidenzia un bisogno implicito di impegno civico-politico. In questi casi le pratiche attorno al cibo, per la loro natura, assolvono alla funzione importante di offrire una prima forma accessibile ed efficace di cittadinanza (Sassatelli, 2004).