LA FOTOGRAFIA DI UN LIBRO. APPUNTI SUL FOTOTESTO POETICO
IV. Perché i poeti, nel tempo della tecnologia digitale? Nel tempo cioè in cui la determinazione della dimensione storica è in rapporto alla disponibilità all’interno di un sistema, il mercato, e in cui
tecnologia e economia sono dispositivi che si regolamentano a vicenda? È inevitabile, in questo senso, che scrivere poesia nel tempo delle tecnologie digitali e del neoliberismo sia attività che non può confrontarsi con il problema della scrittura come merce. Proprio La casa esposta, come si è visto, non poteva fare a meno di evidenziare il rapporto tra produzione di senso, anche per mezzo della poesia, e merce; e questo adottando una strumentazione espressiva, il fototesto, che è tipica del più mercificato e mercificante dei discorsi, quello pubblicitario.
I poeti dell’Ottocento si rappresentavano come cantori, bardi, e scrivevano liriche o lieder: il poeta rappresentava la sua attività attraverso metafore musicali perché la musica appariva, all’epoca, come la meno banausica delle arti: la meno appropriabile dal mercato (proprio in mancanza di strumenti di riproduzione tecnica del suono)(38). Al contrario, in epoca contemporanea il poeta tende a sottolineare, in vari modi, la contiguità della poesia con le arti di visione: probabilmente perché è stato proprio nell’ambito delle arti visive che si è provveduto a concettualizzare la cornice come dispositivo di polarizzazione del messaggio estetico; ciò che consente di opporre delle forme di resistenza ai tentativi di appropriazione da parte del mercato. Come la circolarità del senso tende a riattivarsi infinitamente anche a dispetto dei tentativi di distruzione e sabotaggio interni o esterni, allo stesso modo, all’interno del mercato, la mercificabilità di ogni oggetto è infinita e imprevedibile, e opera malgrado l’intentio auctoris. L’incorniciamento, l’operatività sul contesto di fruizione, mediante vari tipi di operazione estetica, consente, nonostante le mille forme di reificazione che colpiscono l’oggetto estetico (sociali e formali), di porre il produttore di oggetti estetici in una posizione di relativa indipendenza rispetto a altre forme di produzione di senso, che tendono a interferire sullo sviluppo del messaggio stesso dell’oggetto estetico.
Le tecnologie digitali parrebbero svolgere un duplice ruolo riguardo all’oggetto estetico: da un lato sembrano procedere dallo stesso mondo ideologico che tutto riduce a merce, assecondando alcune forme di reificazione dell’oggetto estetico; dall’altro sembrerebbero poter fungere da antidoto contro altre forme di reificazione dell’oggetto estetico. Così, la chiusura formale, l’organizzazione macrotestuale, se da un lato appare come una protezione rispetto all’entropia del senso indotta dal mercato, dall’altro è innanzitutto ciò che rende l’oggetto estetico circolabile e smerciabile.
La prima rivoluzione che l’oggetto estetico dovrebbe patire in seguito all’introduzione, dal punto di vista delle infrastrutture di realizzazione, di tecnologie digitali, dovrebbe essere l’abbandono della fissità della forma; l’impossibilità di esaurire l’opera in una forma fissa dovrebbe a sua volta dar vita all’idea di opera come rappresentazione o incorniciamento della semiosi illimitata, dell’entropia del senso, da un lato, o all’abbandono stesso dell’idea di opera, per concentrarsi sulla dimensione del processo del fare artistico. Eppure, per molti poeti è ancora il libro di poesia il punto di arrivo formale: e questo perché, a ben guardare, le tecnologie digitali hanno, in vari modi, la capacità di riprodurre e quindi rendere smerciabili anche i processi stessi, oltre che i prodotti finiti. Ecco perché di questa forma di reificazione del senso che è l’oggetto libro, i poeti passati in rassegna fanno un impiego che è insieme feticistico, strategico, in parte persino parodico: evidenziandone un uso ambiguo, e opaco. Se non abbandonano questo antico supporto, d’altro canto impiegano forme citazionistiche come il cut-up, o la commistione testo/immagine, rese molto più semplici da realizzare e adottare dalla tecnologia: dispositivi retorici tipici del discorso commerciale, qui impiegati al contrario “ultra su’ grato” per aumentare esponenzialmente l’opacità del messaggio. L’uso che la politica fa oggi delle tecnologie digitali tende a creare l’erronea illusione che queste siano in grado di ridurre l’ambiguità; di ridurre la dispersione del senso. La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte si configura anzitutto come riproduzione dei meccanismi del dominio per via intertestuale e come mito della leggibilità infinita dell’opera, di una sua assoluta trasparenza. L’estetica delle grandi riviste, dei siti internet continuamente, per mezzo di forme disparate di lirismo, alimenta il mito che la parola e l’immagine possano potenziarsi a vicenda.
I fototesti poetici qui passati in rassegna oppongono a questo mito la soluzione dell’illeggibilità: e mostrandoci la riproducibilità tecnica dell’illeggibile, in fin dei conti, riescono nell’impresa sconcertante di fornirci, di cornice in cornice, non dei libri, ma fotografie di libri.
Si può dire infatti che i libri fin qui esaminati, per molti versi, dànno forma a una costellazione abbastanza coerente. In particolare, una serie di elementi sembra accomunare le foto accluse nei libri analizzati: la realtà è riprodotta per frammenti; la figura umana vi risulta assente o evocata solo per oggetti parziali, mai nella sua interezza; i luoghi non risultano identificabili; se si fotografano scritte, non sono complete, sono scentrate, sfocate; gli spazi mostrano i segni di un terribile sfacelo. L’immagine esprime a suo modo varie forme di negatività e di non sapere che caratterizzano anche i versi. Quanto al collegamento con i testi, risulta assente un richiamo sistematico dal punto di vista dei temi o di tipo referenziale: quando c’è, lo si esperisce in forme ambigue, mai riducibili a una regola, sempre smentite da movimenti successivi del testo. Testo e immagine condividono solo negatività. Come le immagini, anche i testi denotano in primo luogo varie forme di opacità. Non si riesce a condurre un discorso unitario coerente. Il montaggio non produce più unità; semmai addita e esibisce l’incomponibilità dei frammenti della realtà. I rari, disorganizzati richiami tra testo e immagine sembrano giocare come elementi di interruzione del caos, far sospettare per un attimo un ordine: che non c’è.
Una simile modalità di presentazione del reale contribuisce a proiettare all’interno del fototesto varie forme di illeggibilità. Le stesse pratiche di incorniciamento cui testo e immagini sono soggetti, la stessa cornice pragmatica che detta le regole di fruizione del testo pare più rivolta a una sottolineatura della dimensione di illeggibilità congiunta del fototesto (nei singoli elementi e nel suo insieme), che non a racchiudere i frammenti del negativo in un ordine.
La rappresentazione dell’illeggibilità attuata anche in forza di produzione di immagini, che appaiono concrezioni di illeggibilità all’interno del testo, vuole naturalmente esprimere qualcosa di più della constatazione dell’esistenza del caos. Gli autori si avvalgono di una modalità perversa – e entro certi limiti parodica – di impiego della fototestualità, fatta di multipli incorniciamenti: se la multimedialità si pone ai fruitori degli oggetti estetici multimediali come un’esperienza di senso aumentata mediante sedicenti supplementi di realtà, qui la multimedialità restituisce al contrario l’impossibilità dell’esperienza stessa. Si sa che l’impossibilità di realizzare, di compiere un’esperienza, è anche esito di un trauma.
Si annida in questi libri, pertanto, un trauma estetico, e più precisamente tecnologico: trauma della diffusione di una cultura prettamente visiva; trauma del ritorno alla scrittura in un’ottica di estetica
diffusa (ossia dell’abolizione di molte cornici estetiche); trauma dello scarto tra evoluzione tecnologica e orizzonte simbolico in cui si è immersi; terrore che gli strumenti stessi di realizzazione degli artefatti estetici possano colonizzarne e dominarne il senso. Allora, la transpittoricità di questi testi sembra per certi versi una sorta di correlativo perverso e parodico delle varie forme di assoggettamento simbolico che l’impiego della strumentazione tecnica del word processing e della fotografia digitale stanno importando nelle nostre forme di comunicazione, ivi comprese quelle estetiche: giungendo a risignificare il ruolo sociale e culturale di oggetti come il libro.
Non è un caso, infatti, che una delle metafore che più da vicino accompagnano la diffusione delle tecnologie digitali, da un lato, e d’altro canto il dibattito politico, sia ormai da anni quella della trasparenza, vero e proprio mot de la tribu del dibattito politico: ed è evidente che il paradigma e imperativo della trasparenza è un dispositivo di controllo politico delle classi dominate. Il sogno di un’assoluta trasparenza – che non è altro che il sogno tipico delle società neoliberali di una società caratterizzata da un controllo e un sapere assoluti – trova in questi libri dunque una risposta per le rime, fatta di un’apparente trasparenza, e di una voluta opacità. E in effetti, opacità è, in ambito di critica letteraria, il contraltare di questo imperativo alla trasparenza con cui il dominio sferza oggi la nostra società. Gleize, in un suo scritto intitolato appunto Opacité critique, affermava:
Dans un texte publié sous le titre «Un ciel enfermé dans l’eau» dans le livre Sorties (aux éditions. Questions théoriques en 2009) je caractérisais le moment que nous vivions (que nous vivons) comme celui où la droite la plus cynique et la plus violente, la plus grossièrement arrogante, et démocratiquement élue, exerce un pouvoir socialement dévastateur (un pouvoir terroriste, d’intimidation et d’arrestations arbitraires, s’appliquant à l’extension de l’appareil répressif, à la criminalisation des pratiques syndicales etc.) et suggérais que face à cela «on» peut éprouver (j’aurais dû le dire en première personne) un sentiment d’impuissance légèrement désespéré, et que s’il est une (ou des) façon(s) de répondre politiquement (par l’unification des luttes jusque là séparées) à cette situation en apparence aporétique et anxiogène, je réponds (aussi) pour ma part, «poétiquement» si l’on veut, par une certaine pratique de l’écriture, entendue d’une certaine façon, non pas comme la transcription et la communication, la publication, de quelque chose que j’aurais «à dire» ou à redire, mais comme au contraire une manière d’exploration de ce qui ne se dit pas, ne saurait se dire, et une tentative pour restituer une espèce de temps-espace à la fois très présent et très inconnu, très évident et très illisible, indéchiffrable(39).
Le forme di questo tentativo di resistenza all’imperativo alla trasparenza come dispositivo di controllo, in poesia acquisiscono, secondo Gleize, due modalità: da un lato la «production d’un mode se symbolisation singulière (pur idiolecte) tendant à l’illisibilité [...], et le choix du modèle “meta-usage”»(40). Gleize concludeva: «L’opaque est aussi une arme critique politique et/ou politique. Un des outils de l’insurrection quotidienne»(41).
Opaco: se la tecnologia digitale può essere insieme un veicolo/attestazione di opacità critica e un antidoto contro le forme di reificazione dell’oggetto estetico, ma anche il suo contrario, la via da percorrere in questo momento in arte è ancora, forse, quella del coniugare reificazione e opacità, da un lato, o trasparenza e assenza di reificazione, di chiusura, di fissità, dall’altro. I libri passati in rassegna riescono nell’ardua impresa di coniugare entrambe e modalità di insurrezione del senso messe in luce da Gleize.
Gian Luca Picconi
Note.
(1) Oltre a Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Torino, Einaudi, 2014, si veda pure
Walter Benjaim, Mickey Mouse, a cura di Carlo Salzani, Genova, il melangolo, 2014, pp. 64-65.
(2) Su Benjamin e il concetto di inconscio ottico osservazioni rilevanti sono contenute nel libro di Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, a cura di Roberto Valtorta, Torino, Einaudi, 2011, pp. 17-19 (di «svelamento» si pparla in particolare a p. 18).
(3) Theodor W. Adorno, Volteggi della puntina, in Long play e altri volteggi della puntina, a cura di Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, 2012, p. 32.
(4) Jacques Rancière, Le partage du sensible. Esthétique et politique, Paris, La fabrique éditions, 2000, p. 46. (5) Ivi, p. 46-47.
(6) Ivi, p. 49.
(7) Di radio come invenzione antidiluviana Brecht parla in La radio – Un invenzione antidiluviana, in Scritti sull’arte e sulla letteratura, a cura di Cesare Cases, Torino, Einaudi, 1973, pp. 39-40.
(8) Il concetto di transpittorialità è sviluppato da Liliane Louvel, Poetics of the iconotext, a cura di Karen Jacobs, Burlington, Ashgate, 2011.
(9) Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, cit., p. 66.
(10) Marco Giovenale, La casa esposta, Prefazione di Antonella Anedda, Postfazione di Cecilia Bello Minciacchi, Firenze, Le Lettere, 2007.
(11) Scrive Giovenale: «ci sono affinità profonde tra un certo modo di intendere la fotografia e un certo modo di intendere la poesia» (M. Giovenale, Del sottrarre, in «Per una critica futura», 1, 2006, p. 42). Ma queste affinità sembrano piuttosto fondate sul fatto che sia la poesia che la fotografia esperiscono anzitutto dei limiti di senso: «Questi modi sembrano far riferimento a un numero circoscritto se non addirittura datato di strumenti: la fotografia che esclude l’installazione; la poesia che esclude la performance video. La fotografia non digitale; la poesia che si afferra alla forma tipograficamente scolpita una volta per tutte. La fotografia che ghiaccia il punctum; la poesia che si dà una tessitura insieme fonicamente e semanticamente tramata di spessori» (Ivi, pp. 42-43).
(12) Curiosamente, i fototesti hanno spessissimo un rapporto molto stretto con i luoghi. Su questo legame tra fototesti e luoghi si veda il bel saggio di Giulio Iacoli, In cerca di una relazione, e di un genere. Tre vicende
del photo-text in Italia (Strand-Zavattini ; Ghirri-Celati ; Messori-Fossati), in «Contemporanea», 12, 2014,
pp. 91-107.
(13) Marco Giovenale, Del sottrarre, cit, p. 38, corsivo mio. (14) Marco Giovenale, La casa esposta, cit., p. 19.
(15) Ivi, p. 32. (16) Ivi, p. 108.
(17) Per una definizione di fototesto, si può tra l’altro consultare Michele Cometa, Fototesti. Per una tipologia dell’iconotesto in letteratura, in Id., La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale, Roma,
Edizioni, Nuova Cultura, 2011, pp. 63-101.
(18) Il verso citato appartiene alla poesia incipitaria, dal titolo estremo oriente, di Laura Pugno, Il colore oro, foto di Elio Mazzacane, Prefazione di Stefano Dal Bianco, Postfazione di Marco Giovenale, Firenze, Le Lettere, 2007, p. 21. di Giovenale menziona il verso nella sua postfazione, Nella materia del colore, a p. 163.
(19) Gilda Policastro, recensione a Il colore oro, in «L’Indice dei libri del mese», XXIV, 12, 2007, p. 16. (20) Marco Giovenale, La casa esposta, cit., p. 121.
(21) Paolo Giovannetti, Dopo il sogno del ritmo. Installazioni prosastiche della poesia, in Prosa in prosa, Introduzione di Paolo Giovannetti, Note di lettura di Antonio Loreto, Firenze, Le Lettere 2009, p. 14.
(22) Italo Testa, I camminatori. Un resoconto, fotografie di Riccardo Bargellini, con una nota di Paolo Maccari, Livorno, Valigie rosse, 2013.
(23) Ivi, p. 5. (24) Ivi, p. 11. (25) Ivi, p. 35.
(26) Giulio Marzaioli, Arco rovescio, Colorno, Tielleci (Benway Series), 2014. (27) Ivi, p. 17.
(28) Antonio Loreto, Il desiderio che illumina la parola, in «il manifesto», 27 agosto 2014, p. 8.
(29) Proprio il mito di Apollo e Dafne è ripreso espressamente, come allegoria dello scacco del desiderio che caratterizza il nostro rapporto con la fotografia, nel libro di Franco Vaccari, Fotografia e inconscio
tecnologico, cit.: «Il desiderio, se non rispetta e non riconosce l’autonomia del suo oggetto, deve fare i conti
con l’irriducibile natura dell’oggetto stesso, che gli rivela di colpo la propria estraneità. Anche la fotografia, se malcomprensa, lascia affiorare solo quegli aspetti che la rendono sostanzialmente inutile» (p. 102).
(30) Ibidem.
(31) Michele Zaffarano, Una certa coerenza, in Ex.it. Materiali fuori contesto. Albinea 2013, a cura di Mariangela Guatteri, Michele Zaffarano, Colorno, Tielleci, 2013, pp. 137-142.
(32) Michele Zaffarano, La vita, la teoria e le buche (2003-2013), Postfazione di Jean-Marie Gleize, Salerno/Milano, Oèdipus, 2015.
(33) Vincenzo Ostuni, Oggettivo indecidibile. Una nota su affettività, assertività e scritture di ricerca, in Ex.it. Materiali fuori contesto. Albinea 2014, Colorno, Tielleci, 2016, p. 72.
(34) Di discorso teorico in versi parla, molto persuasivamente, in una recensione a Paragrafi sull’armonia, Antonio Loreto, Paragrafi sull’armonia, in «Alfabeta2», https://www.alfabeta2.it/2014/09/27/paragrafi-sullarmonia-2. Dal canto sul Vicenzo Ostuni parla, in molto altrettanto persuasivo, di «poesia didascalica» (Oggettivo indecidibile, cit., p. 72).
(35) Michele Zaffarano, Todestrieb. Istruzioni sopra l’uso di certi morti, Fotografie di Silvia Tripodi, Novara, Arcipelago Edizioni (Chapbooks), 2015.
(36) Michele Zaffarano, Cinque testi tra cui gli alberi (più uno), Colorno, Tielleci (Benway Series), 2014. (37) Bertolt Brecht, L’Abicì della guerra, in Poesie II (1934-1956), a cura di Luigi Forte, Torino, Einaudi, 2005, pp. 414-585.
(38) Si veda, in merito, Evan Eisenberg, L’angelo con il fonografo. Musica, dischi e cultura da Aristotele a Zappa, Torino, Instar libri, 1997, pp. 24 e ssg.
(39) Jean-Marie Gleize, Opacité critique, in «Toi aussi, tu as des armes». Poésie & politique, Paris, La fabrique, 2011, pp. 36-37.
(40) Ivi, pp. 39-40. (41) Ivi, p. 44.
Fig. 1, 2, 3: Prosa in prosa
Fig. 1 Fig. 2
Fig. 4, 5: Italo Testa, I camminatori
Fig. 6, 7: Giulio Marzaioli, Arco rovescio
Fig. 8, 9: Michele Zaffarano, Una certa coerenza
Fig. 10, 11, 12: Michele Zaffarano, Theoria, in La vita, la teoria e le buche (2003-2013)
Fig. 10 Fig. 11
Fig. 13, 14, 15: Michele Zaffarano, Tobestrieb
Fig. 13 Fig. 14
ANELLI DI RETROAZIONE E INTERAZIONI COMPARTECIPATIVE. PER UNA