Si ritiene opportuno inserire in questo capitolo alcune brevi riflessioni sullo spinoso problema dell’individuazione dello standard probatorio da adottare nel rito alternativo dell’ ‘applicazione della pena su richiesta delle parti’, disciplinato agli artt. 444 ss. c. p. p. Si tratta di questione pressante, atteso che la realtà della pena patteggiata, anche senza raggiungere le impressionanti percentuali statunitensi40, copre nel nostro ordinamento almeno il 30% delle condanne penali41.
Orbene, se la disciplina e la natura degli altri riti alternativi (ad esclusione del ‘procedimento per decreto’42) sembrano già al primo sguardo compatibili con
39 Sul carattere afflittivo delle misure di sicurezza e sulla loro natura di vere e proprie sanzioni penali cfr. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2007, pp. 808, 809 e G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 451, 452.
40 Si tratta di percentuali che si aggirano intorno al 95%. Sul punto si veda E. GRANDE, Il terzo strike.
La prigione in America, Sellerio, Palermo, 2007, p. 50.
41 Così M. CAPUTO, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, Jovene, Napoli, 2009, p. 393.
42 Nei confronti di questo sembrano potersi muovere dubbi epistemologici analoghi a quelli relativi al problema dell’applicabilità dello standard in questione nel patteggiamento. Tuttavia, vista la possibilità di presentare agevolmente un’opposizione alla quale segua un giudizio ordinario o un ulteriore rito speciale, vi è da dire che le carenze sotto il profilo epistemologico, pur sussistenti, non
l’applicazione dello standard ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’, non altrettanto può dirsi con riferimento al patteggiamento. Si tratta di vagliare le ragioni di tale incertezza applicativa per stabilire se essa sia superabile o meno. E’ opportuno affrontare il problema sotto due distinti profili, quello deontologico (più precisamente: che cosa dice il diritto?) e quello epistemologico (qual è l’orizzonte delle possibilità di accertamento in sede di patteggiamento?).
Per quanto attiene al primo profilo va innanzitutto sottolineato che l’art. 444, comma 2, c. p. p., relativo al giudizio in sede di patteggiamento, richiama il solo art. 129 c. p. p. In virtù di ciò la Cassazione (modificando un precedente orientamento secondo cui nel rito in questione vi sarebbe soltanto un accertamento ‘implicito’ della responsabilità, ricavabile dalla rinuncia dell’imputato a contestare l’accusa formulata dal p. m.43) ha sostenuto che la sentenza di patteggiamento è “una pronuncia giurisdizionale senza giudizio, sia con riguardo alla fondatezza dell’accusa e alla responsabilità dell’imputato, sia relativamente alla conseguente statuizione della pena, che non può essere altra se non quella indicata dalle parti”44. Più precisamente la Corte ha affermato che il giudice è tenuto solo ad effettuare un accertamento c. d. ‘negativo’ dell’insussistenza dei motivi per prosciogliere45.
portano necessariamente a conseguenze irrimediabili. In definitiva in caso di opposizione l’unico tratto in lieve attrito con la presunzione di innocenza potrebbe essere l’onere (di facile soddisfazione) consistente nel presentare l’opposizione stessa. Invece, un attrito ben più forte si presenterebbe qualora l’imputato (magari innocente) non si opponesse perché mal consigliato dal proprio difensore o per il timore di una condanna ben più severa (art. 464, comma 4, c. p. p.). In ogni caso si ritiene che ogni giudizio che si chiuda con il decreto penale di condanna rischi di essere carente sotto il profilo epistemologico per le ragioni che verranno esposte nel testo. Per quanto invece attiene al rito abbreviato, si ritiene che le disposizioni di cui agli artt. 438, comma 5, c. p. p. (c. d. abbreviato condizionato) e 441, commi 5 e 6, c. p. p. (integrazione probatoria del giudice) valgano a rendere immune tale rito dai rilievi critici che saranno svolti in merito all’accertamento nel patteggiamento.
43 Si veda Cass., Sez. Un., 27 marzo 1992, n. 5777, in Cass. Pen., 1992, p. 2060 ss.
44 Così Cass., Sez. Un., 8 maggio 1996, n. 11, in Archivio della nuova procedura penale, 1996, n. 4, p. 587 ss. Si veda anche la sentenza Cass., Sez. Un., 28 maggio 1997, n. 5, in Guida al diritto. Il sole 24-ore, 1997, n. 35, p. 55 ss., in cui la Corte afferma: “il provvedimento conclusivo del procedimento previsto dagli artt. 444 e segg. c. p. p., non è una sentenza di accertamento e condanna, come già questa Corte, a Sezioni Unite, ha più volte ribadito (…). Essa, infatti, non implica, nè presuppone l’accertamento della sussistenza del fatto-reato e della sua riferibilità ad un determinato soggetto, sicché dalla sua pronuncia non possono che scaturire gli effetti che sono indissociabili dal suo fisiologico contenuto, e questo non può che essere l'applicazione della pena nella misura indicata dalle parti, una volta dal giudice ritenuta congruente”.
45 Sul punto cfr. TONINI, Manuale di procedura penale, op. cit., p. 660. Dalla mancanza di un accertamento giudiziale della responsabilità penale non possono non derivare conseguenze sugli effetti prodotti dalla sentenza. Afferma infatti la Cassazione (Sez. Un., 27 maggio 1998, n. 8488) che la sentenza di patteggiamento non produce effetti dipendenti dall’accertamento (ad esempio la revoca di una precedente sospensione condizionale della pena). Si applicano dunque le sanzioni che “non postulano un giudizio di responsabilità, ma conseguono di diritto alla sentenza (di patteggiamento) –
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Eppure la distinzione tra un accertamento ‘negativo’ relativo all’innocenza dell’imputato e un accertamento ‘positivo’ relativo alla sua responsabilità non è affatto chiara. Infatti distinguere l’accertamento negativo dall’accertamento positivo senza fare alcuna precisazione sui rispettivi standard è un’operazione oziosa, atteso che il primo equivale al secondo se il suo standard è semplicemente il negativo dello standard del secondo. Ora, poichè l’art. 129, comma 1, c. p. p. (al pari del già studiato art. 530, comma 2, c. p. p.) non enuncia uno standard probatorio, ma utilizza il generico verbo ‘riconoscere’ (viene da chiedersi immediatamente ‘in base a quale regola di giudizio?’)46 a prima vista sembra doversi ritenere che la prova della presenza di una causa di non punibilità debba essere ‘ragionevole’, in applicazione (del negativo) dell’unico standard che il codice prescrive per la pronuncia di condanna, ovvero l’ ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’. Se dunque, in assenza di indicazioni contrarie, è il negativo di tale standard a fare da regola di giudizio per la declaratoria ex art. 129, comma 1, c. p. p. ne deriva che il mancato proscioglimento equivalga ad un giudizio di condanna ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’. Spostare l’attenzione sull’ ‘accertamento negativo’ quando il relativo standard è l’inverso della regola di giudizio prevista per la condanna è pertanto inutile, a meno che (ma evidentemente non si tratta del caso in questione) ciò non sottintenda un’inversione dell’onere probatorio47. A breve si tornerà sull’aporia insita nella posizione della
nel caso di specie si trattava di una sanzione amministrativa accessoria al reato, ovvero la sospensione della patente di guida – stante la sua equiparazione, per gli effetti compatibili con la sua speciale natura, alla sentenza di condanna”. In un successivo momento la Corte (Sez. Un., 29 novembre 2005, n. 17781) ha modificato orientamento spostando l’attenzione dal problema della natura dell’accertamento fattuale e dirigendola direttamente al problema dell’equiparazione tra sentenza di patteggiamento e sentenza di condanna: si è ritenuto che il primo non costituisse una questione pregiudiziale per la definizione del regime normativo della sentenza; infatti l’art. 445, comma 1 bis (introdotto con legge 12 giugno 2003, n. 134), impone un’equiparazione a tutti gli effetti tra la sentenza di patteggiamento e quella di condanna. Da ciò la Corte ha ricavato che una sentenza di patteggiamento determina la revoca automatica della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa. Questo orientamento lascia comunque irrisolto il problema della natura probatoria della sentenza.
46 Diversamente, il comma 2 del medesimo articolo prevede uno standard, seppur impreciso (che significato attribuire all’espressione ‘risulti evidente’?).
47 Un carattere distintivo dell’accertamento ex art. 129, comma 1, c. p. p. rispetto all’accertamento tout
court di un ragionevole dubbio, potrebbe esser recuperato sostenendo che l’articolo in questione,
applicato in seno al patteggiamento, legittima il proscioglimento solo se il dubbio ragionevole emerge
ictu oculi (per una posizione analoga si veda Cass., sez. VI, 20 febbraio 1998, n. 3823). Se così fosse
si tratterebbe tuttavia di una disposizione assolutamente imprecisa (quando può dirsi ictu oculi un dubbio?) e irragionevole (perché il dubbio derivante da un benché minimo approfondimento non dovrebbe valere?).
Cassazione per cercare di attribuire un significato autonomo all’art. 129, comma 1, c. p. p. in una prospettiva sistematica.
Taluna dottrina (confortata anche dalla Corte Costituzionale48), pur non ravvisando la contraddizione di cui sopra, ha contestato l’orientamento della Cassazione sostenendo che l’applicazione di una pena svincolata da un accertamento della responsabilità dell’imputato si pone in aperto contrasto con i principi costituzionali, fra i quali, in particolare, la presunzione di innocenza49. La constatazione è ovvia. Meno ovvio è tuttavia il passaggio successivo consistente nel valutare se la presunzione di innocenza prescriva un determinato standard probatorio o no. A tale questione, invero, è stata già data risposta nel corso del lavoro. Basti qui ricordare, con il conforto di autorevole dottrina50, che l’interpretazione più ragionevole dell’art. 27, comma 2, Cost. è quella secondo cui esso impone l’adozione dello standard più elevato che il processo penale possa soddisfare, ovvero l’ ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’. Sembra dunque potersi concludere che quest’ultimo standard deve essere soddisfatto anche dalla sentenza che applica la pena su richiesta delle parti51.
48 Nella sentenza 3 luglio 1990, n. 313, la Corte Costituzionale ha infatti affermato che “anche la decisione di cui all’art. 444 c. p. p., quando non è decisione di proscioglimento, non può prescindere dalle prove della responsabilità”. Va però ricordato che in una successiva sentenza (6 giugno 1991, n. 251) la Corte ha modificato (o, forse, precisato) il suo orientamento affermando che l’accertamento in sede di patteggiamento non è “pieno e incondizionato” al pari di quello “che rappresenta, nel rito ordinario, la premessa necessaria per l’applicazione della sanzione penale”. Il primo, secondo la Corte, troverebbe “il suo fondamento primario nell’accordo tra pubblico ministero ed imputato sul merito dell’imputazione” e non in un’autonoma attività cognitiva del giudice.
49 Si è fatto inoltre notare che escludere la necessità di un compiuto accertamento sul fatto e dunque “relegare il giudice in un’attività di tipo notarile, meramente certificativi dell’intesa” comporta “molteplici profili di incostituzionalità: nei limiti in cui realizza una soggezione del giudice alla volontà delle parti (art. 101 Cost.), affida alle stesse la scelta della misura della pena (artt. 102 e 111 Cost.), consente di disporre di diritti fondamentali come quelli di difesa e della libertà personale (artt. 24 e 13 Cost.)”. Così D. VIGONI, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in M. PISANI (a cura di), I procedimenti speciali in materia penale, Giuffrè, Milano, 2003, p. 186. Alla pagina seguente l’Autrice rileva, inoltre, che “già l’espressa previsione della compatibilità del rito con la sospensione condizionale mal si concilia con un’impostazione che svincoli l’applicazione della pena dall’accertamento della colpevolezza, posto che la concessione del beneficio è legata alla prognosi che ‘il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati’ (art. 164 c. p.)”.
50 Il riferimento è a STELLA, Giustizia e modernità, op. cit., p. 214. L’Autore compie una lettura del comma 2 “in stretto collegamento con i commi 1 e 3: i tre commi, infatti, pur enunciando distinti principi, costituiscono una unitaria presa di posizione, in relazione ai requisiti che una sentenza di condanna deve possedere, perché abbiano significato gli scopi di politica criminale, perseguiti dal nostro ordinamento”.
51 Così (seppur senza interpretare rigidamente la presunzione di innocenza) CAPUTO, Il diritto penale
e il problema del patteggiamento, op. cit., p. 550 e F. CAPRIOLI, L’accertamento della responsabilità penale “oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., Giuffrè, 2009, p. 78 ss.
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Peraltro si dovrebbe ritenere che, qualora il giudice ravvisi un ragionevole dubbio egli non debba prosciogliere ai sensi dell’art. 129, comma 1, c. p. p., bensì rigettare la richiesta delle parti e restituire il fascicolo al p. m., poiché non può escludersi che il contraddittorio dibattimentale dissolva il dubbio in questione. Ma, se così è, quando può aversi una sentenza di proscioglimento? Non si era forse affermato, evidenziando l’aporia della Cassazione, che l’art. 129, comma 1, c. p. p. presuppone lo standard inverso rispetto a quello imposto dall’art. 533, comma 1, c. p. p.? E’ qui un’interpretazione sistematica a permettere di attribuire al generico verbo ‘riconoscere’ un significato preciso che eviti la sovrapposizione tra i presupposti del rigetto e i presupposti del proscioglimento, rendendo questi ultimi più stringenti. Si può ragionevolmente ritenere che il proscioglimento debba essere pronunciato solo quando sia possibile pronosticare che il dibattimento52 non sarà ‘assolutamente’ in grado di portare ad una prova ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ della responsabilità penale. Infatti, poiché il giudizio ex art. 129, comma 1, c. p. p. è per sua natura effettuato nel corso e non al termine del procedimento (inteso nel suo sviluppo ordinario) esso deve necessariamente consistere in una valutazione dell’utilità delle fasi successive in base al materiale probatorio disponibile53. Se invece lo si ritenesse un giudizio esclusivamente diagnostico verrebbe del tutto disconosciuta l’importanza del dibattimento, ovvero il fondamentale ruolo epistemologico svolto dal contraddittorio (sul quale si tornerà a breve); peraltro in tal caso l’adozione ai fini del giudizio in esame del negativo dello standard prescritto per il giudizio post-dibattimentale comporterebbe un quasi generalizzato epilogo assolutorio, atteso che ragionevoli dubbi sono spesso presenti nelle fasi iniziali di un procedimento e possono essere efficacemente superati solo con il confronto dialettico delle parti54. Affinché dunque il proscioglimento sia giustificato prima del
52 O le fasi avanzate dello stesso, qualora il giudizio ex art. 129 c. p. p. sia effettuato non in sede di patteggiamento, ma a dibattimento già iniziato.
53 Cfr. G. TRANCHINA (a cura di), Codice di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2008, Tomo I, p. 1059 in cui si legge: “il legislatore (…) ha inteso evitare che pervengano alla fase del giudizio situazioni nelle quali risulti con ragionevole certezza che l’imputato meriti il proscioglimento: ciò avviene nei casi di sicura infondatezza dell’accusa, quando cioè gli atti offrono la prova dell’innocenza dell’accusato o la totale mancanza di elementi a carico, ma anche in presenza di sicura inidoneità
delle fonti di prova acquisite ad un adeguato sviluppo probatorio, nella dialettica del contraddittorio dibattimentale” (grassetto eliminato e corsivo aggiunto).
54 Tale critica vale peraltro per qualsiasi pronuncia pre-dibattimentale di proscioglimento, anche esterna al patteggiamento.
dibattimento, luogo principale in cui i dubbi emergono e si dissolvono, è necessario pronosticare che il contraddittorio non varrà in alcun modo ad alterare significativamente la probabilità di innocenza. Peraltro tale esito potrà aversi solo se il materiale probatorio sostiene più che un ragionevole dubbio, atteso che quest’ultimo, data la sua esiguità, può sempre essere dissolto dal contraddittorio. In altri termini il confronto dialettico non può mai essere ritenuto inutile se gli atti disponibili in sede di patteggiamento sollevano solo un ragionevole dubbio.
Se dunque si riconosce al contraddittorio un importante ruolo nell’accertamento viene automaticamente da chiedersi se sia possibile ottenere una prova ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ prima del dibattimento. Si tratta del profilo epistemologico del problema studiato. Come il lettore si sarà accorto, di questo profilo nulla si è detto nel capitolo precedente. La ragione di ciò è semplicemente che la dottrina e la giurisprudenza statunitensi non lo hanno affrontato in modo approfondito55.
In dottrina si ritiene che sia possibile che una sentenza che applica la pena su richiesta soddisfi la regola di giudizio menzionata. Merita particolare attenzione la posizione di chi56: mostra fiducia nel principio della completezza delle indagini
55 La dottrina statunitense, necessario interlocutore sul punto, ha affrontato solo incidentalmente il problema della compatibilità in termini epistemologici tra una sentenza emessa a seguito di plea
bargaining e lo standard della proof beyond a reasonable doubt. Tra le ragioni della mancata
attenzione a questo profilo si possono individuare le seguenti. Innanzitutto, a livello normativo (il riferimento è alla rule 11 (b) (3) delle Federal Rules of Criminal Procedure) non è richiesto il soddisfacimento dello standard menzionato, ma si considera sufficiente l’accertamento di una factual
basis for the plea, standard che le corti ritengono soddisfatto quando ci sia evidence bastevole per
pronosticare che una giuria potrebbe condannare l’imputato beyond a reasonable doubt e dunque per escludere un directed verdict a vantaggio dello stesso (sul punto si veda A. W. ALSCHULER,The Defense Attorney’s Role in Plea Bargaining, 84 Yale L. J. 1179, 1975-1975, p. 1293, nota 313). Si
tratta pertanto di una mera prognosi sulla responsabilità penale dell’imputato che può senz’altro lasciare spazio a ragionevoli dubbi. Questa tuttavia, associata ad una confessione talvolta inattendibile, costituisce per molti un elemento sufficiente a ritenere che lo standard costituzionalmente previsto sia stato automaticamente soddisfatto e pertanto previene l’approfondimento della questione. Inoltre il profilo epistemologico è messo in secondo piano dal fatto che molti sostenitori del plea bargaining ne esaltano la funzione di dispute resolution. Agli occhi di tale dottrina il ruolo di questo istituto è prevalentemente quello di individuare un accordo che soddisfi entrambe le parti: l’accuratezza della decisione non interessa (sul punto si veda A. W. ALSCHULER,
The Changing Plea Bargaining Debate, 69 Cal. L. Rev. 652, 1981, p. 684). Un’obiezione di carattere
epistemologico avrebbe poca presa di fronte a questo deliberato accantonamento del problema. Infine, l’esaltazione della negozialità nel plea bargaining ha portato taluni autori ad accettare cinicamente che questo istituto possa costituire un utile strumento anche per l’innocente, in quanto gli permette di evitare probabili condanne più severe sancite al termine di un eventuale trial. (sul punto si vedano G. C. CHRISTIE, K. PYE, Presumptions and Assumptions in the Criminal Law: Another View, 1970 Duke L. J., 919, 1970, p. 926 ss.). E’ evidente che anche per questa dottrina il problema della compatibilità tra il plea bargaining e lo standard della proof beyond a reasonable doubt è semplicemente irrilevante.
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(oggetto di importanti pronunce della Corte Costituzionale ) asserendo che queste possono compensare la semiplena cognitio caratteristica del patteggiamento58; inoltre sostiene che il consenso prestato dalle parti da un lato manifesti “una sintonia di giudizio fra imputato e pubblico ministero in merito alla sufficienza del corredo probatorio allegato e alla sua efficacia dimostrativa” e dall’altro evidenzi che l’imputato ha ritenuto superflua l’indagine dibattimentale stimando la stessa incapace di condurre a risultati diversi da quelli già raggiunti59; infine afferma che, poiché “normalmente nessuno è disponibile ad assumere un atteggiamento contrario al proprio interesse e a farsi destinatario di una pena prescindendo da un effettivo coinvolgimento nell’addebito ipotizzato”60, è possibile inferire dalla volontà negoziale la responsabilità dell’imputato. Al primo argomento si potrebbe semplicemente ribattere richiamando la “legge di Hume inversa”, secondo la quale “dal direttivo al descrittivo non c’è passaggio logico necessario, ovvero da norme e valori non si possono dedurre fatti”61. In altri termini la mera presenza di un principio d’azione non esclude che un p. m. svolga indagini incomplete, specie per quanto attiene ai fatti e alle circostanze a favore dell’indagato (art. 358 c. p. p.). Non è dunque per questa strada che si può convincentemente sostenere la compatibilità epistemologica tra standard e rito alternativo. Quanto alle due massime d’esperienza che costituiscono il secondo argomento va detto che anche laddove le si ritenesse
57 In particolare si vedano la n. 88 del 15 febbraio 1991 (in cui la Corte ha sancito come limite all’obbligatorietà dell’azione penale, il divieto di instaurare il processo se esso appare oggettivamente superfluo) e la n. 115 del 9 maggio 2001 (in cui la Corte ha imposto la completezza delle indagini, perché funzionale al diritto di scelta dell’imputato tra il rito ordinario e il giudizio abbreviato).
58 CAPUTO, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, op. cit., p. 366.
59 Id., p. 365. L’Autore peraltro afferma che ciò che distingue la ricostruzione fattuale nel patteggiamento da quella post-dibattimentale “non è la regola di giudizio, ma la qualità dell’accertamento condotto dal giudice e dalle parti sulle questioni di fatto” (Id., p. 554, corsivo aggiunto). Questa distinzione sotto il profilo qualitativo non è per nulla chiara e solleva il pericoloso equivoco che lo standard imponga un’attenzione al solo aspetto quantitativo della prova e non a quello qualitativo; in altri termini alla sola probabilità espressa dalla generalizzazione usata per costruire l’inferenza, ma non al fondamento della stessa o al fondamento del ragionamento analogico.
60 Id., p. 555. Si veda anche CAPRIOLI, L’accertamento della responsabilità penale “oltre ogni ragionevole dubbio”, op. cit., p. 86. Scrive invece Daniela Vigoni: “il consenso dell’imputato, lungi
dall’assumere valenza sostanziale, manifesta una mera scelta processuale, priva di alcun significato conclusivo in senso colpevolista, e riconducibile a ragioni diverse, insindacabili ai fini dell’esito della richiesta”. Così VIGONI, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, op. cit., p. 188.
61 Così U. SCARPELLI, L’etica senza verità, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 111. Se la legge di Hume è posta a tutela della libertà, “non già perché l’uomo è – ontologicamente – libero” (potrebbe davvero