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5.1. Il Post di Postcoloniale

Nell’ambito dei Post-colonial Studies62si trovano alcuni dei contri-

buti più interessanti alla critica della linearità e del progetto della modernità occidentale.

Come chiarisce Miguel Mellino, il post di postcoloniale «[p]iù

che una frattura o un distacco netto nei confronti del passato, sta a significare, in una sorta di ritorsione epistemologica lyotardiana, proprio il contrario: l’impossibilità di un suo superamento date le dinamiche neocoloniali che hanno caratterizzato la maggior par- te dei processi storici di decolonizzazione formale, simboleggia quindi la persistenza della condizione coloniale nel mondo globa-

le contemporaneo»63. Post sembra, dunque, la prosecuzione di An-

ti con altri mezzi e sta allora ad indicare «un insieme di pratiche

discorsive (anche) di resistenza al colonialismo, alle ideologie co- lonialiste e alle loro forme contemporanee di dominio e di assog-

gettamento»64.

Immediatamente successivi alla crisi dello strutturalismo, gli studi postcoloniali cominciano ad apparire negli ultimi anni Set-

tanta come filiazioni dirette del postmodernismo65. Più che rap-

presentare una vera e propria scuola di pensiero, essi costituiscono un insieme metodologicamente variegato di analisi che pongono al centro della propria indagine critica i risultati del confronto tra culture in relazione di subordinazione, nei nuovi contesti deter- minati dalle lotte di liberazione nazionale. Insieme metodologica- mente variegato, dunque, unificato soltanto dall’oggetto d’investi- gazione: la marginalità coloniale, intesa in una accezione spaziale, politica e culturale. La ridefinizione ermeneutica, imposta dal crollo dei modelli universalistici dello strutturalismo, spinge gli studiosi del postcolonialismo alla formulazione di nuove ipotesi

stion: Common Skies, Divided Horizons, Routledge, New York-London 1996;

Ashcroft B., Griffiths G.,Tiffin H. (a cura di), Post-Colonial Studies.The Key Con-

cepts, Routledge, London 2000.

63 Mellino M., La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopoliti-

smo nei postcolonial studies, Meltemi, Roma 2005.

64 Adam I., Tiffin H. (a cura di), Past the Last Post: Theorizing Post-Colonialim

and Post-Modernism, University of Calgary Press, Calgary 1991.

65 Alla voce “Post-colonial Theory” del Glossary curato da Lovell, Andermahr

e Wolkovitz si legge: «While its appearence overlaps with debates on po- stmodernism, it carries a heightened awareness of power relations between Western and “Third World” cultures…whereas postmodernism and po- ststructuralism both challenge notions of the unified humanist subject, post- colonialism offers a specific critique of the imperialist subject». Lovell T., Andelmahr S.,Wolkovitz C., A Glossary of Feminist Theory, a Hodder Arnold Publication, London 1997.

interpretative che rilanciano la prospettiva soggettivistica aperta dal decostruzionismo.

Nella teoria sociale corrente dunque l’uso dell’espressione “postcoloniale” sta ad indicare sia la condizione storico-sociale contemporanea dei soggetti e delle culture (transnazionalismo, postcolonialismo, dislocazione, decentramento, frammentazione, ibridazione) sia un approccio critico alla questione delle identità culturali decisamente fondato sulle premesse del poststrutturali- smo. Si tratta di una critica culturale, ovverosia, una «particolare fi- losofia dell’identità, il cui obiettivo è rappresentato dalla decostru- zione di quei principi e nozioni alla base dell’identità moderna occidentale»66.

Gli studi postcoloniali possono essere raccolti attorno a tre

distinti ma correlati filoni d’indagine critica67. Il primo filone è

quello inaugurato da Orientalismo di Edward Said [1978] e ispira- to alla teoria del discorso di Michel Foucault. Esso si fonda sulla interpretazione del colonialismo come formazione discorsiva ali- mentata dalle istituzioni materiali dell’Impero. Il secondo filone è quello decostruzionista, inaugurato da The Post-colonial Critic

(1990) di Gayatri C. Spivak68(traduttrice inglese dell’opera di Ja-

ques Derrida), che definisce il discorso coloniale come il prodot- to retorico degli assiomi imperialistici che riguardano in partico- lare le questioni di razza e di genere. Il terzo filone è quello di ma- trice lacaniana, inaugurato da The Location of Culture (1994) di

Homi K. Bhabha69, caratterizzato da un’analisi della formazione

del soggetto coloniale e dei processi di ibridazione nei quali co- lonizzati e colonizzatori sono coinvolti.

Le tre direzioni seguite dagli studi postcoloniali – quella ‘sto- ricistica’, quella decostruzionista e quella psicoanalitica – pur con- vergendo sull’oggetto dell’investigazione, si diversificano al mo-

66 Miguel Mellino, La critica..., cit., 2005.

67 Dobbiamo questa distinzione al contributo di Elio di Piazza contenuto nel dizionario dei cultural studies disponibile online all’indirizzo: http://www.cultu-

ralstudies.it/dizionario/lemmi/studi_postcoloniali.htm

68 Spivak G. C., The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, Rou- tledge, London 1990.

mento della sua definizione e della valutazione delle funzioni sog- gettive che qualificano la relazione coloniale.

Nel merito del confronto interculturale, gli studi postcolonia- li manifestano due distinte impostazioni ideologiche, che possono definirsi rispettivamente integrazionistiche e anti-umanitaristiche. Per- tanto, laddove Edward Said, Homi K. Bhabha ed altri costruiscono il soggetto coloniale negli interstizi di una relazione fondamental-

mente manichea, studiose come Benita Parry e Ania Loomba70, se-

guendo le tracce di Les damnés de la terre di Frantz Fanon (1961)71

e di The Post-Modern Condition di Jean-Francois Lyotard, sottolinea- no il bisogno di emancipazione del colonizzato dalla cultura del colonizzatore e dai suoi effetti sociali e psicologici.

Per il fatto che si occupano in prevalenza della complessa questione dell’alterità, gli studi postcoloniali incrociano spesso quelli femministi, soprattutto sul terreno di convergenza delle problematiche razziali e di genere. Sullo specifico contributo del- le femministe, comprese le femministe postcoloniali, alla critica della ratio moderna torneremo più avanti. Qui di seguito vorrem- mo invece soffermarci brevemente sulle riflessioni di Said e Bha- bha per far emergere il differente contributo apportato dagli studi postcoloniali alla decostruzione della logica lineare della moder- nità occidentale.

5.2. Edward Said

Orientalismo di Edward Said è il tentativo in ambito postcoloniale

di superare il residuo etnocentrico della decostruzione foucaultia- na della modernità occidentale. Come ha affermato James Clifford:

Said estende l’analisi di Foucault fino ad includervi i mo- di in cui un ordine culturale viene definito esternamente, vale a dire rispetto ad “altri” esotici. In un contesto impe-

70 Parry, B., Imperial Eyes.Travel Writing and Transculturation, Routledge, London 1992; Loomba A., Colonialismo/postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000. 71 Fanon F., I dannati della terra, Einaudi, Torino 1966; Id., Pelle nera, maschere

rialista, le definizioni, rappresentazioni e testualizzazioni di popoli e luoghi soggetti svolgono la medesima funzione costitutiva degli altri interni (per esempio quella delle classi criminali nell’Europa dell’Ottocento) e producono le medesime conseguenze: disciplina e segregazione, sia fi- sica, sia ideologica. Pertanto, l’Oriente, secondo l’analisi di Said, esiste solo per l’Occidente72.

L’obiettivo principale di Said in Orientalismo, come lo stesso autore ha più volte sottolineato, non era tanto la critica di una qualche falsa nozione dell’Oriente presente nell’immaginario col- lettivo della cultura occidentale quanto rendere problematica la stessa idea di Occidente, minando alla base la legittimità dei suoi criteri di rappresentazione.Attingendo oltre che a Foucault anche agli studi di Gramsci sull’egemonia, ciò che Said voleva dimostra- re era che il dominio dell’Occidente sull’Oriente funzionava an- che attraverso la produzione di certi “discorsi” dualistici sull’altro.

Muovo dall’assunto che l’Oriente non sia un’entità naturale data, qualcosa che semplicemente c’è, così come non lo è l’Occi- dente. Dobbiamo prendere molto sul serio l’osservazione di Vico che gli uomini sono gli artefici della loro storia, e che ciò che pos- sono conoscere è quanto essi stessi hanno fatto, per trasporla su un piano geografico: quali entità geografiche e culturali, oltre che storiche, “Oriente” e “Occidente” sono il prodotto delle energie materiali e intellettuali dell’uomo. Perciò, proprio come l’Occi- dente, l’Oriente è un’idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini e linguaggio che gli hanno dato realtà e pre- senza per l’Occidente. Le due entità geografiche si sostengono e

in una certa misura si rispecchiano vicendevolmente73.

Said precisa che sarebbe errato considerare l’Oriente essen-

zialmente un’idea, o una costruzione culturale priva di corrispet-

tivo materiale. Tuttavia, il problema che egli intende affrontare

72 Clifford J., Diasporas, in “Cultural Anthropology”, vol. 9, no. 3, 1994, pp. 302–38.

non sta tanto nel rapporto tra l’Oriente reale e la rappresentazio- ne che di esso ha l’Occidente, quanto nell’intrinseca coerenza del discorso dell’orientalismo nonostante, e prescindendo da, ogni corrispondenza o mancanza di corrispondenza con l’Oriente “reale”. L’ “Oriente” che emerge dagli studi ‘orientalisti’ (cosid- detti perché centrati sulle culture extra-europee tradizionalmente considerate ad Est dell’Europa) è per Said prettamente uno stru- mento, un “oggetto” che serviva alle culture di matrice europea per poter costruire la propria identità di “Occidente” e, parallela- mente, per ingabbiare le cosiddette culture orientali in formule stereotipate e generalizzanti, quando non disumanizzanti.

L’A. precisa poi che idee, culture e vicende storiche non pos- sono venire comprese se non si tiene conto delle forze storiche, o più precisamente delle configurazioni di potere, che ad esse sono sottese. Credere che l’Oriente sia stato creato – o, come gli piace dire, “orientalizzato” – per il solo gusto di esercitare l’immagina- zione, sarebbe alquanto ingenuo, oppure tendenzioso. Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia. Punto nodale dell’analisi di Said è infatti l’individuazione delle connessioni che legano la pro- duzione di teorie orientaliste in Europa e Stati Uniti con il nasce- re e l’ampliarsi del dominio imperialista, coloniale e neocolonia- le. Le teorie orientaliste sarebbero quindi uno strumento attivo e spesso consapevole dell’imperialismo. La struttura dell’orientali- smo non deve quindi essere vista come «una mera struttura di mi- ti e bugie, che si dissolverebbe come nebbia spazzata dal vento ap- pena la verità le venisse contrapposta»:

Personalmente, ritengo che l’orientalismo sia più veritiero in quanto espressione del dominio euroamericano, che co- me discorso obiettivo sull’Oriente (come vorrebbe l’orien- talismo accademico o comunque dotto). Nondimeno, ciò che dobbiamo rispettare e cercare di capire è la forte coe- renza del discorso orientalista, il suo stretto legame con vi- cende e istituzioni politiche e socioeconomiche, la sua ec- cezionale durata. “Dopotutto un sistema d’idee sostanzial- mente stabile che può essere insegnato (tramite università e istituzioni varie, libri, congressi e convegni) per un perio- do che da Ernest Renan, verso la metà del secolo scorso, arriva fino ad oggi, deve essere ben più solido di una mera

collezione di mistificazioni”. L’orientalismo, quindi, non è solo una fantasia inventata dagli europei sull’Oriente, quan- to piuttosto un corpus teorico e pratico nel quale, nel cor- so di varie generazioni, è stato effettuato un imponente in- vestimento materiale.Tale investimento ha fatto dell’orien- talismo, come sistema di conoscenza dell’Oriente, un filtro attraverso il quale l’Oriente è entrato nella coscienza e nel- la cultura occidentali.

In definitiva, ciò che Orientalismo ha cercato di mettere in evidenza è che ogni discorso (o rappresentazione) sull’alterità ap- pare fondato o legittimo soltanto all’interno del sistema di potere che l’ha prodotta. Sempre in sintonia col pensiero di Foucault, per Said ogni concettualizzazione, classificazione, definizione o sem- plicemente ogni descrizione dell’altro, più che rispondere a un qualche criterio di oggettività, deve essere ricondotta alle proce- dure discorsive di un particolare sistema ‘ideologico’ e politico. So- no quindi le regole specifiche di ogni singolo sistema ideologico- politico a produrre gli oggetti e i soggetti del proprio discorso. I discorsi sull’Oriente, dunque, hanno senso solo all’interno dell’ap- parato discorsivo occidentale dell’orientalismo.

L’orientalismo è appunto l’espressione di un pensiero riduzio- nistico e dualistico che funziona per contrapposizioni gerarchiche tra “Noi” e “Loro”.Tipico delle teorie orientaliste è la tendenza a ‘banalizzare’ grandi complessi culturali – come l’Islam, l’India o addirittura l’intera Asia – riducendoli a pochi caratteri generali – quali ad esempio quelli di spiritualismo, irrazionalismo, fanatismo, dispotismo, e così via – considerati come immutabili. L’Islam ten- derebbe quindi costitutivamente al fanatismo; il pensiero indiano tenderebbe per natura al misticismo; tutti i popoli asiatici sarebbe- ro per natura impossibilitati a costruire una ‘vera’ democrazia. Ti- pica del pensiero orientalista è poi l’estensione a tutti gli individui appartenenti alle varie culture asiatiche dei valori propri di quelle culture, rinforzando in tal modo l’assunto di partenza che oppone l’“Occidente individualista” all’ “Oriente dispotico”.

Sulla base di queste considerazioni appare chiaro perché nel- la prospettiva di Said l’esperienza coloniale risulti inscindibile dal- l’identità moderna occidentale.

5.3 Homi Bhabha

Nell’impostazione psicoanalitica di matrice lacaniana74 di Homi

Bhabha, il “discorso coloniale” è letto in termini di segni e sim- boli che, in linea con quanto argomentato da Said, hanno in qual- che modo organizzato l’esistenza, l’esperienza e la riproduzione sociale all’interno del mondo caratterizzato dalla dominazione colonialista. Il discorso coloniale è cioè un sistema inconscio, sim- bolico, di credenze e conoscenze finalizzato sia alla produzione di determinate concezioni sul sé e sull’altro, sia al rafforzamento del- le strutture sociali, politiche ed economiche del colonialismo.

Nel modello di Bhabha, il pensiero coloniale procede per “contrapposizioni stereotipiche”. Per mezzo degli stereotipi, l’ap- parato discorsivo del potere colonialista offre sì l’immagine di

74 La psicoanalisi lacaniana ha contribuito notevolmente alla creazione del cli- ma “anti-umanista” tipico dell’età postmoderna. Lacan rimuove quegli aspetti ancora sostanzialistici presenti nella teoria freudiana dell’inconscio, introducendo nella psicanalisi lo spirito strutturalista che lo porta ad un’in- terpretazione originale e “rivoluzionaria” dell’inconscio: non più luogo ori- ginario, sacco custode di significati autentici, ma struttura linguistica social- mente eterodeterminata. Con Lacan si perde definitivamente il riferimento ad un significato interno e psichico, che ancora garantiva un fondamento di verità al soggetto in Freud e tramonta definitivamente la fiducia nell’Io co- me istanza distinta dall’inconscio e luogo del possibile recupero delle sue pul- sioni: per Lacan l’Io, ridotto a pura illusione, è un prodotto dell’inconscio stesso. Negli Scritti si legge: «Je pense, donc je suis (Cogito ergo sum) non è solo la formula in cui si costituisce, con l’apogèo storico di una riflessione sulle condizioni della scienza, il legame con la trasparenza del soggetto trascenden- tale della sua affermazione esistenziale. […] Il posto che occupo come sog- getto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico? Ecco il problema. Si tratta qui di quel- l’essere che appare solo per il lampo di un istante, nel vuoto del verbo “esse- re”, e ho detto che pone la sua questione per il soggetto. Che vuol dire? Non la pone davanti al soggetto, perché il soggetto non può venire al posto in cui esso la pone, ma la pone al posto del soggetto, cioè in questo posto pone la questione con il soggetto, così come si pone un problema con una penna, e come l’uomo antico pensava con la sua anima. […] Ciò che pensa così al mio posto è dunque un altro io? […] In altri termini, questo altro è l’Altro che è invocato persino dalla mia menzogna come garante della verità in cui sussi- ste. Nel che si osserva che è con l’apparizione del linguaggio che emerge la dimensione della verità». Cfr. Lacan J., Scritti, Einaudi,Torino 1972.

un’alterità socioculturale chiusa e a-temporale, ma nel far questo “addomestica” e rende innocuo ciò che potrebbe destabilizzare la propria identità o visione del mondo. In altre parole, la pubblica “banalizzazione” dell’alterità attraverso lo stereotipo, in un’ottica psicoanalitica, non è sintomo di ignoranza o falsa coscienza, ma è piuttosto il tentativo di sopperire ad una debolezza intrinseca del- l’identità unitaria e monolitica, debolezza che le deriva appunto dal carattere artificiale e costruito della sua presunta unità. Per questo motivo, conclude Bhabha, i criteri di rappresentazione del- l’apparato discorsivo del potere colonialista risultano interamente pervasi da quello che Fanon chiamava un “delirio manicheo”, da una logica binaria e dicotomica che raffigura il sé e l’altro da sé come delle essenze contrapposte, come forme socioculturali chia- ramente delimitate, distinte e distanti. Scrive Bhabha:

Un tratto importante del discorso coloniale è la sua dipen- denza dal concetto di “fissità” nella costruzione ideologica dell’alterità. La fissità, come segno della differenza cultura- le/storica/razziale nel discorso del colonialismo, appare una modalità di rappresentazione paradossale: connota rigidità e ordine immutato tanto quanto disordine, degenerazione e ripetizione demoniaca. In modo simile lo stereotipo, strate- gia discorsiva di primo piano, è una forma di conoscenza e identificazione che oscilla fra ciò che è “al suo posto”, già noto, e qualcos’altro, che dev’essere impazientemente ripe- tuto[…] come se l’essenziale doppiezza dell’asiatico o la bestiale licenziosità sessuale dell’africano, che non ha certo bisogno di prove, non possano davvero mai essere provate all’interno di un discorso75.

In termini strettamente lacaniani, si può dire che nello sche- ma di Bhabha lo scopo dello stereotipo colonialista sia quello di “suturare” la ferita provocata dal trauma di una identità infondata, in questo caso quella occidentale. Da questo punto di vista, lo ste- reotipo rappresenta l’effetto di un’identità la cui pienezza e com- pletezza viene continuamente minacciata dalla differenza, cioè dal- la diversità di razze, colori e culture, dalla mancanza e dal vuoto.

Alla base del discorso razzista del colonialismo c’è di nuovo il pro- blema dell’origine e dell’identità, stavolta analizzato su un piano psicoanalitico. In virtù di tale impostazione per Bhabha il discor- so coloniale è in realtà profondamente ambivalente e instabile.Ta- le instabilità intrinseca è alla base della possibilità della resistenza.

La resistenza non è necessariamente un atto oppositivo che evidenzi intenti politici, né la semplice negazione o esclusione del contenuto di un’altra cultura, intesa come differenza un tempo percepita; è invece l’effetto di un’am- bivalenza creatasi entro le regole di riconoscimento di di- scorsi dominanti che sviluppano i segni della differenza culturale, implicandoli nuovamente nelle relazioni di ri- spetto del potere coloniale – gerarchia, normalizzazione, marginalizzazione e così via.

Questo processo è stato denominato da Bhabha “mimicry”, e si basa appunto sul presupposto foucaultiano secondo cui nes- sun sistema di potere, per quanto totalizzante e pervasivo, fun- ziona in modo perfetto, ovverosia riesce a neutralizzare del tut- to la soggettività e quindi la capacità di resistenza dei subordina- ti. La mimicry, o imitazione, designa quella situazione in cui i na- tivi, sollecitati dai discorsi coloniali a imitare i comportamenti e le credenze dei colonizzatori, danno invece luogo a fenomeni culturali di sincretismo che rappresentano in qualche modo una

parodia o, nelle parole dell’A., una “brutta copia” dell’originale.

Questo modo di concepire la resistenza in termini di contro-do- minio, contro-Storia, contro-memoria richiama strategie analo- ghe teorizzate da altri autori poststrutturalisti. Contrariamente a quanto emerge dalle prospettive di questi altri autori però, la mi-

micry nello schema di Bhabha non è una forma di resistenza ve-

ra e propria, ma descrive invece un processo nella costruzione di potere che opera in modo simile all’inconscio di Lacan. Robert Young ha proposto appunto di parlarne come una sorta di «in-

conscio coloniale»76. Questo carattere esclusivamente inconscio

76 Young R., Mitologie bianche, Meltemi 2007. Si vedano anche: Colonial Desi-

re. Hybridity, Culture and Race, Routledge, London 1995; Introduzione al Po- stcolonialismo, Meltemi, Roma 2005.

della mimicry di Bhabha è però all’origine della sua problemati- cità. Non è del tutto chiaro infatti – come ha sottolineato an- cora Robert Young – se i soggetti siano consapevoli delle pro- prie pratiche sovversive o se l’atto della resistenza sia da ascri- vere all’interpretazione (alla scrittura) dello storico o del criti- co postcoloniale.