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TOPOGRAFIE LEGGENDARIE: CONTINUARE UNA ANTICA STORIA MARIA GRAZIA ECCHEL

Ne la “Storia del guerriero e della prigioniera”, Jorge Luis Borges, il grande cieco e, forse per questo, l’omerico poeta della memoria, narra come il barbaro invasore - arrivato in Italia attraverso una “oscura geografia di selve e paludi” e tra “selve inestricabili del cinghiale e dell’uro” – si stupisca di cose che mai aveva visto prima. Vede “il giorno e i cipressi e il marmo”. Vede “un organismo fatto di statue, di templi, di giardini, di case, di capitelli, …di spazi regolari”. Abbagliato dalla grazia di tale bellezza, il barbaro s’innamora non di un particolare monumento ma della intuita unità a cui il monumento appartiene e, riconoscendo in essa i tratti di “una intelligenza immortale”, accetta di morire per essa.

Una bellezza originata dal compenetrarsi dell’elemento

naturale - il mare, la terra e il cielo – con le inaspettate geometrie e forme della artificiale topografia impressavi dall’uomo nel costruire il proprio abitare.

La bellezza del paesaggio supera infatti la tutta moderna accezione romantica del naturale, scaturendo piuttosto dal continuo e complesso rapporto tra l’umano e il mondo che lo circonda: una inestricabile declinazione di forme a fronte e con la natura: perché, come scrive Carlos Martì Arìs circa il paesaggio antropizzato della Galizia, “da sempre l’uomo lascia traccia della sua presenza sulla faccia della terra agendo sulla natura per impadronirsi delle sue risorse e trasformarla nella propria dimora.

L’ambiente si è così riempito di oggetti artefatti, rilievi, coltivazioni e scavi che, anche se portano

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inequivocabilmente l’impronta umana, finiscono per appartenere al paesaggio come ulteriore componente”. Norme segrete ma misteriosamente condivise, hanno dettato regole ed eccezioni del costruire, del togliere, del segnare e tracciare quei fondamenti che affiorano nel nostro concetto di identità.

Eppure si tratta di una bellezza, quella del paesaggio, storicamente mutevole ed in continuo divenire: la cui presunta immobilità è piuttosto una raggelata dialettica declinata su “tempi lunghi”.

Ogni divenire storico ha sempre custodito una sorta di unità prima che il “moderno” - teso più a stupire che a ritrovare la novità (il novum) nel presente - riuscisse a distruggere invece che a costruire.

Oggi si è soliti parlare di tramonto, di crisi, invocando utopia…

Eppure noi si crede che, a vivere il nostro tempo senza nostalgia, gli elementi che costituiscono l’unità del mediterraneo – il mare nostrum, da sempre l’irraggiungibile modello e l’intuita metafora di una perduta età dell’oro - si rivelerebbero non come inutili lacerti di un ideale museo, ma come la premessa per una ritrovata identità dei luoghi, sia pure in un fluire d’infiniti frammenti, di multiformi conoscenze e orizzonti… Delineare quindi un’architettura che, partendo dalle cose, alle cose ritorni, modificata: ritrovando in questo passaggio la necessità di quel dimenticato compito di “costruzione architettonica della terra” già riconosciutole come irrinunciabile compito da G. F. Hegel.

Ne “il nocciolo duro della bellezza”, Peter Zumthor (presentando a testimone il suo progetto per un bagno termale in montagna) asserisce come il lavoro “non parta da immagini mentali da adattare al compito assegnatogli” ma tenti, al contrario, di “rispondere a quesiti fondamentali attinenti al luogo, al compito, ai materiali…”.

Nel chiedersi tuttavia “come sia possibile conseguire questa unità nell’architettura, nell’epoca in cui “dio è morto”e in cui il reale minaccia di dissolversi nel flusso delle immagini e dei segni effimeri” Zumthor ritrova una sorta di identità con i propri obiettivi - quasi si trattasse di una ricerca parallela - in Peter Handke laddove questi, nel definirsi “scrittore di luoghi”, esige che nei suoi scritti“non accada nulla di superfluo e che si svolga soltanto il riconoscimento dei singoli particolari e quindi il loro intrecciarsi in uno (…) stato di cose”. Tale ricerca esige la capacità di vedere oltre l’apparenza delle cose, scavando dentro l’anima (nostra e del paesaggio): si tratta di traguardare, con occhi ripieni della greve contemporaneità, all’antica e a-temporale declinazione di forme da parte della natura, universali ma continuamente diverse, e ritrovare così i segni di quel démone (genius loci, si diceva un tempo), che con identici elementi, ha saputo delineare architetture e città, rendendole uniche.

PROGETTO PER MASSAFRA

Una operazione quasi archeologica governa gli inizi, confondendosi con la stessa ispirazione.

Ogni luogo è innanzitutto la rovina di se stesso: come ebbe a dire Borges, ancora: “se scavassimo, vi troveremo rovine”, “parole sradicate e mutilate, parole di altri”. Scavare: il tema ha ossessivamente accompagnato e indirizzato il percorso dei mie laureande affinché il progetto, in tale operazione, mutuasse un’immediata aderenza all’ormai impossibile geometria dei territori. Omissione: il problema del progetto come condizione della sua necessità, di cui l’adeguato e limitato uso dei “materiali” ne costituisce quasi metafora.

E ancora, chiarezza e mistero: chiarezza come obiettivo, mistero come astrazione nell’interpretazione dei dati di natura e di artificio presenti nel paesaggio circostante.. Infine, una ambiziosa volontà di continuare la storia del Mediterraneo – forse una rituale ripetizione dell’interminabile periplo di Ulisse? – attraverso diverse e multiformi “narrazioni”.

La scelta, da parte di Daria Luce e Laura Mariano, della città di Massafra quale locus del loro progetto, costituisce una quasi esemplare applicazione di quanto detto.

Massafra, magico e pasoliniano paesaggio del sud, scolpito dall’acqua, con le case/grotta e le misteriose chiese rupestri sulle testate delle gravine, divenute sostruzioni dell’abitato. Un abitato, il cui nome de “le vicinanze” evoca forme di vita antichissime se non atemporali - le cui forme tipologiche ad impluvium interrato, sarebbero derivate, secondo lo studioso Roberto Caprara, alle case ipogee tunisine, in una inestricabile processo di derivazioni secondo immigrazioni innumerabili.

E’ su tale sfondo, reale ed memoriale ad un tempo, che la topografia di Massafra ha ossessivamente accompagnato il nostro lavoro, e su tali forme si è costruita l’idea per una nuova architettura.

Tali segni e geometrie accompagnano il progetto fino ad una possibile descrizione delle cose, trasformandolo nel racconto di un luogo in cui sia le splendide rovine dell’abitato che la presenza di una cava - non lontana dalla città antica – s’impongono come dato e con la tipica tensione dell’attesa del loro compimento.

Eterne questioni di “costruire, abitare, pensare”, laddove “il rapporto dell’uomo con i luoghi e, attraverso i luoghi, con gli spazi” fonda l’aspettativa stessa dell’abitare”. Spazio, masso, luce: l’architettura della roccia Un’architettura per sottrazione quella di Massafra. Luogo Mediterraneo sospeso tra Italia e Africa, l’architettura di Massafra è costituita da elementi sorprendenti: chiese ipogee, grotte artificiali, case che cercano la luce attraverso profondissime fenditure delle gravine: vertiginose pareti a strapiombo che il borgo antico sembra aver eletto a proprio, naturale e

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spropositato, basamento.Costruire togliendo, scavare e, con lo stesso materiale, dare forma all’assenza: sono questi gli antichi temi del sottrarre e costruire che Daria e Laura traggono dalla cava del Faraone, il luogo da cui la pietra è stata a lungo sottratta. Quella cava, quel grande “canyon” - la definizione è di P. P. Pasolini nell’eleggerlo a scena fissa per brani del film “Vangelo secondo Matteo” – sembra trasformare in spettacolo il proprio stesso abbandono: pareti, precipizi, diversi colori delle stratificazioni, massi, depressioni e artefatte orografie.

Nel progetto s’impongono due astratte direzioni che – diretta l’una verso il mare e parallela alla gravina, ad essa ortogonale e diretta verso la città la seconda - divengono sia il principio compositivo dei nuovi spazi dedicati allo

sport che la norma di pochi elementi capaci, nella loro essenzialità, di interpretare la rara bellezza del luogo: un’immagine che non deve essere usurpata. Il progetto segue la lezione del proprio pietroso con-testo e viene ri-costruito con la stessa pietra dello scavo. Si costruisce all’interno di masse pietrose non ancora scavate, dalle inspiegabili forme ferme al loro abbandono. La pietra si pone alla ricerca di nuove spazialità dentro forme senza tempo: stanze di pietra, stanze a cielo aperto, brecce sul paesaggio, tagli di luce, percorsi d’ombra, stanze chiuse e spazi aperti ad invitare e accogliere l’uomo per il gioco e per la cura del corpo. Un dentro e fuori, tra acqua, pietra, tra massa e luce, laddove protagonista è Il gigante di pietra, memoria di architetture senza architetti, “sfinge che conosce la sorte”.

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RUPESTRIAN CHURCHES IN PALAGIANELLO, APULIA, ITALY.