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Le strutture del linguaggio: unità testuali esplicite e unità testuali implicite

3. Tipologie di “testi” per l’educazione alla salute nei contesti di vita quotidiani

3.2. Le strutture del linguaggio: unità testuali esplicite e unità testuali implicite

Il linguaggio è ciò “che struttura la conoscenza e la comprensione della realtà e costituisce un’esperienza comune” (Besozzi, 2006, p.96)

L’attenzione al discorso in quanto atto comunicativo ne offre una prospettiva di studio all’interno di una specifica situazione spaziale e temporale. Molte ricerche hanno discusso tale tematica:

1) i lavori linguistici sugli “embrayeur” (gli indicatori deietici e i pronomi personali, in particolare) che permettono l’ancoraggio dell’enunciato alla situazione di enunciazione (Jakobson, 1963; Benveniste, 1966 e 1974);

2) la filosofia analitica e la pragmatica anglosassone inaugurata dai lavori di Austin sugli atti del linguaggio (1962);

3) le ricerche di pragmatica linguistica e le teorie dell’argomentazione e della presupposizione considerate come “atti del linguaggio” (Ducrot e Anscombre, 1983);

4) le teorie psicosociali sull’interazione analizzate particolarmente dalla scuola di Palo Alto o da Goffman (1974);

5) le differenti correnti cognitiviste che si sono ispirate ai linguisti e ai teorici della semantica e che hanno messo in evidenza il meccanismo di comprensione e di interpretazione dei testi, come Speber e Wilson (1989, 1992), Langacker (1987) o Johnson (1994).

E’ quindi nell’ambito della problematica linguistica che appare la necessità di aprirsi all’enunciazione: “Le nozioni della linguistica e della psicologia, appaiono diverse se le si inquadra nell’ambito del discorso, che è la lingua così come impiegata dall’uomo che parla, pure nella condizione d’intersoggettività, che da sola rende possibile la comunicazione linguistica” (Benveniste, 1966). In effetti, lo studio della lingua fa emergere delle categorie linguistiche che permettono di radicalizzare il senso dell’enunciato all’interno dell’enunciazione. Queste categorizzazioni riguardano espressioni particolari, come i pronomi personali, i dimostrativi, etc. di cui il contenuto referenziale e la significazione all’interno dell’enunciato non possono essere descritti al di fuori della situazione di enunciazione; quest’ultima stabilisce una relazione esistenziale con ciò che designa. Detto in altri termini, i segni “vuoti” divengono “pieni” nel momento in cui il locutore li assume nella situazione di enunciazione.

La pragmatica si affianca alla sintassi e alla semantica, in quanto demandata ad analizzare il rapporto dei segni con gli interpreti. Punto di convergenza di tante tradizioni teoriche all’interno degli studi sul linguaggio, la pragmatica non ha tardato a mettersi in relazione con la dimensione dell’enunciato e del testo, così da poter essere interpretata come lo studio della convergenza testo-contesto- situazione comunicativa. Nell’ambito della semiotica testuale, tensioni e interessi pragmatici sono stati trasmessi e filtrati grazie agli studi sul testo letterario e sul rinnovato interesse per il campo della ricezione e dei fenomeni ad essa connessi. Anche in questo caso, gli approfondimenti sono stati molteplici: dalle aperture alla lettura della semiotica strutturalista e della narratologia, alle riletture delle teorie dell’enunciazione, dalla fenomenologia del testo e della sua ricezione (da Roman Ingarden e Jean Paul Sartre) all’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer, agli studi cognitivisti. Parallelamente allo sviluppo della semiotica testuale pragmatica, l’interesse per il testo scritto è stato affiancato dall’interesse per l’esame di altri tipi di testi, in particolare di quello cinematografico.

Si può far risalire l’uso attuale del termine “pragmatica” al filosofo Charles Morris (1938) il quale ha definito le linee fondamentali di una scienza dei segni, o semiotica.

Nell’ambito della semiotica ha distinto tre diversi indirizzi di ricerca:

• la sintattica, cioè lo studio delle relazioni formali di un segno con l’altro; • la semantica, cioè lo studio delle relazioni dei segni con gli oggetti a cui si

applicano;

• la pragmatica, cioè lo studio delle relazioni tra i segni e i fruitori degli stessi;

Dopo gli anni Settanta, si è assistito al fiorire di una notevole quantità di studi che si definiscono pragmatici. Il concetto pragmatica si è trovato così a coprire aree molto estese, anche se non sempre omogenee. Si è anche assistito a una ampia espansione del termine in altri settori disciplinari e ambiti di studio (antropologia, biologia, scienze cognitive). D’altra parte, l’interdisciplinarietà risulta abbastanza naturale se si interpreta la lingua come sistema complesso e in una prospettiva pragmatica e se si studia l’uso della lingua all’interno di un contesto.

Per tal motivo, la pragmatica non prende in considerazione solo le parole e il loro significato, ma include i fatti non verbali, l’intenzione, il linguaggio del corpo, e tutto ciò che rappresenta la situazione (Mazzoli, 1996).

A partire dagli anni novanta, Austin (1962) elabora la sua prima teoria degli atti linguistici, che può essere descritta per mezzo di tre nozioni centrali:

- il performativo (l’enunciato proferendo il quale eseguiamo una determinata azione),

- la forza illocutoria (il modo in cui deve essere inteso l’enunciato),

- l’atto linguistico globale (l’atto linguistico totale nella situazione linguistica totale è il solo fenomeno reale che in ultima analisi siamo impegnati a spiegare) (ivi: 109).

Di queste tre, il performativo è la nozione che ha avuto più diffusione e affermazione in molti ambiti disciplinari.

Una pragmatica filosofica sulla linea di Grice non dovrebbe dunque rinunciare a fare valere le proprie intuizioni anche su un terreno empirico e cognitivo: se si vuole che la comunicazione sia una forma di agire razionale allora bisogna che le concrete intenzioni individuali vi svolgano un ruolo in quanto rappresentazione degli scopi comunicativi perseguiti. Si tratterebbe poi di vedere se questa ipotesi possa avere un adeguato sviluppo nella pragmatica di orientamento cognitivo. A riguardo, la teoria della Pertinenza di Sperber e Wilson (2002) rappresenta la posizione attualmente più sviluppata e accreditata per la pragmatica cognitiva: con essa non si assegna al riconoscimento delle intenzioni un ruolo adeguato.

La teoria della pertinenza accoglie l’idea griceana secondo cui l’obiettivo finale dell’interpretazione degli enunciati è il riconoscimento dell’intenzione comunicativa del parlante. Grice, tuttavia, tendeva a inquadrare questo obiettivo all’interno di una più generale capacità di cogliere gli scopi dell’agire, e la loro coerenza razionale. Qui il contesto, linguistico e non, dell’enunciato viene chiamato in causa in quanto indizio degli scopi complessivi che il parlante sta perseguendo. Sono queste finalità che decidono la pertinenza di una determinata interpretazione a preferenza di altre. Dunque, la comprensione dell’intenzione comunicativa è

basata su una generale capacità di comprendere gli scopi dell’agire, e le relazioni di coerenza tra scopi di vario genere.

Nell’ambito di queste riflessioni, “capire un enunciato” significa trarre inferenze che legano ciò che è detto con ciò che è reciprocamente ipotizzato dai partecipanti o con ciò che è stato detto in precedenza.

L’analisi del discorso è talvolta equiparata all’analisi del linguaggio “oltre le frasi”. Per comprendere ciò, è rilevante considerare come l’elaborazione del linguaggio si articoli in due dimensioni (Claplan, 1992; Marini, 2001): una microelaborativa (definita anche elaborazione interfrasale o interfrastica) e una macroelaborativa. La dimensione microelaborativa è deputata alla successiva organizzazione delle frasi o degli enunciati in modo da formare strutture testuali coerentemente organizzate e adeguatamente ancorate a un preciso contesto di produzione/comprensione; nel complesso, durante l’elaborazione di un testo le strutture che compongono la dimensione microelaborativa e la dimensione macroelaborativa vengono fatte interagire in modo da dare quella sensazione di omogeneità che sembra intuitivamente scontata nell’esecuzione di un atto comunicativo.

La dimensione macroelaborativa determina il corretto sequenziamento delle informazioni lessicali e frasali. Il livello di elaborazione fonetica consente la programmazione delle configurazioni articolatorie che permettono di emettere i suoni (foni) di una lingua in fase di produzione e la decodifica delle caratteristiche acustiche dei foni percepiti in fase di comprensione. È dunque evidente che la competenza fonetica ha a che fare con il livello di esecuzione dell’atto linguistico che, essendo di natura concreta, si avvale di competenze periferiche. Al contrario, a livello di elaborazione fonologica si compie un’astrazione per estrarre dal continuum fonico percepito quei foni che rivestono un effettivo valore funzionale in una data lingua e che vengono definiti fonemi.

Il contesto all’interno del quale si registrano o appaiono gli oggetti di senso (...) è preso in considerazione a partire dal momento in cui esso stesso è considerato come oggetto di senso, come “testo” (...). La semiotica afferma di dover e poter intervenire solo se tale contesto è analizzato come “testo” (Floch 1997, p.44).

Il carattere intrinsecamente interdisciplinare della semiotica (cfr. Floch 1997, p. 44) porta a considerare come l’analisi testuale presentata in questa ricerca si avvalga consapevolmente di strumenti e nozioni derivanti da ambiti disciplinari originariamente alquanto distanti tra loro.

Il testo, inteso come unità di riferimento della comunicazione linguistica, è un’entità pragmatica in quanto la sua componente significante non è retta in modo sistematico dai principi che definiscono la lingua, e il suo significato globale assume un senso solo nel momento in cui intreccia valori iscritti nella sua forma linguistica con informazioni contestuali.

Dal punto di vista della sua costituzione interna, esso può essere visto come una sequenza di unità testuali, singolarmente associate a un particolare significato comunicativo e globalmente caratterizzate da una specifica e complessa organizzazione. Tali unità possono essere esplicite – e allora si limitano ad arricchire contestualmente la traccia semantica veicolata dalla lingua o implicite, nel qual caso sono inferenze contestuali costruite a partire dai contenuti espliciti. Le unità implicite “integrate” nel testo sono un sotto insieme della classe dei contenuti impliciti attivati, sempre e automaticamente, da qualunque processo interpretativo. La situazione può essere schematizzata nel modo seguente. In generale, i contenuti impliciti coinvolti nell’interpretazione si distinguono in “premesse implicite”- quei contenuti testuali attivati al fine dell’identificazione dell’obiettivo comunicativo del locutore – e in “conclusioni implicite”- le impalcature che nascono dalla combinazione inferenziale dei significati espliciti con dati contestuali.

3.3.

Differenti proposte per l’analisi del testo, del