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2.4 Rinascita e trascendenza

2.4.2 Transcendence: “The cauldron of morning”

Il tema dell’assoluta trascendenza è ravvisabile in “Fever 103°”, “Ariel” e “Mystic”83. In “Fever 103°” (1963), la protagonista considera inizialmente la febbre alta come segno, identificandola con le fiamme della punizione divina, il fuoco dell’inferno: solo gradualmente, la poesia acquisisce un tono più serio. Ella introduce delle immagini giocose: “I am a lantern”84 e “Does not my heat astound you. And my light. / All by myself I am a huge camellia” (43-44). Alla fine, il calore (“heat”) e la luce (“light”) simboleggeranno la transcendence mentre, all’inizio, venivano identificati con l’espiazione dei peccati e con la febbre. L’ immagine di trascendenza pare, inizialmente, quasi ridicola ed assurda: “I think I am going up / I think I may rise” (46-47). Ella si innalza come una lanterna giapponese, un pallone di aria calda: “My head a moon/ Of Japanese paper, my gold beaten skin /Infinitely delicate and infinitely expensive” (40- 42). Parodiando le rappresentazioni convenzionali dell’Assunzione della Vergine, la protagonista ascende al cielo:

I, love, I

Am a pure acetylene Virgin

Attended by roses, By kisses, by cherubim,

By whatever these pink things mean. (48-53)

83 J.KROLL,Chapters in a Mythology: The Poetry of Sylvia Plath, cit., p. 177. 84 S.PLATH, “Fever 103°”, in Tutte le Poesie, cit., pp. 672-675, v. 39.

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Sotto la farsa, però, giace la potente imagine della “acetylene Virgin” che trascenderà entrambi i suoi selves: l’immagine giocosa dei cherubini viene spazzata via, a favore di un tono più grave e severo. Le triviali e terrene contraddizioni dell’ego si dissolvono, tramite la purificazione dal fuoco: “Not you, nor him/ Nor him, nor him/ (My selves dissolving, old whore petticoats) / To Paradise” (55-58). Le fiamme che distruggono i

selves, allo stesso tempo, li rivelano per quello che sono: falsi ed inessenziali. Le

diverse figure maschili che la protagonista si lascia alle spalle (“You”, “him” ed “him”) fanno parte del “fardello” che ella abbandona, trascende. Separandosene, implicitamente si distacca dal ruolo che ella aveva nei loro confronti, ossia quello di madre, figlia e moglie. In un appunto inviato alla BBC, Plath descrisse minuziosamente “Fever 103°” dal punto di vista tematico: “This poem is about two kinds of fire: the fires of hell, which merely agonize, and the fires of heaven, which purify. During the poem, the first sort of fire suffers itself into the second”85. Secondo la poetessa, le fiamme dell’inferno sarebbero inefficaci (“Tongues of dull, fat Cerberus/ who wheezes at the gate. Incapable/ Of licking clean.”86) poiché sarebbero solamente in grado di produrre agonia e non di distruggere il self che pecca. Il fuoco purificatore del Paradiso, invece, solleva la protagonista dalla sofferenza e dal peccato, annientando i sé che ne sono portatori. In quest’ottica, si può notare come la trascendenza sia paragonabile ad una sorta di conquista, ottenibile solamente attraverso il dolore e la purificazione. In questo caso, la vergine che ascende al Cielo non rinasce sotto forma di fenice, come Lady Lazarus, bensì trascende ad un altro livello di esistenza.

“Ariel”, poesia scritta da Plath in occasione del suo compleanno (27 ottobre 1962), descrive con estatica potenza l’esperienza della transcendence. Il quarto ed il quinto

85 Interview with Peter Orr, www.english.illinois.edu.

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verso, “God’s lioness, / How one we grow”87, si riferiscono al cavallo della protagonista, chiamato Ariel, da cui prende titolo la poesia e tutta la raccolta poetica che la contiene. Alcuni critici sostenevano che questo nome si riferisse, inoltre, allo spiritello della Tempesta: sebbene l’io poetico sia, anch’esso, “leggero”, presumibilmente Plath non voleva alludere all’opera shakespeariana. Il nome “Ariel” fa riferimento alla Bibbia, ed in particolar modo, ad un sacrificio di purificazione. Nel Libro di Isaia, esso è il nome criptato per Gerusalemme: “Ariel, la città dove pose campo Davide!” (29:1). Il nome si assocerebbe, inoltre, al “lion (lioness) of God”, all’ “altar (hearth) of God” ed infine all’altare dell’olocausto, dove le vittime sacrificali venivano consumate dalle fiamme del fuoco perpetuo: “the meaning of Isaiah 29:1-2 seems to be that Jerusalem, here called Ariel, is to become like the altar, a scene of holocaust”88. Il cavallo della poesia viene chiamato “God’s lioness” (Plath scrisse “lioness of God” sul margine alto del manoscritto) e la protagonista, identificandosi con l’altare sacrificale “Ariel”, mette in scena il proprio “olocausto” diventando una vittima consumata dal fuoco, non appena si getta “Into the red/ Eye, the cauldron of morning”89. Ella inizia a lasciarsi alle spalle gli elementi inessenziali della sua vita, acquisendo, man mano, maggiore libertà e purezza:

Nigger-eye Berries cast dark Hooks

Black sweet blood mouthfuls, Shadows.

Something else Hauls me through air Thighs, hair;

Flakes from my heels. (10-18)

87 S.PLATH, “Ariel”, in Tutte le Poesie, cit., pp. 698-700, vv. 4-5.

88 J.KROLL,Chapters in a Mythology: The Poetry of Sylvia Plath, cit., p. 181. 89 S.PLATH, “Ariel”, in Tutte le Poesie, cit., pp. 698-700, vv. 30-31.

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L’esistenza banale non esercita più nessun potere su di lei e, anche il suo passato, viene consapevolmente tralasciato: “White/ Godiva, I unpeel/ Dead hands, dead stringencies” (19-21). La protagonista esprime la volontà di purificarsi e liberarsi dall’inessenziale e, identificandosi con Godiva, ella allude a questa sua volontà portata all’estremo. La nudità di Godiva non è sufficiente. Ella estirpa anche il resto finché non rimane più nulla da togliere: “I / Foam to wheat, a glitter of seas” (22-23). Secondo Graves, la leggenda di Godiva corrisponderebbe a quella della White Goddess, essendo, anche la prima, dea dell’amore e della morte, nonché associata alla morte del Sacred King. Inoltre, il nome “Godiva” o “Godgifu” (“God’s gift”) è parallelo all’epiteto “God’s lioness”. Sebbene Godiva sia associata alla Dea Bianca, ella differisce dalle figure di Lady Lazarus e dalla protagonista di “Purdah” poiché queste ultime, dopo avere recuperato il loro sé autentico, rinascono sotto altra forma. Lo striptease di Lady Lazarus è meno radicale di quello di Godiva, in quanto esso ha la funzione di annientare il false self: la protagonista di “Ariel”, invece, elimina tutto (compresi i due selves) dalla sua esistenza. I colori evocati nella poesia, ossia il nero, il bianco ed il rosso, sono emblematici al fine di descrivere il processo che ha come ultimo scopo l’assoluta trascendenza. Il nero della “Stasis in darkness” rappresenta il torpore, la paralisi della vita mentre il bianco allude alla condizione di death-in-life ma anche alla purezza: l’immagine della “White Godiva” simboleggia la verità nuda, cruda. Il rosso è associato all’alba, alla rinascita e alla purificazione. I colori sono ordinati in tale sequenza poiché descrivono lo svolgimento della vicenda all’interno della poesia. Inizialmente, l’oscurità della stasi cede il posto al biancore di Godiva (stadio intermedio di purificazione), alla fine, anch’esso, muta all’incedere del sorgere del sole, rosso ed incandescente:

And I

Am the arrow, The dew that flies

51 Into the red

Eye, the cauldron of morning. (27-31)

La rugiada viene definita “suicidal” poiché, per sua natura, evapora e s’innalza verso di esso. Quest’ultima immagine rappresenta l’unione mistica con l’universo, la trascendenza: il suicidio è, infatti, anche quello dell’io che si dissolve nell’alba. La protagonista si getta a capofitto “into the red”, abbandona l’inessenziale ed i suoi selves per una definitiva riconciliazione con il tutto. Come Ariel, ella viene consumata e purificata dal sole rovente, rituale necessario per l’assoluta trascendenza.

“Mystic” è la poesia che meglio esprime il concetto mitico-plathiano di transcendence. Essa illustra una perenne crisi mistico-religiosa, quella della “dark night of the soul”: con questo termine, il mistico spagnolo Giovanni della Croce (1542-1591) intendeva l’estremo senso di desolazione e disperazione che sopraffà l’anima umana dopo che essa riceve l’illuminazione divina. La protagonista della poesia medita, infatti, sulla transitorietà dell’esperienza religiosa: l’estasi scaturita dalla visione mistica svanisce e la memoria non è in grado di riprodurla. Plath si interessò al fenomeno dell’esperienza mistica dopo avere letto i resoconti sul tema dello psicologo americano William James, raccolti e pubblicati nel 1902 in The Varieties of Religious Experience. Egli sosteneva che l’esperienza mistica, per definirsi tale, doveva possedere quattro caratteristiche:

Ineffability (ineffabilità), Immediacy (immediatezza), Noetic quality (veridicità) e Passivity (passività). In sostanza, questo stato alterato di coscienza doveva essere

sperimentato personalmente (non poteva essere suscitato da terzi), era inoltre, un’esperienza fuggevole e momentanea. Il problema cruciale che viene esposto in “Mystic” è proprio la fuggevolezza della visione mistica che, essendo appunto transitoria, fa sì che il momento di rivelazione, il senso di verità acquisito, si dissolva insieme ad essa. L’incipit della poesia descrive un’atmosfera opprimente (The air is a

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mill of hooks/ Questions without answers”90), che affligge e disturba la protagonista come fosse uno sciame di mosche. La seguente immagine esprime la condizione del mistico91: “I remember/ The dead smell of sun on wood cabins, / The stiffness of sails, the long salt winding sheets” (6-8). L’odore mortifero del legno e la rigidezza della vela rappresentano il torpore della memoria fallace che, dopo la visione, non è più in grado di riprodurre l’estasi nel mistico. Quest’ultimo rimane, infatti, “seized up”, ed un' unica domanda lo tormenta: “Once one has seen God, what is the remedy?” (9). La protagonista sottolinea il fatto che l’esperienza mistica sia avvenuta nel passato (“Once”) e si pone il problema di come potere continuare a vivere dopo di essa, come poter tornare a condurre un’esistenza banale dopo aver sperimentato l’estasi. Il contrasto tra avere esperienze mistiche ed essere, quindi, un mistico, ed avere avuto esperienze mistiche ed essere stato un mistico è sottile, ma coerente con un pensiero di Plath nei confronti della sua condizione di scrittrice: “I find myself absolutely fulfilled when I have written a poem, when I’m writing one. Having written one, then you fall away very rapidly from having been a poet to becoming a sort of poet in rest, which isn’t the same thing at all.”92 In “Mystic”, la protagonista stila una serie di rimedi inefficaci per alleviare i “postumi” della visione:

The pill of the Communion tablet, The walking beside still water? Memory? Or picking up the bright pieces

Of Christ in the faces of rodents, The tame flower-nibblers, the ones

Whose hopes are so low they are comfortable—– The humpback in his small, washed cottage Under the spokes of the clematis. (16-23)

90 S.PLATH, “Mystic”, in Tutte le Poesie, cit., pp. 792-794, vv. 1-2.

91 J.KROLL,Chapters in a Mythology: The Poetry of Sylvia Plath, cit., p. 198. 92 Ibidem, p. 204.

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Gli ultimi versi della poesia suggeriscono che, presumibilmente, un rimedio è stato trovato. Il sole è sorto, un nuovo giorno è nato; esso rappresenta la trascendenza dell’io sotto forma di estasi:

The chimneys of the city breathe, the window sweats,

The children leap in their cots. The sun blooms, it is a geranium. The heart has not stopped. (28-31)

L’alba suggerisce che la “dark night of the soul” è finalmente terminate. La città e per estensione, il mondo intero, “breathe”, “sweap” e “leap” ed il sole fa loro da motore. Il cuore dell’universo e quello della protagonista si fondono in un tutt’uno: esso non si ferma (“The heart has not stopped”), perpetuando un senso di estasi continua. Il sole è come un geranio che sboccia ogni giorno, ogni giorno si sacrifica, appassendo, per poi rinascere. All’interno della poetica plathiana, l’immagine del sole del mattino viene spesso associata ad un geranio rosso fuoco, con il fine di simboleggiare la purificazione spirituale e la trascendenza. Il fiore che sboccia, il cuore che pompa ed il sole sono di fatto simboli di vitalità e rigenerazione. In “Poppies in October”, ad esempio, il cuore della protagonista “blooms”93 all’interno del suo cappotto, ed in “Tulips”, esso viene paragonato ad una “bowl of red blooms”94. In “Fever 103°”, un fiore rosso rappresenta uno stadio del processo che termina nella transcendence: la protagonista si identifica, infatti, in una “glowing”95 Camelia. In “Mystic”, il sole rimanda all’alba incandescente presente in “Ariel”, all’interno della quale la protagonista si getta e trascende, dissolvendosi e liberandosi dalle limitazioni dell’ego.

93 S.PLATH, “Poppies in October”, in Tutte le Poesie, cit., p. 702, v. 3. 94 Ibidem, pp. 462-466, vv. 60-61.

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CAPITOLO III

Inseparable, here we must remain

Durante il party a Falcon Yard per pubblicizzare la St. Botolph’s Review, Sylvia Plath attirò l’attenzione di Hughes recitando un verso tratto da una sua poesia: “I did it, I”.96 Quest’ultimo, piacevolmente sorpreso, rispose “You like?”.97 Questo breve scambio di battute fu il preludio di un rapporto di vita ed una collaborazione creativa che i due poeti stabilirono poco dopo. Lavorando fianco a fianco, essi esercitarono un’influenza reciproca e dinamica. Questo legame può essere riscontrato in numerose poesie, a partire da quelle composte ancor prima del matrimonio, sino a quelle successive alla separazione, precedenti al suicidio di Sylvia. Nonostante la scomparsa prematura di Plath, Hughes continuò a “dialogare” con le sue poesie, riutilizzandone immagini e rievocando eventi condivisi da entrambi, come si può vedere soprattutto nei due volumi che si incentrano sulla figura della poetessa: Birthday Letters (1998) e Howls &

Whispers (1998), quest’ultimo apparve in edizione limitata di 110 copie.