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La storia in giudizio: il caso del genocidio degli Armen

IL NEGAZIONISMO: STORIA DI UNA MENZOGNA

V. La storia in giudizio: il caso del genocidio degli Armen

Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) si compie, nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7 secolo a.C. Dalla memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’Occidente. Le responsabilità dell’ideazione e dell’attuazione del progetto genocidario vanno individuate all’interno del partito dei Giovani Turchi, “Ittihad ve Terraki” (COMITATO PER L’UNIONE E IL PROGRESSO). Al termine della Prima Guerra Mondiale, in seguito alla sconfitta della Turchia, cadde il regime dei

73 Cit. Leotta ,C. D., In gazzetta ufficiale la legge che dà rilevanza penale al Negazionismo, 29

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"Giovani Turchi" ed il nuovo governo istituì controvoglia, e per ingraziarsi le potenze europee vincitrici, una corte marziale per giudicare i responsabili dello sterminio degli Armeni.

Poco dopo, e senza aver terminato i propri lavori, anche la corte marziale fu sciolta. Solo alcuni fra i principali organizzatori del genocidio armeno furono poi uccisi da parte di giustizieri armeni. Non ci fu quindi un Norimberga per il genocidio armeno che rimase così impunito.

Lo stato turco smise di perseguire i responsabili, incamerò tutti i beni mobili ed immobili appartenenti agli Armeni e diede inizio alla mistificazione della storia, prima non parlando mai dello sterminio degli armeni e, negli ultimi decenni, negando apertamente l'avvenuto genocidio. Negli anni immediatamente successivi al genocidio armeno, sebbene non fosse stato ancora coniato il termine "genocidio", questo crimine fu condannato dai governi alleati già nel 1915 ed inoltre dal Senato degli Stati Uniti, nel 1916 e 1920, dal Tribunale Militare turco nel 1919, dal

Trattato di Sèvres nel 1920 e nel 1921 dalla Corte Criminale di Berlino che assolse

un giustiziere armeno che aveva ucciso Talaat pascià, principale responsabile dello sterminio armeno. Il trattato di Sevres, in particolare stabilì, che la Turchia riconosceva il diritto agli stati vincitori di processare tutti coloro che erano accusati di crimini di guerra impegnandosi a consegnarli. Gli stati vincitori si impegnavano a creare un tribunale incaricato proprio dei processi. L’art 144 del trattato di Sevrès poneva un obbligo di riparazione, gravante sullo stato turco nei confronti delle popolazioni non turche contro cui aveva agito con misure di espropriazione qualificate come ingiuste. Tale trattato, prevedeva che la Turchia riconoscesse l’Armenia come stato libero e indipendente e affidasse la definizione dei confini tra i due paesi, all’arbitrato del presidente americano Wilson.

Il lodo del presidente venne reso noto il 22 novembre del 1920, e prevedeva l’attribuzione all’Armenia di un ampio territorio nel nord-ovest dell’attuale Turchia. Tuttavia la mancata attuazione del lodo arbitrale, rimane uno dei tanti problemi a tutt’oggi irrisolti nati dal fallimento del trattato di Sevrès. Tale trattato

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non è mai entrato in vigore, ed a chiudere ufficialmente la "questione armena", eliminandola per decenni dal dialogo internazionale è stato il Trattato di Losanna firmato il 24 luglio 1923.

In seguito, però, venne steso un velo di silenzio sullo sterminio degli Armeni che fu sempre più dimenticato. In epoca più recente, varie istituzioni nazionali ed internazionali hanno riconosciuto e condannato il genocidio armeno. La negazione del massacro del popolo armeno, non deve essere vista come una forma di malattia del potere, ma semplicemente deve essere vista come parte integrante della sua stessa essenza. L’azione del rifiutare l’avvenimento di questo sterminio, sta tutto nella stessa violenza che fu commessa. E’ riconosciuto anche dal popolo turco stesso che ciò che accade è il frutto di eccessi, intemperanze, compiute in una fase storica assai delicata ossia durante la prima guerra mondiale, quando ciò che rimaneva dell’impero ottomano , veniva successivamente dalla brama di conquista di un altro impero che sarebbe di lì a poco divenuto quello zarista. Tuttavia l’atto di contestualizzazione compiuto dalle varie autorità turche, venne strumentalizzato per ridimensionare questa abnorme forma di sterminio di massa compiuto dai vari gruppi dirigenti di Costantinopoli prima e poi dopo da Ankara.

Dunque la questio del fenomeno del negazionismo Turco è incentrato proprio in

questo gioco di riduzione, rimozione, traslazione.74In merito alla negazione della

qualifica di genocidio allo sterminio sofferto dal popolo armeno e in particolare se tale questione costituisca una forma di incitamento all’odio e integri la diffusione di un’ideologia anti-democratica e antisemita, interessate risulta, una pronuncia della Corte di Strasburgo raggiunta con una maggioranza di dieci giudici, la Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo (oggi chiamata Corte Edu). Il 15 ottobre 2015, difatti, la Corte, ha confermato la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), da parte della Svizzera per la condanna inflitta a Doğu Perinçek, colpevole del reato di

74 Cfr. De Stefani P., Render conto. I diritti degli Armeni vittime del genocidio, Milano 2001, pp.1-

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discriminazione razziale per aver affermato che il massacro degli armeni non poteva essere considerato un genocidio.

I fatti sono ormai notori: Perinçek, cittadino turco, storico e presidente del Partito Turco dei Lavoratori in alcune conferenze tenutesi in Svizzera tra maggio e settembre 2005, parlando dei crimini commessi nel 1915 e negli anni successivi dall’Impero Ottomano contro il popolo armeno, aveva contestato la qualificazione giuridica di tali fatti come genocidio. Secondo lo storico, il parlare di quegli avvenimenti come di un genocidio costituiva una “menzogna internazionale”, in quanto dietro agli stessi non vi sarebbe mai stata l’intenzione di distruggere il popolo armeno, quanto piuttosto esigenze di natura bellica.

Condannato dalle autorità svizzere in applicazione dell’art. 261 bis, alinea all’art 4 del Codice penale svizzero, che punisce chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione o, per le medesime ragioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità. Perinçek aveva proposto ricorso per violazione, tra gli altri, dell’art. 10 della Cedu. La seconda sezione della Corte aveva accolto il ricorso, affermando che una condanna per negazionismo come quella imposta dalle autorità svizzere rappresentava una limitazione ingiustificata della libertà di espressione (sentenza Perinçek c. Svizzera, 17 dicembre 2013).

Contro tale decisione il Governo svizzero presentò ricorso alla Grand Chambre, conformemente a quanto previsto dall’art. 43 della Cedu. Un primo punto che deve essere sottolineato, riguarda la delimitazione dell’ambito di competenza della Corte stessa, spesso accusata di volersi sostituire agli storici: la Corte sottolineava che non le spettava determinare se i massacri e le deportazioni di massa sofferte dal popolo armeno ad opera dell’Impero Ottomano a partire dal 1915 potessero qualificarsi come genocidio e tanto meno poteva entrare nel merito dell’opportunità politica di una normativa che, come l’art. 261 del Codice penale svizzero, prevedeva la

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punizione di coloro che per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa disconoscessero, minimizzassero grossolanamente o cercassero di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità.

La Corte poteva solo, valutare se nel caso concreto portato alla sua attenzione l’applicazione della normativa nazionale violasse una delle disposizioni della Cedu e, con riferimento al caso di specie, dovesse verificare se la condanna di Perinçek fosse stata fatta in modo conforme all’art. 10 o meno. Applicazione che evidentemente provocò un’ingerenza nel diritto alla libera espressione del

ricorrente. Ripercorrendo le tappe del test elaborato fin dal

caso Handyside (Handyside c. Regno Unito, del 7 dicembre 1976) per valutare la convenzionalità della limitazione nel godimento ed esercizio del diritto alla libera espressione che, come indicato nel secondo comma dell’art. 10, doveva essere prevista dalla legge e costituire una misura necessaria in una società̀ democratica per il raggiungimento di uno dei fini specificamente indicati nel testo della norma, la Corte affermò che la condanna di Perinçek aveva rispettato il principio della riserva di legge: secondo la Corte, infatti, il ricorrente avrebbe potuto prevedere in modo ragionevole le conseguenze legate alle sue dichiarazioni. Inoltre, si trattava di una misura diretta a soddisfare un interesse legittimo, rappresentato dalla protezione dei diritti degli altri. In particolare, si sarebbe trattato, come sostiene la Corte, dei diritti non tanto delle vittime dirette, quanto dell’intero popolo armeno i cui componenti, ed in particolare coloro che avevano vissuto direttamente o indirettamente la diaspora, avevano costruito la propria identità collettiva sull’essere stati vittima di un genocidio.

Fin qui nulla di nuovo. È nella valutazione della necessità di tale condanna in una società democratica che cominciano i dubbi. Per la prima volta in un caso di negazionismo e di limite alla libertà di espressione per casi di hate speech, la Corte propose che tale valutazione, si compiesse avendo riguardo alla cornice disegnata dal bilanciamento tra l’art. 10 e l’art. 8: libertà di espressione, da un lato, e diritto alla vita privata e familiare, diretto a proteggere la dignità delle vittime, dall’altro. Tanto la Commissione europea quanto la Corte, anche se con alcune sfumature,

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avevano sempre applicato ai casi di negazionismo dell’Olocausto l’art. 17 della Cedu: la clausola di abuso del diritto. Tale disposizione, applicata direttamente o come criterio ermeneutico dei requisiti richiesti dall’art. 10, determinava uno sbarramento per il caso: non si entrava nel merito della questione.

La Corte Edu cercò di ricostruire il contesto nel quale le dichiarazioni di Perinçek dovevano essere considerate; si trattava di dichiarazioni rese che, in quanto politico, toccavano tematiche di pubblico interesse e, nelle parole e nei toni utilizzati, non vi era traccia alcuna di mancanza di rispetto o di odio nei confronti delle vittime. E tali considerazioni sarebbero state sufficienti per convincerci ed escludere che l’intenzione di Perinçek fosse quella di discriminare o di incitare all’odio. Ma la Corte, per rafforzare la sua posizione, ritenne doveroso sottolineare le differenze di trattamento rispetto alla negazione dell’Olocausto, oltre che essere cronologicamente più recente, con riferimento al genocidio nazista esisteva una sorta di presunzione giurisprudenziale per ragioni legate a motivazioni contestuali e storiche, secondo la quale la sua negazione costituiva una forma di incitamento all’odio razziale. E tale presunzione era ancora più forte in quegli Stati che avevano avuto una certa partecipazione in tali atrocità (come Austria, Belgio, Germania e Francia), i quali oggi sentono una speciale responsabilità morale nel prendere le distanze con diversi mezzi, inclusa la previsione di normative che puniscono varie forme espressive tra le quali la negazione del genocidio stesso.

Tale circostanza, dice la Corte, non si presentava nel caso di specie: da un lato, la Svizzera non ricoprì nessun ruolo, né diretto, né indiretto nel genocidio armeno e, dall’altro lato, il clima politico a livello di convivenza con i rappresentanti armeni non era teso né prima, né come conseguenza delle dichiarazioni di Perinçek. Ancora meno la sua condanna poteva essere giustificata facendo riferimento alla situazione politica in Turchia o alle obbligazioni internazionali assunte dal Governo svizzero. E ciò a maggior ragione se si considera che mancava un consenso europeo circa l’adozione di normative che punivano la negazione di determinati eventi storici. Credo che si trattasse di una decisione condivisibile nel merito, ma alcuni punti dell’argomentazione lasciavano perplessi. Condivisibile era la considerazione

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secondo la quale, l’intenzione di Perinçek non era quella di incitare all’odio o di discriminare le vittime del genocidio, né di negare lo sterminio degli armeni e

quindi la sua condanna penale era ingiustificata.75

75 Cit. Spigno I., Ancora sul Negazionismo, ma del genocidio armeno. Considerazioni a margine

della sentenza della Grand Chambre nel caso Perincek c. Svizzera , 21 Dicembre 2015. Consultabile su www.diritticomparati.it

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CAPITOLO IV