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La tempesta s’annunzia [XXXII]

La tempesta s’annunzia con radi goccioloni. Sto davanti alla radio in questa camera d’affitto. 5 Apro il Corriere pieno di morti

sono spese bene 250 lire. Lampi e tuoni di fuori. Domani leggeremo l’entità del disastro. 10 Tutto quanto qui accade

appartiene al dominio del verosimile. Ma esiste davvero il vero?

15 Qualcuno non un dio con barba

tenta di farcelo credere. Ma il dio senza barba è ben altro affare.

Non come appare a guardarlo

20 +++ intendiamo.

Non +++ ai fisici fra +++.

La poesia, manoscritta in inchiostro blu (forse di penna stilografica) e trasmessa dalla pagina [6] del QP, pone anzitutto un problema di datazione. Per provare a risolvere la questione, Gianfranca Lavezzi ha notato come il prezzo dei quotidiani, cui si allude al v. 6 («sono spese bene 250 lire»), salì da 200 a 250 lire l’11 marzo 1979, e da 250 a 300 il 1º agosto dello stesso anno: questi sarebbero dunque i due termini post e ante quem di composizione della poesia. L’arco temporale potrebbe però essere ristretto dall’allusione alla camera d’affitto dei vv. 3-4 («Sto davanti alla radio / in questa camera d’affitto»), quella della casa di via Caio Duilio 5, dove Montale trascorse le vacanze estive a Forte dei Marmi a partire dal 1977. Il «disastro» del v. 9, preannunciato dalla «tempesta» del v. 1, potrebbe invece riferirsi – nota ancora la Lavezzi – a diversi eventi: può essere che Montale alluda a vittime di calamità naturali, dato che nel luglio dello stesso

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anno gravi inondazioni colpirono la Spagna, il Brasile e l’Indonesia, provocando complessivamente cinquecento morti; oppure potrebbe trattarsi di vittime di incidenti stradali o ferroviari; o forse ancora le vittime potrebbero essere i dieci morti di un grave incidente alpinistico avvenuto sul Monte Bianco, dove il 18 luglio precipitarono tre cordate di alpinisti; infine, occorre ricordare che due anni prima, il 29 agosto 1977, una tromba marina, abbattutasi sulla Versilia, aveva provocato tre morti e gravi danni.

La poesia presenta alcuni punti di tangenza con Sulla spiaggia, apparsa per la prima volta nel Quaderno di quattro anni nel settembre 1977, ma datata, nel dattiloscritto che la conserva, «17 agosto 76»;328 da un’intervista rilasciata da Montale nell’ottobre 1977 e ricordata da Vittorio Anelli in un suo studio, veniamo infatti a sapere che la poesia era stata composta l’anno precedente: «Sulla

spiaggia […] mi pare buona, è una di quelle che mi piacciono di più, con

quell’erudito che fa il bagno. L’ho scritta l’anno scorso qui al Forte».329

L’ambientazione delle due liriche è la stessa (Forte dei Marmi), e anche nel testo del Quaderno si allude ad una «tempesta» preannunciata da «goccioloni» che «bucano la sabbia» (v. 12): «È un fuggi fuggi, il cielo è oscuro ma / la tempesta rinvia il suo precoce sforzo» (vv. 17-18). Le affinità non si spingono però oltre e l’evento ricordato potrebbe anche non essere lo stesso.

A partire dalla terza strofe il poeta torna invece ad interrogarsi sul senso dell’esistenza, chiamando direttamente in causa un «dio con barba» (v. 15) di cui nella poesia dell’ultimo Montale si irridono spesso i «caratteri / spaventosamente

328 Cfr. E. MONTALE, OV, cit., p. 1135.

329 V. ANELLI, Giordani, Montale e il bagnante erudito, «Bollettino Storico Piacentino»,

LXXXVIII, 2 (luglio-dicembre 1993), pp. 255-260: 256; qui Anelli specifica che «l’abate […] un po’ giacobino» del v. 11 della poesia è Pietro Giordani. Occorre inoltre segnalare che la poesia del

Quaderno è affine ad un’omonima lirica del Diario del ’72, in cui si trovano alcuni termini-chiave

della balneazione di massa nella poesia di Montale: si vedano, per esempio, gli «ultimi ombrelloni» del v. 2, che tornano anche al v. 14 della poesia del Quaderno («Bisognerà […] / chiudere gli ombrelloni»); e al «gommone» del v. 4, che tornerà anche nell’altra Sulla spiaggia («Bisognerà mettere al riparo / i pattini, i gommoni», vv. 13-14). Si considerino però anche alcune prose, per esempio l’omonimo racconto del 1946 di Farfalla di Dinard, anch’esso di ambientazione versiliana: «I bagnanti si fanno radi ma molte ombrelle gialle verdi arancione si aprono ancora sulla sabbia umida. Non riesco ad annerirmi come vorrei e attraverso gli occhiali scuri seguo gli ultimi venditori ambulanti che passano davanti alle cabine deserte» (cfr. E. MONTALE, Prose e racconti, cit., p. 196); e il Diario di Bernardo (con l’occhiello Da una

spiaggia mondana) dell’anno successivo: «Impossibile trovare un lembo di spiaggia per me solo.

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antropomorfici».330 Un interessante esempio è fornito dall’ironico xenion II, 9, forse la prima lirica montaliana ad introdurre la riflessione sul divino («[…] Lui stesso che ha mille occhi, / li distoglie da loro, n’eri certa», vv. 3-4), in cui il riferimento è a quelle «monache» e «vedove», «mortifere / maleodoranti prefiche» (vv. 1-2), che Dio non osa guardare.

In effetti, un campo di notevole interesse nella produzione montaliana è proprio quello inerente ai molteplici modi di denominare Dio, compreso quello (ossimorico) di non poterlo nominare: «disse Colui del quale non può dirsi il nome», si legge, per esempio, al v. 1 di Vinca il peggiore (in Altri versi I). Il motivo dell’onniveggenza verrà ripreso ne Il mio ottimismo (Diario del ’72), dove è presente lo stesso «dio con barba» de La tempesta s’annunzia: «i cherchi ci presentano / un Deus absconditus che ha barba baffi e occhi / a miliardi perché nulla gli sfugge / di noi» (vv. 13-16).331 Montale ripete qui quel ripudio della

concezione antropomorfica e consolatoria del divino che aveva formulato per la prima volta nel celebre “francobollo” del 1963 intitolato Lettera da Albenga, un articolo che il poeta aveva pubblicato in risposta ad una lettera dell’ingegnere Della Valle e dove marcava con forza la sua distinzione tra «il Dio dei fisici», «l’entità che ha creato con un fiat» la materia, e «il Dio delle religioni storiche», colpevoli di aver prestato all’entità divina caratteri antropomorfici:

330 Cfr. i vv. 7-8 del Big bang o altro (Quaderno di quattro anni).

331 Il «Deus absconditus» è di derivazione biblica (cfr. Isaia, XLV, 15: «Vere tu es Deus

absconditus», versetto citato da Pascal, a proposito del «Dieu caché», nelle Pensées, II, 400, per cui si veda l’edizione francese curata da J. Chevalier e J. Guitton, Paris-Coulommiers, Le Livre de Poche 1962, p. 329). Ma cfr. anche Credo (Altri versi II), in cui Montale chiede protezione per Clizia a un «dio con barba»: «Non tale la forza del dio con barba e capelli / che fu detronizzato dai soci del Rotary Club / ma degno di sopravvivere nelle loro cabale» (vv. 7-9) e «Che un dio (ma con la barba) ti protegga» (v. 12); e cfr., nelle Poesie disperse, Il dono: «E forse non è vita / neppure quella dell’aldilà / secondo la proposta antropomorfica / che dà barba e capelli al pantocratore / e le civetterie del superstar» (vv. 6-10). Si consideri inoltre una poesia anepigrafa del Quaderno di quattro anni: «Questo ripudio mio / dell’iconolatria / non si estende alla Mente / che vi è sottesa e pretesa / dagli idolatri. / Non date un volto a chi non ne possiede / perché non è una fattura. / Piuttosto vergognatevi di averne uno / e così cieco e sordo finché dura». Datata ottobre 1972, infine, è la lirica Deus absconditus di Giorgio Caproni, che uscirà nel 1975 nella raccolta Il muro della terra e che qui vale la pena citare assieme alla sua Postilla: «Un semplice dato / Dio non s’è nascosto. / Dio s’è suicidato». – «(Non ha saputo resistere / al suo non esistere?)».

149 Si giunge fino ad attribuirgli risentimenti e odio; si parla del “placatore della collera divina”; si pensa di propiziarselo con particolari accorgimenti; si attendono da Lui vendette o ricompense.332

Un tale dio con «barba baffi e occhi / a miliardi» finirebbe però per rivelarsi, chiarisce Montale in un altro passo della Lettera, quasi «un complice dei nostri / misfatti» (vv. 16-17):

Se in realtà il Creatore fosse immaginabile con i poteri e la lungimiranza che gli si attribuiscono, sarebbe difficile non renderlo corresponsabile degli orrori che si sono accumulati sull’uomo da molte migliaia di millenni.333

È così che il poeta giunge ad una sua diversa denominazione di Dio come «Artefice», usando un termine generico e di uso convenzionale, dato che non ha molta importanza dar nome a chi non ci ha chiesti o voluti: «Il mio Artefice no, non è un artificiere / che fa scoppiare tutto, il bene e il male, / e si chiede perché noi ci siamo cacciati / tra i suoi piedi, non chiesti, non voluti, / meno che meno amati» (vv. 19-23). Intavolando una paronomasia («Artefice»-«artificiere»), il poeta nega quindi di credere ad un Demiurgo lontano e che non si cura di noi, che pure già altri testi del Diario avevano messo in scena;334 ma la stessa idea era già

stata espressa da Montale nell’intervista a Cancogni del 1968:

[…] se ammettiamo, per ipotesi, che l’Essere, questo ente, Dio tanto per intenderci, ci sia, devi anche ammettere che non si occupa di noi e delle nostre faccende, è estraneo alla storia.335

332 La Lettera da Albenga compare per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 21 aprile 1963

(poi in E. MONTALE, Auto da fé, cit., pp. 349-350); il passo sopra riportato ora si legge in E. MONTALE, SMA, cit., pp. 373-374: 374.

333 Ibidem.

334 In Non mi stanco di dire al mio allenatore… (Diario del ’71), Dio è un inopinato allenatore; in

Kingfisher (Diario del ’72) è un pescatore disattento; e ancora, è un burattinaio in Chi tiene i fili

(Diario del ’72) e un giocatore di carte che sfida il suo opposto in Non partita di boxe o di

ramino… (Diario del ’72). Per quel che riguarda le altre raccolte: è un regista che abbandona i suoi

personaggi in Götterdämmerung (Satura I); un cacciatore ne L’Altro (Satura II); persino un capo- operaio specializzato («il Calafato supremo», v. 5) nella costruzione di navi in Cabaletta (Quaderno di quattro anni). Per tutti gli attributi con i quali Dio viene qualificato nella poesia montaliana, si veda invece G. TAFFON, L’atelier di Montale: sul poeta, sul prosatore, sul critico, Pisa, Edizioni dell’Ateneo 1990, pp. 36-38.

335 Cfr. Int. Cancogni (M. CANCOGNI, Discorrendo della fine del mondo, cit.), ora in E.

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In ogni caso, quello amato e nominato dal poeta ne Il mio ottimismo, resta un dio nascosto, un dio amato «senza speranza» e al quale, di conseguenza, l’io poetico non chiede nulla (cfr. vv. 24-25).

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