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Terzomondismo come strategia

Capitolo III-Fra ammirazione e affermazione di sé: un rapporto dalle molteplic

3) Terzomondismo come strategia

Già si è descritto all'inizio di questo lavoro il significato dispregiativo che gli extraparlamentari davano al termine “terzomondismo”, inteso come piano di lotta

70 Lotta Continua, a.II n.17, 1 Ottobre 1970, p.25 a proposito dei palestinesi che combattevano contro le truppe di re Hussein di Giordania.

71 Lotta Continua, a.II n.21, 25 Gennaio 1973, p.5, corsivo mio 72 Lotta Continua, a.II n.112, 12 Maggio 1973, p.4

73 P. Bruckner, (trad.)S. Vigezzi, Il singhiozzo dell'uomo, cit. p.48 nota 43 74 Lotta Continua, a.II n.17, 1 Ottobre 1970, p.25

rivoluzionaria che vedeva la possibilità di un'insurrezione solo nei paesi sottosviluppati, sono le ipotesi che spinsero un Régis Debray ad andare a combattere in Bolivia. Sotto questo punto di vista Potere Operaio cerca al contrario di connettere una sua strategia rivoluzionaria in Italia e nei paesi avanzati con le lotte antimperialiste, e altresì di tentare una lettura operaista delle lotte del Terzo Mondo. Il problema difficile infatti è mettere d'accordo l'idea trontiana dello sviluppo e del “salto tecnologico” come riorganizzazione del controllo capitalistico sulla classe operaia e allo stesso tempo come nuova possibilità rivoluzionaria che questo livello produttivo apre, e la necessità di sviluppo che i governi e movimenti rivoluzionari dei paesi arretrati si trovano ad affrontare.

Un primo esperimento in merito è il lungo articolo “Lotta all'imperialismo: prime ipotesi” presentato sul giornale come “documento redatto da un collettivo di studenti latino-americani”. Innanzitutto vi si può trovare un'interpretazione più correttamente leniniana dell'imperialismo, come una fase determinata di produzione- organizzazione del capitale, e non semplicisticamente come politica aggressiva di uno stato. Si comincia dicendo:

Aprire nei paesi del “Terzo Mondo” un processo rivoluzionario significa farlo con un estremo senso della realtà e dare per scontato che in questo momento “fare la rivoluzione” in questi paesi significa[...] accettare fino in fondo il ruolo che la rivoluzione ha nei paesi sottosviluppati che è quello di indurre l'industrializzazione.[...] Gestire lo sviluppo

significa controllare i comportamenti di classe; mantenere aperto un processo rivoluzionario significa organizzare la classe contro il controllo. Ed è questa

contraddizione che i compagni dei paesi arretrati devono risolvere.75

Il capitale risolve le sue contraddizioni dividendo la classe operaia:

in classe operaia che individua il processo di industrializzazione come diritto al lavoro e classe che -dentro a quel processo- individua il proprio interesse contro il controllo che vi è connesso, e lo esplicita in rifiuto del lavoro. Questo è il piano del capitale: mettere la classe operaia dei paesi sottosviluppati contro quella dei paesi metropolitani.76

Quando si comincia a parlare delle possibilità di unità fra queste due , il discorso comincia a divenire meno chiaro: «unità vuol dire uguale capacità di organizzarsi contro il nemico di classe[...] si tratta di individuare anche nei paesi arretrati, la precisa consistenza dell'autonomia operaia.[...] La capacità di individuare il suo interesse “particolare” contrapposto a quello “generale”.». Si fa allora un ancora meno comprensibile esempio su Cuba. L'isola ora è impegnata nell'industrializzazione e la classe operaia si identifica con l'interesse generale. Ma:

Cuba diventerà di fatto il paese che guida la rivoluzione nella misura in cui sorgerà una nuova organizzazione politica della classe operaia, capace di scontrarsi apertamente con il nuovo regime non più sui problemi dello sviluppo ma per rilanciare in avanti la sua capacità di organizzarsi “contro” lo sviluppo.77

Viene da chiedersi cosa debbano fare i dirigenti rivoluzionari cubani, estinguersi? Suicidarsi? Riprendendo i temi base dell'operaismo l'articolo puntualizza che «non esiste un'oggettività dello sviluppo non esistono paesi ricchi e paesi poveri»; è la risposta (la “razionalizzazione”) produttiva-organizzativa del capitale alla conflittualità e al rifiuto del lavoro della classe operaia che fa il “salto tecnologico”, che fa sviluppo, perciò si arriva a dire che «il sottosviluppo è fondamentalmente sottosviluppo

75 Potere Operaio, a.II n.23, 23 Maggio 1970, p.2 76 Ibidem

politico». Quando il discorso si sposta sull'esportazione di tecnologia finisce per

diventare ellittico:

L'imperialismo risulta dunque riqualificato non tanto come bisogno dei paesi sviluppati di vendere le proprie merci o di esportare i propri capitali nei paesi sottosviluppati, non tanto come disegno capitalistico di dominare il sottosviluppo [e di evitare conflitti operai esportando tecnologia=strumenti di controllo] il che è vero, ma non spiega nulla se non una conseguenza: ma piuttosto come necessità che il capitale ha di esportare la lotta di classe.78

Più precisamente: come necessità della organizzazione, ad esempio l'automazione, di capitale fisso che si è data per contrastare la conflittualità operaia. Si giunge così al termine dicendo, un po' persi in un ragionamento circolare: «D'altra parte lo sviluppo c'è, in realtà, solamente là dove il controllo della classe operaia ha raggiunto un costo sociale tale per cui di fatto l'accumulazione sarebbe praticamente già impossibile se non esistesse il “sottosviluppo”.».79

Queste tematiche verranno riproposte non molto tempo dopo in un articolo su

Potere Operaio del 13 Giugno 1970. Vi si legge che bisogna considerare: «il

sottosviluppo dentro lo sviluppo, come funzione dello sviluppo e non come sua arretratezza, come mero passato di esso;[...] come gestione articolata -a livello mondiale- del rapporto tra aree arretrate e poli sviluppati, come gestione di una complessa mobilità della forza-lavoro».80

Il severo classismo proposto da Pot.Op., il gruppo se ne rende conto, pone non pochi problemi ai movimenti di liberazione:

è chiaro che dove la classe operaia manca, il compito è difficile per avviarsi sulla via corretta: ma tanto più bisogna dare centralità ai primi nuclei di essa, scoprirla nei salari saltuari delle grandi piantagioni, nei contadini espropriati che cercano lavoro a Saigon, per giungere ai contadini poveri il cui processo lavorativo è condizionato e riplasmato dai rapporti capitalistici di produzione e di mercato.81

In questo paragrafo è anche interessante segnalare la riflessione e la marcia indietro, che

Il Manifesto fa, commentando le rinnovate relazioni cino-americane, sulla strategia dei

“molti Vietnam” che pure aveva interessato una generazione. Siamo nel 1971:

[Bisogna comprendere la fine della] illusione che la Rivoluzione Culturale e in genere gli avvenimenti del 1967-1968 potessero aprire una rapida fase di generalizzazione della spinta rivoluzionaria nel mondo. La linea dei “due, tre, molti Vietnam”, che non è mai stata dei cinesi, e l'ideologia ultrasinistra che essa alimentava, non trovano più avallo possibile. E con essa sono costrette a morire molte generose speranze.82

«ma non è legittimo attribuire questo ridimensionamento degli obiettivi a un cedimento cinese o a un errore di linea.». Esso è il prodotto della fragilità delle forze rivoluzionarie occidentali, della stagnazione delle lotte nel Terzo Mondo, di mancanza di sommovimenti interni all'URSS e al blocco socialista. Dice il Manif.83