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Teoria e pratica: due vasi non più comunicanti?

La crisi della chirurgia di guerra medievale (1514-1530 ca.)

5.1 La riflessione sulle ferite d’arma da fuoco in Europa fra XV e XVI secolo

5.1.1 Teoria e pratica: due vasi non più comunicanti?

In Italia, nel panorama della letteratura medica alla fine del XV secolo, l‟elaborazione teorica e la pratica chirurgica nel campo della medicina militare avevano smesso da tempo di funzionare in collaborazione: i medici che in quei decenni scrivevano trattati di chirurgia ormai non frequentavano più i campi di battaglia, in virtù dell‟elevato status sociale che avevano raggiunto, oppure non si erano più preoccupati di trasferire nelle loro opere le brevi esperienze vissute ai margini del campo di battaglia, come per ultimo aveva fatto Guglielmo da Saliceto due secoli prima.

Infatti, praticamente nessuno dei grandi scrittori italiani di chirurgia del XV secolo (come il padovano Leonardo Buffi da Bertapaglia, o il bolognese Pietro Argellata) aveva vissuto esperienze dirette negli eserciti, e per converso nessun medico militare italiano del XV secolo ha poi scritto di chirurgia. Una situazione completamente diversa da quella del Nord Europa: nelle Fiandre con Jan Yperman, in Inghilterra con John of Arderne e Thomas Morestede, e in Germania con Heinrich von Pfolsprundt, vi furono chirurghi che nei testi da loro prodotti seppero trasferire le proprie osservazioni pratiche, maturate anche durante le campagne militari a cui avevano preso parte. Dunque è prima dell‟inizio del XV secolo che bisogna ricercare il divorzio fra teoria e pratica nella chirurgia di guerra nel panorama italiano: non perché non vi fossero più chirurghi nelle armate, ma perché quelli che c‟erano (nei casi in cui c‟erano) non contribuivano più alla produzione scientifica del tempo sull‟argomento.

I libri più autorevoli, infatti, erano diventati solo quelli scritti dai professori appartenenti alle facoltà mediche più prestigiose1. I testi specifici per i professionisti della pratica

1 S

IRAISI, Medieval and Renaissance Medicine; an Introduction to Knowledge and Practice, Chicago- London, 1990, p. 64: «Collectively, the contribution of the faculties of medicine to the written output of late medieval medicine was disproportionately large, since university-educated physicians, and, in particular, professors of medicine, were naturally far more likely than other medical or surgical practitioner to write books.»

manuale della chirurgia ormai non avevano più la possibilità di sfruttare i maggiori canali di diffusione: esistevano varie practice nel „400 (come il manuale manoscritto padovano, in latino e in lingua volgare, compilato a più mani in area veneta alla metà del XV secolo2), ma nessuna di queste riuscì a ottenere grande fama, circostanza che lascia aperto l‟interrogativo su quali fossero effettivamente le tecniche operatorie adottate dai chirurghi3

. Com‟è facile immaginare, i grandi personaggi della medicina, come i professori più rinomati, assai raramente sceglievano di confrontarsi con le realtà della guerra. Solamente Venezia, come abbiamo illustrato nel precedente capitolo, aveva avuto la possibilità di inviare al seguito dei propri eserciti dei medici e chirurghi provenienti dall‟Università di Padova. Nel XV secolo, costoro furono anche autori di opere a carattere scientifico, ma nessuna di queste ebbe come soggetto o trattò anche incidentalmente la chirurgia militare: un‟eccezione significativa può essere fatta per il resoconto dell‟operazione chirurgica effettuata da Alessandro Benedetti su Niccolò Orsini, della quale lo stesso Benedetti dà ampio resoconto nei suoi Diaria de Bello Carolino, e che noi abbiamo preso in esame nelle pagine precedenti. Va comunque ricordato che i Diaria erano stati concepiti più che altro come un‟opera di narrazione storica, destinata all‟ambiente umanistico veneziano, e non specificamente ad un pubblico di medici o chirurghi.

Nelle stesse università italiane, fra teoria e pratica era andato approfondendosi un vero e proprio solco che divideva i chirurghi inquadrati all‟interno dei circoli accademici dai semplici professionisti della chirurgia, che pure spesso appartenevano alla medesima Arte4. Una frattura accompagnata da una rivalità strisciante per accaparrarsi le cure dei pazienti più facoltosi all‟interno delle città5

: la scienza troppo astratta dei medici laureati durante il XV secolo veniva infatti additata dai chirurghi come uno dei motivi, se non il principale, che avevano contribuito a offrire maggiori occasioni d‟impiego (per effettuare quelle

2

PESENTI, «Professores chirurgie», «Medici ciroici» e «barbitonsores» a Padova nell‟età di Leonardo Buffi da Bertapaglia († dopo il 1448), «Quaderni per la storia dell‟Università di Padova», XI, 1978, pp. 20- 21: «Emarginati per lo più dalla scienza accademica ma ricercati dai pazienti, anche dei ceti più ricchi, questi „medici ciroici‟ avevano finito con l‟elaborare una propria cultura, di cui è espressione l‟anonimo manuale di medicina e chirurgia pratica in latino e volgare contenuto nel ms. 444 della Biblioteca Universitaria di Padova, proveniente dalla biblioteca di S. Giustina e scritto a più mani a metà del „400, se non a Padova sicuramente in area veneta [...]. Il carattere alternativo di questa trattazione, che la distingue nettamente sia dalle varie practice contemporanee sia dall‟opera, pure sperimentale di Leonardo da Bertipaglia, sta però nella concezione di un procedere parallelo e necessariamente connesso di medicina e chirurgia.»

3 D

EVRIES, Military Surgical Practice cit., p. 134.

4 S

IRAISI, Medieval and Renaissance cit., p. 179.

5

Come aveva dimostrato anche la clamorosa protesta del chirurgo padovano Leonardo Buffi da Bertapaglia, che all‟inizio del XV secolo si era rifiutato di completare il proprio percorso di studi in chirurgia, in aperta polemica con i suoi professori, giudicati da lui ignoranti e cavillosi, maxime in vulneribus nervorum et fracturis capitis. Cfr. PESENTI MARANGON, «Professores chirurgie» cit., in particolare p. 3: «Il dissenso del Bertapaglia dai «doctores», fondato non sulle argomentazioni umanistiche che si intrecciavano nelle varie „dispute delle arti‟, ma sul terreno della capacità professionale, equivale alla testimonianza di un disagio più generale.»

operazioni manuali che sarebbero state disonorevoli per i medici) ad „empirici‟ e „barbieri‟ illetterati6, elementi questi ultimi che, come abbiamo visto, si accompagnavano spesso anche agli eserciti.

In realtà, non è detto che ciò andasse davvero a detrimento dei soldati che dovevano far ricorso a cure mediche dopo gli scontri e le battaglie, vista la cattiva pubblicità che aveva finito per accompagnare la figura dei medici negli ambienti militari, dove venivano giudicati poco più che dei chiacchieroni inconcludenti e incapaci dal punto di vista pratico.

In Europa settentrionale, differentemente da quanto era avvenuto in Italia, la chirurgia non aveva ancora acquisito uno status accademico, che otterrà solo nei secoli seguenti: si era perciò venuto a creare un bacino d‟utenza e di interesse per i testi di chirurgia, formato da professionisti istruiti pur in assenza dei gradi dottorali, non sempre versati nella lingua latina eppure desiderosi di apprendere nel loro settore tecnico, come stanno a testimoniare le numerose traduzioni, sia delle opere antiche sia di quelle più recenti, spesso in compendio, realizzate durante fra XIV e XV secolo in lingua francese, fiamminga, inglese e tedesca.

Chirurghi professionisti desiderosi di imparare, ma anche di trasmettere: fuori d‟Italia, proprio la distanza dalle rigide strutture universitarie aveva permesso ai chirurghi di mettere in circolazione manuali scritti da loro, che effettivamente spesso ricalcavano i testi antichi nell‟impostazione, ma vi aggiungevano dettagli presi dalla loro pratica quotidiana, sovente esercitata anche in ambito militare7. In maggioranza, queste nuove trattazioni non erano scritte in latino, lingua sovranazionale della comunità accademica, ma in lingua volgare, proprio perché erano indirizzate a personaggi che erano estranei ad essa: generalmente l‟autore identificava il destinatario della sua opera con il proprio figlio, intenzionato a seguire le orme professionali del padre, oppure con i giovani colleghi da istruire nell‟arte chirurgica.

Qual era il valore che questi nuovi autori di chirurgia attribuivano alla pratica? Alcuni di essi ebbero sicuramente modo di osservare i rimedi empirici dei soldati, che erano stati disprezzati qualche decennio prima da Guy de Chauliac, medico di due papi, e che invece potevano trovare una loro dignità, se non una vera e propria raccomandazione di utilizzo, nei nuovi manuali „pratici‟ (che pure venivano mantenuti nell‟orizzonte galenico accettato dall‟intera comunità medica del tempo). È il caso delle foglie di cavolo, che nella sarcastica descrizione di Guy de Chauliac figurano, assieme alle formule superstiziose,

6 Ibid., pp. 24 e p. 29. 7 M

all‟olio e alle bende di lana, come unica medicina „dei soldati tedeschi e di quanti vanno al seguito degli eserciti‟. Ebbene, proprio un decotto a base di foglie di cavolo rosso, «da bollire in acqua con l‟intero gambo», era invece consigliato per la pulizia di ogni tipo di ferita dal chirurgo inglese John of Mirfield († 1407), autore alla fine del XIV secolo del

Breviarium Bartholomei, un trattato completo di medicina contenente una sezione di

chirurgia, nella quale erano descritte anche le procedure operatorie per far fronte alle ferite causate da qualsiasi tipo di arma utilizzata a quel tempo8. E non è un caso che «oglio e lana» fossero gli unici rimedi presi in considerazione da un uomo d‟armi concreto come Orso Orsini, che aveva imparato a diffidare delle elucubrazioni dei medici per fidarsi unicamente di ciò che (così diceva) con i propri occhi aveva visto agire con efficacia sulle ferite.

Quarant‟anni dopo, nel 1518, il chirurgo Jacopo Barigazzi, detto Berengario da Carpi, annotò di sfuggita nel proprio trattato sulle fratture del cranio9 una strategia terapeutica che, secondo ciò che egli afferma di aver visto di persona, «molti Tedeschi» (presumibilmente soldati) usavano mettere in atto per curare ferite di qualsiasi genere, anche quelle più grandi, riempiendole cioè di sale, senza nient‟altro, «e i pazienti guarivano in breve tempo». Questo rudimentale tentativo di sfruttare le qualità terapeutiche del sale sulla ferita era identico a quello utilizzato per tutt‟altra patologia secoli prima, al tempo delle Crociate, da un sedicente medico occidentale il quale aveva effettuato una specie di rituale esorcistico per guarire una paziente affetta da malattia mentale, praticandole un‟incisione a croce sul cranio rasato e cospargendola di sale. La paziente morì, secondo l‟episodio narrato con una certa commiserazione nei ricordi del cavaliere

siriano Usāma Ibn Munqid10

.

Dunque non era cambiato niente in quel tipo di elementare medicazione usata per tutti i mali, che verosimilmente risaliva ancora più indietro nel tempo. Obiettivamente, inoltre, nella pratica di cura delle ferite messa in atto dai soldati si continuavano ad utilizzare quegli stessi materiali di sempre (sale, foglie di cavolo ecc.) perché erano i più facilmente reperibili laddove l‟esercito era accampato, oltretutto con risultati che a volte (ma non sempre, come abbiamo visto) potevano essere migliori11 di quelli ottenuti dai medici

8 D

EVRIES, Military Surgical Practice cit., p. 139.

9

BERENGARIO DA CARPI, De Fractura Caluae, a. 1518, Bononiae. (Trad. inglese R.L. LIND, Berengario da Carpi: on fracture of the skull or cranium, «Transactions of the American Philosophical Society», VIII, part 4, Philadelphia, 1990.

10 M.C

ASSARINO, (a cura di), Usāma Ibn Munqid. Le lezioni della vita. Un cavaliere siriano e le Crociate, Milano, 2001, pp. 113-14. Vd. Anche MITCHELL, Medicine in the Crusades cit.

11 Per limitarci alle foglie di cavolo, la loro proprietà antisettica e cicatrizzante nel trattamento delle

„laureati‟ quando erano stati chiamati alla prova.

Per converso, il valore della pratica acquisita dai chirurghi in ambito militare avrebbe dovuto faticare ancora a lungo per ottenere qualche riconoscimento dalle cattedre italiane di chirurgia. Alla fine del XVI secolo, il pisano Giulio Cesare Arizzarra (o Arizzara), chirurgo del Granduca di Toscana Ferdinando I, poteva ancora sostenere che nessun chirurgo destinato al «pubblico servizio del campo», quindi di bassa condizione e istruzione, sarebbe mai diventato illustre nell‟arte12

. Ma, come vedremo nel seguito di questo capitolo, si stava sbagliando.