“anti-convenzionale” di Joyce Lussu
3 Traduzione come ri-scrittura dell’alterità
Ssecondo le pratiche traduttive di Lussu ri-pensare il concetto di oralità e il suo rapporto con la scrittura è fondamentale per discutere i confini tra la traduzione e le altre forme di ri-scrittura o rappresentazione del testo originale attraverso l’esplorazione di questioni correlate all’affermazione di voci dissidenti nella storiografia e nella letteratura mainstream e alla rappresentazione dell’alterità nel dialogo interculturale. In particolare, Lussu sembra fare propria la metafora della traduzione come ri-scrittura dell’alterità, che è il confronto della traduttrice con concetti, forme e linguaggi sconosciuti, nonché con il dilemma del renderli in un diverso contesto culturale, dato che
la sua pratica implica lo spostamento attraverso confini linguistici e culturali, il trasporto o la rilocazione di lingue e culture marginalizzate entro un dominio più centrale e potente, come si può affermare dalle stesse parole di Lussu: Quando ho fatto pubblicare le sue poesie in Italia, ben pochi le leggevano, poiché in Occidente c’erano pregiudizi formidabili nei confronti delle altre culture. Ossia, accadeva che le culture diverse dovessero sempre passare attraverso il filtro della sinistra europea. Invece, io portavo direttamente il testo e la creatività di un altro paese senza averli filtrati con la mia cultura di occidentale. […] L’avvenimento davvero nuovo di questo secolo è quello di uomini impegnati politicamente che non vedono la poesia e la politica separate. (Ballestra 1996: 219)
Alla luce di tali affermazioni, la pratica di Lussu di traduzione come ri-scrittura dell’alterità coincide, da svariati punti di vista, con il paradigma di traduzione come scrittura postcoloniale, ampiamente discusso da Bandia (2008; 2011). Infatti, entrambi sono ispirati da una cultura basata su una lingua tradizionalmente orale, traspongono un discorso parlato in uno scritto e rivelano una misteriosa abilità nel negoziare i confini tra culture e lingue maggiori e “minori”. In entrambi i paradigmi, lo scopo teorico è “to move the
centre” (Ngugi wa Thiong’o 1993) valicando il filtro interpretativo di matrice
imperiale occidentale e disintegrando la gerarchia tra centro e periferia, unità e diversità. Il progetto di scrittura interculturale e translinguistica messo in piedi da Lussu porta con sé le tracce dell’estetica dei poeti dissidenti, nonché delle loro questioni ideologiche, le quali sono fortemente correlate alle questioni postcoloniali di storia, linguaggio e identità in un contesto non-occidentale. In effetti, le traduzioni di Joyce Lussu delle voci dissidenti del Terzo Mondo mantengono il potenziale rivoluzionario della loro consapevolezza e del loro senso storico della disuguaglianza di potere del colonizzato, che è a sua volta cruciale per fornire una visione diversa di traduzione, lingua e nazione. Trasponendo nelle sue traduzioni il progetto di spazio discorsivo della storia “umana” dei poeti, nonché la loro geografia e società, Lussu resiste alla tentazione di lasciarsi sedurre dalla nozione di traduzione come ri-narrazione ‘esotica’ dell’altro, scegliendo piuttosto una forma di convivenza umana nata dall’esperienza personale.
In un certo senso, un approccio così esperienziale7 alla scrittura e alla traduzione fa eco alla pratica di Dionne Brand di “storicizzare la geografia”
7 Lussu comprende profondamente la condizione di spaesamento dei poeti dissidenti poiché per oltre vent’anni lei stessa aveva vissuto in esilio, prima in quanto membro di una famiglia
(McKittrick 2006). Operazione che si configura come modo di dare forma alla sua narrazione dove lo spazio si interseca con la razza, porta alla luce una terra di passaggi potenti, rende conto di sradicamenti forzati, schiavitù e soppressione di lingue native, narra una storia di oppressione, repressione e resistenza. Definita come “una stanza piena di nazioni esauste e piangenti, una casa che è sicura solo come carne” (ix), la geografia è per Brand quello che la storia è per Lussu, ossia un tentativo umano di rivelare storie nascoste di sfruttamento, lotta, oppressione, dissidenza e resistenza. È cruciale che i poeti dissidenti tradotti da Lussu abbiano esperito uno spazio esistenziale e discorsivo in-between attraverso cui esprimere il rifiuto del destino coloniale e dei significati a esso connessi, nonché creato modi alternativi di riferire le proprie esperienze. Contrariamente a quanto avviene nella pratica prevalente nella traduzione letteraria, dove le specificità contestuali della cultura di partenza vengono spesso adattate alla cultura di arrivo, le traduzioni a opera di Lussu sono poco “addomesticate”. Infatti, Lussu cerca di infondere una lingua europea (come l’italiano) con la realtà socio-culturale dei poeti, come avviene con le note in calce ad alcuni versi delle poesie raccolte nel capitolo Africa,
fuori di Portogallo (111-150) che, sotto forma di piccoli glossari tematici,
spiegano alcune parole specifiche del contesto culturale riferite a: a) nomi locali di luoghi geografici (come Zaire, Calaaris, Cayatte); b) il sistema dei contratti di lavoro (per esempio “contrato”, “asimilados”); c) nomi di persone (“Zé”, “Rubòm Manèl”, “Mendi”, “mamana”, “cocuana”); d) gruppi etnici e sociali (per esempio “ronga”, “badiu”, “Kunoti”, “Barnaìli”); e) animali (“gala-gala”, “sécue”); f) frutti e alberi (come “mapsigna”, “acagiù”); g) strumenti (“tombassana”, “simbòa”).
Questi esempi non sono meramente finalizzati a fornire al pubblico italiano informazioni importanti sulla lingua locale e sul contesto generale dei testi originali, piuttosto essi riflettono la deliberata intenzione della traduttrice di dare voce ed evidenziare l’alterità nella traduzione attraverso l’uso di materiale esplicativo che rivela il potere performativo delle strategie paratestuali di Lussu, ovvero il potere che le parole possiedono di dar forma a convinzioni e valori, alle strutture sociali e culturali e di creare significati che formano e trasformano la realtà umana così come concettualizzata dalla linguistica performativa (Robinson 2003: 5). In tal senso, l’innovazione lessicale e stilistica di questi testi ibridi può anche essere letta come il risultato di quello che Zabus (1990) definisce “alterizzare il linguaggio europeo”, cioè un processo di indigenizzazione che intende sovvertire il linguaggio dominante con la messa a punto di un uso distintivo del linguaggio.
Un’ulteriore strategia paratestuale, adottata da Lussu per rafforzare l’alterità nelle sue traduzioni, è quella di scrivere introduzioni o prefazioni
in cui delinea un ritratto bio-bibliografico dell’autore e dei temi principali dell’opera, dando vita a quelle che Pratt (1992: 9) ha chiamato “narrazioni (auto) etnografiche”, con riferimento alle istanze da parte dei soggetti colonizzati di rappresentare se stessi in modi che coinvolgano i termini del colonizzatore. Si tratta di un fenomeno ampiamente diffuso nelle zone di contatto, che svela le storie dell’assoggettamento imperiale e della resistenza vista dal punto di vista del luogo in cui si origina. Ciò può essere facilmente rilevato nell’introduzione di Lussu (1968) all’antologia L’idea degli antenati. Poesia del Black Power, che inizia con queste parole: «Agli africani deportati in schiavitù i bianchi hanno tolto gli antenati» (31). Questa è la prima «nota di verità», come Lussu definiva questi fatti innegabili, che l’aiuta a ricostruire la storia della diaspora nera africana e afro-americana e l’impatto del colonialismo sulla loro lingua e sulla loro identità, con l’impegno politico descritto in queste righe:
Ai negri d’Africa e d’America il colonialismo ha strappato anche la lingua: sradicandoli dalle lore terre d’origine in condizioni subumane, e riducendoli a condizioni subumane nelle terre d’origine colonizzate, ha bloccato, insieme allo sviluppo di società autonome, anche lo sviluppo di lingue autonome. In Africa, gli africani hanno cristallizzato dialetti chiusi e sclerotici, dal vocabolario limitato; […] in America gli schiavi importati non potevano che adottare la lingua dei padroni, deformandola, ma senza possibilità di opporle una lingua alternativa.
Questo è solo un esempio che illustra come le introduzioni di Lussu non si limitino a posizionare il testo in un ricco contesto culturale e linguistico, ma diventino un saggio geopolitico e un manifesto poetico sul valore letterario delle produzioni culturali dissidenti che possa motivare il pubblico italiano a leggere le sue traduzioni come un modo di ri-scrivere l’alterità.
4 Conclusioni
L’intento di questa ricerca è stato quello di discutere il potere performativo delle traduzioni di Joyce Lussu tra oralità e ri-scrittura interculturale tracciando una nuova cornice teorica nello studio del processo transcreazionale che si verifica, in maniera spontanea, nelle situazioni di contatto linguistico e nella traduzione. In particolare, la sua pratica traduttiva offre nuove interpretazioni della relazione tra linguaggio, cultura, appartenenza e nazione, e diventa terreno fertile per ulteriore ricerca nell’ambito delle relazioni di potere, ideologia e identità così come teorizzate da Spivak (1993). Intraprendendo le traduzioni di Hikmet, Agostinho Neto, José Craveirinha, Kaoberdiano Dambarà e dei
poeti del Black Power, Lussu abbraccia coscientemente una concezione di cultura e letteratura non come mere produzioni estetiche, quanto piuttosto come potenti agenti nel processo di formazione di identità etniche, dissidenti e postcoloniali. Esse sono capaci, inoltre, di portare per il mondo le tracce della loro lotta di liberazione anticolonialista, nella speranza di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana alle cause e ai movimenti rivoluzionari. Dunque, Lussu sperimenta in prima persona la pratica di traduzione come un modo attivo di partecipare all’azione internazionale a sostegno di questi poeti, vittime di persecuzione politica, e di preservare il loro retaggio culturale e la loro identità ibridi, in aperta opposizione all’imperialismo e all’egemonia culturale. In questa peculiare visione della traduzione come pratica dialettica, Lussu pare anche attivare quella che Friedman (1998) definiva «una narrazione del divenire», che consiste nell’adottare “una retorica spaziale fluida e flessibile che pone l’identità come relazionale, situazionale e interattiva – il risultato di un processo in fieri di divenire senza origine né fine”. Alla luce di quanto affermato, dedicandosi all’avventura umana di traduzione come ri-scrittura dell’alterità, così come messa in atto da Lussu, si è cercato di espandere l’orizzonte degli studi di traduzione oltre l’approccio prescrittivo o normativo alle lingue per includere la cosiddetta traduzione performativa, ibrida e creolizzata.
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