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Superare il dualismo e vedere l’ingiustizia

Vedere l’ingiustizia

4. Superare il dualismo e vedere l’ingiustizia

Tanto le teoriche dell’Empirismo Femminista e della Feminist

Standpoint Theory quanto quelle del Femminismo Postmoderno muo-

vono da una concezione dinamica, relazionale, incarnata e situata del self, in cui intervengono codici linguistici e simbolici e rappor- ti di potere sociale che imbrigliano le possibilità di autorappresen- tazione e autorealizzazione dei singoli e delle singole. La differen-

za tra queste concezioni consiste nella differente priorità data ai termini in gioco, che sono identità e soggettività da un lato e po- tere simbolico e sociale dall’altro. Le femministe empiriche dareb- bero senza ombra di dubbio la priorità al self e alla sua capacità di rivoltare sempre e comunque le carte in tavola e di costituirsi co- me essere unico, contro i codici e le costrizioni sociali. In tal sen- so, si è detto più volte che esse postulano la separabilità del self dal potere, con il rischio però di sottovalutare alcune forme struttu- rali di ingiustizia. È altrettanto fuor di dubbio che molte femmi- niste “del punto di vista” e postmoderne più inclini al costruttivi- smo sociale darebbero invece la priorità a quei codici e a quelle costrizioni, salvo poi riproporre una concezione fortemente indi- vidualistica della resistenza e dell’agency. Prendendo distanza da queste modellizzazioni, vorrei proporre di non dare a priori la priorità a nessuno dei termini suddetti, ma di prestare attenzione piuttosto al processo che intercorre tra essi. In tal senso prediligo una concezione non unitaria della soggettività, perché la ritengo più produttiva a fini euristici.

Il concetto di soggetto non unitario rimanda appunto alla stretta imbricazione (e quindi al processo che intercorre) tra sog- gettività, identità e potere, quest’ultimo inteso come potestas e

potentia. La soggettività etico-politica ha a che fare con il piano

dell’azione sociale e rimanda alla questione di un soggetto capa- ce o meno di azione e interazione. Richiama quindi i concetti di agency, empowerment, coscienza e volontà e delle condizioni che li rendono possibili o meno. L’identità ha a che fare con il pia- no del desiderio inconscio incarnato, indice della non coinci- denza del soggetto con la coscienza e della sua materialità cor- porea, e rimanda al tempo interno della memoria e delle narra- zioni. Il self è solo una percezione psicologica di cui abbiamo bi- sogno per agire, ma il soggetto non coincide con tale percezione o finzione dell’Io. Per dirla con Braidotti: la soggettività designa «il processo consistente nell’aggregare i casi reattivi (potestas) e attivi (potentia) di potere, sotto l’unità narrativa dell’io gramma- ticale. Il soggetto è un processo, fatto di spostamenti e negozia- zioni continui tra diversi livelli di potere e desiderio, vale a dire tra scelta volontaria e pulsioni inconsce. Qualunque parvenza di unità possa esservi, non si tratta di un’essenza di origine divina, bensì della coreografia narrativa di tanti livelli in un unico sé so-

cialmente attivo. Quanto sostiene l’intero processo…è il deside- rio...vitale...di divenire»75.

La mappatura delle relazioni di potere che si inscrivono nel- la corpo-realtà (intesa come luogo di interazione tra desiderio e volontà) tanto in senso spaziale quanto in senso temporale, è fon- damentale per sviscerare le dinamiche dell’ingiustizia, ma anche quelle dell’agency e dell’empowerment.Abbiamo detto che in un’ot- tica individualista il self è inteso in senso prevalentemente spazia- le e il momento temporale è ridotto alla coscienza. L’individuo/a cioè è un’entità che grazie alla propria forza di volontà e capaci- tà di scelta entra ed esce più o meno a piacimento dalle proprie relazioni, occasionalmente soccombe all’oppressione – a causa di impedimenti prevalentemente esterni – da cui può sempre riscat- tarsi, semplicemente scegliendo l’opzione della libertà. Se non ce la fa da solo/a, c’è sempre la possibilità di ricorrere alle corti. Se- condo Nussbaum: «La cultura può plasmare e riplasmare alcuni aspetti della nostra esistenza corporea, ma non tutti. Questo è un fatto importante anche per le femministe, dal momento che i bi- sogni nutrizionali delle donne (e i loro particolari bisogni, quan- do sono in gravidanza o allattano) sono un importante tema fem- minista. Anche quando la differenza sessuale è messa in questione, è sicuramente semplicistico derubricarla come mera “cultura”; e le femministe non dovrebbero precipitarsi a compiere questo ge-

sto così estremo»76.

Sottoscrivo in toto questa critica ad un costruttivismo sociale inteso in senso perverso, come già anticipato nella descrizione dei “saperi situati” prodotta nel primo capitolo. Indubbiamente la di- mensione anche biologica e fisiologica della corporeità non può essere trascurata se vogliamo inventarci politiche efficaci che con- trastino i problemi della povertà e della fame (e la stessa femmini- lizzazione della povertà). È altrettanto innegabile che gran parte delle rappresentazioni del corpo care ad un certo femminismo ac- cademico radical chic – che di esso fanno appunto una mera que- stione di cultura o di performance – si riallacciano ben poco al-

75 Braidotti R., Metamorfosi..., cit., 2003. 76 Nussbaum M., Così si manda..., cit., 2005.

l’esperienza che della propria carne ha o può avere la maggior parte delle donne reali, di diverse generazioni ed estrazioni socia- li e culturali. Basta farsi una chiacchierata con le proprie nonne, o con le nuove generazioni di teen-agers per avere il sospetto che il femminismo non sia addirittura mai esistito. Tuttavia è pur vero che la considerazione dei bisogni primari non può essere l’unico

target della politica femminista ovunque e allo stesso modo e che

oltre a ciò, proprio ai fini della effettività delle stesse politiche di sviluppo e dei diritti umani, i destinatari/le destinatarie di tali po- litiche non possono essere concepiti/e solo o prevalentemente come soggetti che hanno dei bisogni. Oltre a ciò, finché ci osti- niamo a pensare il soddisfacimento dei bisogni come una opera- zione puntuale, ad intermittenza, determinata cioè dal semplice premere l’interruttore della capacità di scelta, e non invece come una operazione complessa che coinvolge purtroppo il contesto in cui quei bisogni si formano e vengono o meno soddisfatti, c’è di che dubitare sul fatto che le politiche dello sviluppo e dei diritti umani godano di una accettabile effettività.

Se si presta attenzione al processo non solo le condizioni che ci assoggettano a regole e habitus ma la stessa agency nasce dall’in- terno del processo stesso. Agency significa quindi essere capaci di, ma nel senso di essere posti nelle condizioni materiali e simbo- liche di pensare e agire. Da questo punto di vista l’agency e la ca- pacità di autodeterminazione sono sì positive nel senso che so- no indici di una forza propulsiva (potentia) che impone di dive- nire, ma non hanno una connotazione positiva nel senso mora- le, come se cioè mirassero sempre e comunque ad un bene. La positività di una scelta si misura dalle conseguenze che essa de- termina. Non è possibile stabilire in anticipo e con certezza co- me evolverà l’identità di una persona, che scelte farà. È possibi- le semmai fare delle previsioni conoscendone il contesto di svi- luppo, e come ben sappiamo prendendo in considerazione il suo patrimonio genetico.

Le autrici poststrutturaliste e “del punto di vista” ci ricorda- no che la presunta unicità delle persone è in realtà una caratteri- stica squisitamente contingente. Ciò che siamo diventati/e è da un lato necessario – nel senso che è inscritto (embedded) nella nostra corporealtà condizionata e nell’intreccio di relazioni simboliche e materiali in cui ci siamo formati/e e che ci rendono un insieme

di possibilità e potenzialità in progress – e dall’altro specifico, uni- co, particolare come un punto in una mappa. Le autrici liberali d’altra parte ci ricordano che “il sentirsi al centro” non deve esse- re visto come qualcosa di negativo in sé, né ogni posizione decen- trata deve essere vista come buona in sé.

Il fatto che descrittivamente l’identità umana possa essere de- finita come plurale, ibrida, decentrata, non significa che sul piano psicologico sia percepita come tale. Il soggetto, concepito come agente o attore sociale, non può che essere autocentrato. Ma, allo stesso tempo, il fatto di riconoscere il carattere non unitario della soggettività (e dell’identità), ovverosia il suo consistere in flussi e linee di divenire, non significa che dobbiamo sentirci o diventare tutti schizofrenici. «The point is that the process, the movement and the trajectories of these lines of becoming deserve more at- tention than any of the specific identity formations they give rise

to.The flows matter more than steady roots»77.

In definitiva, la diatriba sulla unitarietà o non unitarietà del soggetto è un falso problema, dal momento che se da un lato il soggetto non è e non è mai stato unitario, e così pure l’identità umana, perché sono processi che intervengono in complessi rap- porti di potere/sapere/desiderio, dall’altro lato deve sentirsi in qualche modo unitario per poter agire ed anche per poter essere decostruito.