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sul cinema di isaki lacuesta

Nel documento 52° Festival dei Popoli (pagine 84-89)

DANIELE DOTTORINI

Se ricolloco l’immagine davanti a me, essa apre la porta o piuttosto la scardina. (Georges Bataille)

L’immagine è aperta in più di un senso: le immagini si aprono e si chiudono come i nostri corpi che le guardano, afferma Didi-Huberman, esse ci abbracciano, “si aprono a noi e si richiudono su di noi nella misura in cui suscitano in noi qualcosa che potremmo chiamare un’esperienza interiore”1. Il

rapporto è tutto tranne che di distacco; nell’immagine evocata dal filosofo e storico dell’arte francese, c’è un rapporto implicito tra il ritmo del corpo – ma anche dello sguardo, del pensiero – e l’immagine, mai univoca, chiusa, unilaterale. L’immagine non smette di frammentarsi, di aprirsi, appunto, come un corpo, e il suo pulsare ritmico, come il batter d’occhi di cui parla Walter Murch, crea lo strano accordo tra il nostro sguardo, il nostro pensiero e il cinema stesso. L’immagine non è mai una, non è mai tutta. È da questo punto di vista allora che essa è condannata a riaprirsi, ad essere potenzialmen- te inserita in nuovi circuiti di montaggio, in nuove possibilità di vita. In questa prospettiva l’immagine – ogni immagine – è sempre aperta perché sempre legata all’incontro con un corpo e uno sguardo. Il tempo dell’immagine non è mai dato una volta per tutte. Il cinema che si muove lungo questa linea assume allora il nome di contemporaneo. Come il cinema di Isaki Lacuesta.

sPettri

L’immagine è aperta anzitutto perché abitata da figure spettrali. Se c’è un aspetto che corre tra- sversalmente lungo tutta l’opera di Isaki Lacuesta è proprio la volontà di interrogare l’immagine, di mostrarne la costitutiva apertura, il ritmo interno (ed esterno) che si attiva ad ogni incontro con essa. Il cinema – e anche ciò che si pone ai confini del cinema stesso, o al suo centro, vale a dire l’immagine contemporanea in tutte le sue forme – non è un luogo già dato, già previsto, sempre uguale; è, al contrario, il luogo di un incontro. L’incontro tra uno sguardo cinematografico e le im- magini che ne risultano; l’incontro tra le immagini prodotte da altri e lo sguardo che è chiamato ad organizzarle; l’incontro, infine, tra questo rapporto e chi (lo spettatore) è chiamato ad assistervi. Fin da Cravan vs Cravan (2002), il meccanismo è già dispiegato. Il personaggio che dà il titolo al film, il boxeur-poeta Arthur Cravan è un protagonista assente o, meglio, un’immagine assente che, come tale, deve invece essere ritrovata, ricostruita, finanche immaginata. Cravan non è unico, non è uno, ma è molti, come lo sono i tentativi di avvicinarlo, di ripercorrerne le tracce.

Il cinema è allora anzitutto indagine, quest o detection delle e con le immagini, attraverso le immagini, siano esse poche o innumerevoli. I percorsi dialogano l’uno con l’altro, i film si richia- mano, al di là delle loro diversità. In questo senso, contrappunto necessario all’indagine sospesa di Cravan vs Cravan, è un’altra indagine, un altro mistero: quello proposto in La noche que no

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acaba2 (2010). Un salto in avanti nel tempo, dal lungometraggio d’esordio a un film recentissimo;

un salto che è anche il segno di un legame particolare che caratterizza le opere di Lacuesta e che le pone in una sorta di dialogo continuo l’una con l’altra. Ne La noche è l’immagine di Ava Gardner a permanere, ripetutamente, in un luogo, in uno spazio che è quello, anzitutto, della memoria. Le immagini della diva hollywoodiana tornano ossessivamente in un montaggio che le fa rivivere e le interroga, appunto. Ava Gardner è, come Cravan, un’immagine spettrale, ma il cinema può e deve raccontarne la vita, i desideri, i misteri. Il cinema di Lacuesta abbonda di spettri “viventi” (Jean Rouch, Chaplin, Naomi Kawase, Chris Marker): si tratta spesso di spettri di cinema, di immagini che continuano a dialogare, malgrado tutto.

Il montaggio – o, meglio, il rimontaggio – delle immagini è ciò che permette ancora una volta alle immagini di aprirsi, di riattivare il loro potere, di farsi segno, senso, ricettacolo di emozioni, pensieri, tempo e sensazioni. La noche que no acaba è, in fondo, il titolo ideale per descrivere la potenza delle immagini come sogno, desiderio potenzialmente infinito. Lo spettro di Ava Gardner si aggira ancora nei luoghi da lei amati in Spagna ma, soprattutto si aggira nelle pieghe di quelle immagini, nelle foto rubate, nei fotogrammi di un film, nello sguardo di chi l’ha conosciuta o incontrata, sia pure per una sola volta, nelle parole di chi la ricorda. Il cinema è una questione di spettri, prima di tutto. Lo si è detto.

incontri

Non solo. L’immagine è aperta perché costitutivamente proiettata verso più sguardi, in più direzioni. Il cinema comunica se è intimo, personale, come una lettera. Una ‘lettera aperta’, diceva Serge Daney. Quando si filma si incontra sempre qualcosa o qualcuno e si proietta questo incontro verso qualcosa o qualcuno. In Las variaciones Marker (2007), il punto di partenza sono le immagini dei film di Chris Marker, già di per sé frutto di un incontro, già di per sé riprese altrove. Dunque perché non prenderle, ripensarle di nuovo, rivederle per creare un nuovo spazio di visione? Il film nasce da altri film, da altre immagini che, a loro volta, suscitano interrogativi, riflessioni. La voce fuori campo non commenta le immagini, ma costruisce un nuovo percorso con esse, reinventa un nuovo sguardo sul mondo, mo- strandole in una nuova configurazione, in un nuovo montaggio, appunto. Cinema epistolare, intimo e pubblico al tempo stesso. La ‘lettera aperta’ di cui parlava Daney è anzitutto una missiva indirizzata a chi si fa ‘autore’ delle immagini; ma ‘autore’ in un senso molto ampio. È un discorso che si apre, che permette di ripensare e commentare quelle immagini: in ultima istanza, un’operazione critica. Se Las variaciones Marker è quindi una critica delle immagini (intendendo allora la critica come ulteriore apertura delle immagini stesse) è la forma della lettera a rendere il cinema al tempo stesso intimo e universale. In Between Days (2009) è appunto un epistolario cinematografico tra Lacuesta e la cineasta giapponese Naomi Kawa- se. Come sempre, l’occasione è quella di un incontro, fuggevole, minimo ma significativo. Un incontro fra due sguardi, un incontro che lascia una traccia e che permette ad un film di nascere. Ancora una volta, si tratta di fare sì che le immagini scorrano non come qualcosa di riconoscibile, scontato, già dato, ma come uno spazio e un tempo che si apre alla riflessione, alla scoperta, all’esperienza prima, allo stupore poi. Lo spazio del reale si dispiega a partire da uno sguardo, da un doppio sguardo (quello dei due registi che si incrociano, si cercano, si rispondono l’un l’altro): cinema del soggetto o dei soggetti. Da qui ogni percorso è possibile:

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In Between Days è uno spazio dove i sentieri si moltiplicano, le occasioni di incontro altret- tanto. Un film potenzialmente infinito, In Between Days, in cui ogni sequenza sorprende, lascia incantati, perché l’incontro molteplice, stratificato degli sguardi inaugura l’apertura (e dunque la sorpresa, lo stupore) di ogni immagine.

conFini (labili)

C’è un ulteriore modo di pensare l’apertura dell’immagine che si affaccia all’orizzonte nelle ope- re di Lacuesta e che ancora di più ne mostra la dimensione contemporanea. C’è una linea sottile che da sempre congiunge (anziché dividere) due categorie sin troppo abusate, come quella di fiction e di documentario. Lacuesta, in questo perfettamente interno alla linea feconda del ci- nema catalano contemporaneo, si muove sin dall’inizio negando tale distinzione, interrogando l’immagine già di per sé come aperta alla sua ambiguità, al tempo stesso totalmente oggettiva e totalmente soggettiva, come diceva Pasolini. Ecco, Pasolini: è alla grande intuizione teorica

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pasoliniana – la soggettiva libera indiretta – che ci si rivolge con la memoria di fronte alla im- magini del cinema di Lacuesta. La soggettiva libera indiretta: la capacità del cinema di giocare liberamente dentro e fuori lo sguardo soggettivo del regista e dei personaggi, dentro e fuori l’og- gettività assoluta (la flagranza del reale) di ciò che viene filmato e, al tempo stesso, dentro e fuori la sua soggettività, il fatto cioè che ogni immagine è sottomessa allo sguardo, ne è permeata, trasformata, riaperta.

Marte en la Tierra (2007) è, da questo punto di vista, un percorso teorico (e al tempo stesso pro- fondamente poetico) sul doppio regime delle immagini. Un luogo, un territorio desertico della Spagna, famoso per la sua somiglianza con il pianeta Marte, diventa l’occasione per un viaggio visionario, al tempo stesso esplorazione del reale e rivelazione della sua visionarietà. Il territorio si anima: un uomo e una donna che ne registrano il suono, perdendosi nei meandri delle gole e dei canyon; altri personaggi, che sembrano provenire da un tempo sospeso, si aggirano in quel luogo misterioso; scienziati ed esperti che studiano da tutta una vita la conformazione di quel territorio: corpi, personaggi e luoghi al tempo stesso immaginari e reali, che contribuiscono alla costruzione di un film visionario e mobile e, al tempo stesso, capace di entrare nella densità, anche materiale, del reale (basti pensare all’uso del dettaglio, del primissimo piano capace di immergersi nei colori, nelle forme e nella consistenza di un paesaggio).

Cosa c’è di più reale della terra? Non tanto il pianeta (per il quale avremmo usato la T ma- iuscola), ma la ‘terra’, il suolo, la materia sulla quale siamo sospesi, camminiamo, viviamo, ridiamo. Un cinema del reale non può non fondarsi sulla terra, non può non stare sulla terra. Ma stare sulla terra significa osservarla, mostrarne la densità, certo, ma anche la storia, i segreti, la memoria. Strani cortocircuiti si creano allora tra due film apparentemente diversi come Soldados anonimos (2008) e Los condenados (2009); un film (il primo) che documenta la ricerca, da parte di alcuni giovani studiosi, di reperti in una fossa comune risalente alla guerra civile spagnola, e un altro film (il secondo), che racconta la ricerca di un corpo nasco- sto e dimenticato, come la guerra che ha combattuto. In entrambi i casi la terra nasconde e svela la memoria, la speranza, il segreto tenuto per troppo tempo nascosto. In entrambi i casi, il confine tra fiction e documentario si confonde, diventa sempre più labile. Due film che si richiamano l’un l’altro, che riecheggiano l’uno nell’altro come i più recenti Los pasos dobles (2011) e El cuaderno de barro (2011). Partito per il Mali per filmare l’opera del pittore Miquel Barceló, Lacuesta si rende conto che il film previsto deve diventare un doppio film; l’immagine si apre ancora una volta e, ancora una volta, è l’incontro a determinare il cinema, la sua forma o, meglio, le sue forme. Le immagini continuano a dialogare tra loro, a richia- marsi, spezzando le barriere tra fiction e documentario. Come ne La leyenda del tiempo. Un film con dei personaggi è una narrazione, si potrebbe obiettare, una finzione, un film a soggetto. Certo, ma il soggetto non è altro che il tempo che cambia, modifica, trasforma i corpi; quello di Israel anzitutto, il ragazzino gitano che scopre la musica e che noi seguiamo durante le trasformazioni dell’adolescenza, nel cambiamento della voce e del suo canto. E intorno a lui si muovono altri personaggi, còlti, incontrati in un luogo, seguiti nel loro pe- regrinare, aspettare, sospendere, il tempo come lo spazio. La leyenda del tiempo si pone dunque al di là del confine, dell’idea stessa di una distinzione tra finzione e documentario; è, esplicitamente, cinema del reale.

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Fare un cinema del reale significa fare un cinema che interroga la realtà come qualcosa di non scontato, mostrando immagini che si aprono continuamente a nuove interrogazioni, mostrando lo scarto che si crea ogniqualvolta nasce un’immagine, lo scarto tra ciò che si filma e il mondo. immagini dietro altre immagini

Nel percorso che corre parallelo lungo l’opera di Isaki Lacuesta, lo scarto tra l’immagine e il reale si concentra spesso sulle forme dell’artificio, su quelle immagini che nascondono più che mostrare, che costruiscono una rappresentazione apparentemente lineare e coerente, ma che si scontrano con le crepe, le fratture del reale. Lugares que no existen (Goggle Earth 1.0) (2008-2009) è, da questo punto di vista, il lavoro che raccoglie tali istanze, rilanciandole in un’opera che è anche un gesto teorico particolare. Sospeso tra cinema e installazione, Goggle Earth3 lavora su una doppia immagine, quella dell’applicazione/satellite digitale più

famosa del mondo (Google Earth, appunto) e uno spazio che non è visibile dal satellite, che non è segnato sulle sue mappe virtuali. Spazio che è anche uno spazio di reclusione, di esclusione, un campo di contenimento di persone che hanno perso il loro status, che sono confinate contro la loro volontà. Muovendosi, dentro e fuori dalla forma cinematografica, Goggle Earth esplora la possibilità dello sguardo di esplorare le zone invisibili dello spazio mediatico contemporaneo. Opera politica, Goggle Earth riflette teoricamente sul rapporto tra visibilità e capacità discorsiva, possibilità di essere visti e di poter presentare la propria voce. È su questa dialettica, sospesa tra visibilità e presenza reale, che si snoda il lavoro di Lacuesta nell’ambito dell’istallazione e dei cortometraggi, lavori che sospendono la cre- denza nell’immagine senza negare la fede nel mondo: dall’iperrealismo in El rito (2011) al raddoppiamento dello stesso volto e dello stesso corpo in 2012 (2010); dalla serie di film corti sulle forme artificiali dell’immagine – Teoria dels cossos (2004), Esbozo (2003), Microscopías (2003), Ressonàncies magnètiques (2003) – al montaggio simultaneo di immagini e schermi nell’istallazione Traços/Traces (2007): il montaggio diventa sempre più frammentario e ar- ticolato, svelando non più solo l’immagine come forma aperta, ma l’immagine come fram- mento, traccia, residuo e scarto di un flusso continuo, il flusso della contemporaneità. Gli stracci e gli scarti, però, non si gettano mai, da essi può sempre aver luogo una redenzione (del mondo). Ecco allora disegnarsi il senso di un’interrogazione continua dell’immagine, del suo ruolo e del suo statuto attuale. Un’interrogazione che rende, ancora una volta, giustizia al cinema e alla sua potenza (di sguardo e di smarrimento).

note

1. G. Didi-Huberman, L’Image ouverte. Motifs de l’incarnation dans les arts visuels, Gallimard, 2007. 2. Traduzione: La notte che non finisce.

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