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"It is only a story. Your story. My story": il sodalizio letterario tra Ted Hughes e Sylvia Plath

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INDICE

Fulbright Scholars ... 1

1.1 Ted Hughes: un apprendistato selvaggio ... 1

1.2 Penseri volpe ed altre cose animali ... 8

1.3 Sylvia Plath: la giovane americana fra auto-realizzazione e autodistruzione. ... 13

1.4 La ragazza che voleva essere Dio ... 17

The dew that flies suicidal ... 23

2.1 La morte-in-vita: “If I could bleed, or sleep!” ... 26

2.2 L’esorcismo: “You bastard, I’m through.” ... 30

2.3 Morire per rinascere: “The woman is perfected” ... 34

2.4 Rinascita e trascendenza ... 40

2.4.1 Mythic Rebirth: “Out of the ash/ I rise” ... 41

2.4.2 Transcendence: “The cauldron of morning” ... 47

Inseparable, here we must remain ... 54

3.1 Conversazioni poetiche: call and response ... 54

3.2 Birthday Letters e Howls & Whispers: “Your story. My story.” ... 67

3.3 Salvias splendens: “Even amidst fierce flames the Golden Lotus may be planted” ... 76

The self I was and the self I am ... 86

4.1 A Children’s Poet: “A curious occupation” ... 87

4.2 I libri per l’infanzia di Sylvia Plath: “There is a voice within me/ That will not be still” ... 103

CONCLUSIONE ... 117

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CAPITOLO I

Fulbright Scholars

“Fulbright Scholars”1, la prima poesia della raccolta Birthday Letters registra il primo ricordo che Ted Hughes ha di Sylvia Plath: una fotografia della studentessa apparsa sulla locandina dello Strand Magazine.

Nel 1954 Ted Hughes si laurea a Cambridge in archeologia ed antropologia, dopo avere abbandonato lo studio della letteratura inglese. Due anni dopo, insieme ad alcuni amici dell’università, redige la rivista letteraria St. Botolph’s Review, della quale però uscirà un solo numero. A febbraio, in occasione del party a Falcon Yard per pubblicizzare la nuova rivista, Hughes conosce la giovane poetessa americana Sylvia Plath. Lo stesso anno i due si sposano a Bloomsbury. Come vedremo, la loro unione può essere vista come una sorta di sodalizio letterario che durerà per tutti gli anni della loro unione, fino al suicidio di Plath, avvenuto l’11 febbraio 1963.

1.1 Ted Hughes: un apprendistato selvaggio

Ted Hughes (1930-1998) nacque a Mytholmroyd nel West Yorkshire: qui trascorse la sua prima infanzia appassionandosi alla caccia ed alla natura. A soli sei anni, si trasferì con la famiglia a Mexborough e, frequentando la scuola, dimostrò sin da subito un grande interesse per la letteratura. Alla Mexborough Grammar School, il suo talento di scrittore in erba per il giornalino della scuola venne immediatamente riconosciuto. Nel 1948 venne ammesso al Pembroke College di Cambridge e, dopo avere prestato servizio

1 T.HUGHES,“Fullbright Scholars”, in Birthday Letters (1998), Collected Poems, London, Faber,

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alla RAF per due anni, potè iniziare l’università. Nel 1953, dopo avere abbandonato il corso di letteratura inglese, Hughes si iscrive ad antropologia ed archeologia, ambito nel quale gli verrà conferita la laurea l’anno successivo. Nel solito periodo venne pubblicata sulla rivista Granta la sua prima poesia “The Little and the Seasons”. Nel febbraio 1956 avvenne l’incontro con Sylvia Plath, con la quale si sposerà nel mese di giugno. Sarà proprio la Plath ad incoraggiarlo, l’anno seguente, a presentare The Hawk in the Rain al concorso bandito dall’editore newyorkese Harper che, decretandolo vincitore, gli darà la possibilità di pubblicare la sua prima raccolta di poesie.

Nelle quaranta poesie della raccolta, Hughes si distinse subito per il suo stile dinamico ed espressivista, palesemente differente da quello dei poeti del Movement. Per i suoi versi, egli attinse dall’immaginario mitopoietico e folclorico; numerosi sono gli esempi di animal poem, come ad esempio, la prima poesia, “The Hawk in the Rain”.2 Il testo propone una situazione che diventerà usuale anche nelle sue opere successive e cioè il confronto tra un animale ed un essere umano, il quale si scopre decisamente inferiore, debole ed inadatto rispetto al primo. L’animale rappresenta l’energia e il vitalismo non imprigionato dal logos della cultura; la violenza inconscia lo rende superiore poiché il suo istinto primitivo lo guida verso la sopravvivenza “ad ogni costo”, senza però le remore tipiche della condizione mentale umana. In questa raccolta è contenuta anche “The Thought-Fox”.3 lirica-manifesto di Hughes. In questo animal poem, la volpe si fa emissaria dell’inconscio del poeta e rappresenta la poesia che nasce come attività semi-conscia per svilupparsi poi in un impulso automatico, in una trance creativa. L’altro nucleo di poesie della raccolta tratta della guerra e, in particolare, della differenza tra gli antichi guerrieri valorosi e i moderni mezzi di distruzione di massa che rendono l’impresa bellica totalmente priva di ogni connotazione eroica.

2 T.HUGHES,“The Hawk in the Rain”, in The Hawk in the Rain (1957), Collected Poems, cit., p. 19. 3 Ibidem, p. 21.

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Nel 1958, Hughes si trasferì insieme alla moglie a Northampton (Massachussets) dove tenne un corso di Creative Writing presso l’Università del Massachussets. Plath, nel frattempo, ottenne un incarico d’insegnamento annuale presso lo Smith College. Nello stesso anno, la coppia conobbe l’artista e grafico americano Leonard Baskin, con il quale Hughes ebbe una forte intesa artistica: collaboreranno a numerose opere, tra le quali Crow (1970) e Cave Birds (1975).

Nel 1960 la coppia tornò nel Regno Unito, a Londra, dove nacque la loro prima figlia, Frieda. Hughes pubblicò, nello stesso anno, la sua seconda raccolta, Lupercal. L’uomo moderno, inaridito dal logos, viene qui dipinto come un vagabondo senza onore né speranza; egli è nudo e bisognoso di cure e soccorso. Come Romolo e Remo, l’uomo della contemporaneità ha bisogno dell’aiuto mitico della lupa per riscattare la sua vita. Il titolo della raccolta allude alla grotta sul colle Palatino dove la lupa allattò i due fratelli e rimanda ai riti di fertilità pagani (lupercalia) compiuti ogni 15 febbraio in nome di Fauno, il dio della natura e della morte. Quest’ultimo binomio, natura-morte, è sempre presente nella poetica hughesiana, che nella morte vede il compimento del ciclo della vita. Questa circolarità permette ad ogni essere, anche il più infimo, rinascere ed essere infinitamente riammesso nella catena dell’esistenza.

Il 1962 fu un anno cruciale per Hughes poiché, nonostante la nascita del secondo figlio, Nicholas, egli si separò da Sylvia Plath, dopo essersi infatuato di Assia Wevill.

L’11 febbraio 1963, a meno di un anno dalla separazione, la Plath si suicidò nel suo appartamento londinese. Dopo questo evento, Hughes abbandonò momentaneamente la poesia per adulti e scrisse quasi solo libri per bambini. In totale, egli scrisse dodici opere per bambini: otto raccolte poetiche, tre racconti brevi e un saggio che introduce alla poesia i giovani lettori. In tale ambito, le sue raccolte più significative sono Moon

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Whales and Other Moon Poems (1963), Season Songs (1975) e Under the North Star

(1981).

Inoltre, in questi anni, Hughes si occupò, come esecutore testamentario, delle opere di Plath e curò la pubblicazione di quelle ancora inedite. Nel 1965, Ariel, la celebre raccolta plathiana, venne pubblicata postuma da Hughes, il quale escluse dal libro undici poesie (“the more personally aggressive”) e ne aggiunse nove, composte dalla moglie i giorni immediatamente precedenti al suicidio. Come vedremo più avanti nel corso della nostra ricerca, l’operato di Hughes (sebbene dettato dalla volontà di proteggere la sua famiglia) alterò il significato della raccolta ideata dalla Plath.

Nel 1967 apparve Wodwo, libro che, come sostengono alcuni critici, conclude la prima fase creativa di Hughes. Il titolo rimanda al poema medievale Sir Gawain and the Green

Knight e gioca, anch’ esso, sull’opposizione natura-cultura. Diviso in tre sezioni, la

prima e l’ultima formate da poesie mentre quella centrale da short stories, queste ultime ispirate a testi sciamanici a cui il poeta si interessò nel corso degli anni Sessanta. Il tema del poeta-sciamano, che si avvicina al mondo spirituale grazie all’aiuto di un “animale guida” per poi offrire consiglio alla comunità, può essere considerato una cifra stilistica di Hughes, riutilizzata anche in opere successive.

Tre anni dopo, uscì l’incompiuto Crow: From the Life and Songs of the Crow, uno dei lavori più originali di Hughes. L’idea nacque dalla richiesta di Baskin di scrivere poesie che commentassero alcune sue incisioni riguardanti un corvo. La raccolta propone una storia della creazione e dell’evoluzione umana alternativa rispetto a quella canonica giudaico-cristiana. La vicenda, sebbene incompleta, celebra la rivolta dell’uomo contro il Dio-logos, il quale viene deriso per la sua creazione, l’essere umano. Egli sfida la Voce che lo sfida nel sonno, a creare qualcosa di meglio dell’umanità. Viene così generato l’eroe eponimo, Crow, il quale può essere considerato l’alter-ego oscuro

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dell’uomo. La sua evoluzione, secondo lo schema originario dell’opera, doveva essere garantita dall’incontro con la femminilità. In queste poesie è ravvisabile un sincretismo di miti: dalla Genesi eschimese, al Buddismo, dalla mitologia orientale a quella cristiana e biblica, i cui contenuti vengono ironicamente rovesciati. Crow è un trickster sciamanico che si fa portavoce del vitalismo naturale e dell’accettazione stoica della sofferenza.

La raccolta fu sicuramente il prodotto delle conseguenze prodotte su Hughes dal suicidio della Plath e quello della sua nuova compagna, Assia Wevill (prima di suicidarsi, quest’ultima, tolse la vita anche alla figlia di tre anni, Shura, laddove Sylvia si era premurata di garantire la sicurezza dei suoi figli.). Come Crow, il poeta si rivela comunque “stronger than death” e trasforma il dolore in impulso artistico e nutrimento.

Gaudete, opera del 1977, venne concepita da Hughes come sceneggiatura di un film mai

realizzato: questo testo in versi misti a prosa narra le vicende del reverendo anglicano Nicholas Lumb. Egli vaga in una “city of the dead” dalle caratteristiche tipicamente eliotiane, perfetto ritratto dell’impoverimento spirituale della società contemporanea. Anche in questo caso, il materiale a cui Hughes attinge è ricchissimo: dalle preghiere indiane in onore della dea Shiva, a The White Goddess di Graves sino al repertorio onirico personale.

Altra opera esemplare di questo periodo è Cave Birds, pubblicata nel 1978: anche essa venne concepita come una raccolta di poesie che commentassero alcuni disegni di Baskin di soggetto ornitologico. Essa è sottotitolata “An Alchemical Cave Drama” poiché la mente creativa del poeta può essere paragonabile ad un laboratorio alchemico personale dove, grazie ad un una forte insistenza immaginativa, avviene la creazione del personaggio immaginario, protagonista della raccolta. Proprio come gli alchimisti che cercavano di trasmutare i metalli in oro, così il personaggio tenta di acquisire

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consapevolezza di sé, attraversando una quest interiore ed un “processo alchemico” di morte e sofferenza. Dopo avere superato una serie di prove presiedute da figure autoritarie (ad esempio, “the interrogator”, “the judge”, “the executioner”), il protagonista incontra il femminino che, come in Crow, è una figura cruciale per suo il processo di rigenerazione. Nel finale, il protagonista riconosce in sé la divinità che aveva sempre cercato poiché avviene l’unione dei due amanti (“Bride and Groom Lie Hidden for Three Days”4): il principio maschile e quello femminile si uniscono dando origine ad un tutto indistinto e perfetto.

L’anno successivo uscì Remains of Elmet, le cui poesie vennero ispirate dalla visione di alcune fotografie della Calder Valley realizzate da Fay Godwin.

L’amore per i luoghi dell’infanzia e la brughiera portò Hughes a trasferirsi, nel 1970, in una fattoria del Devon insieme alla nuova moglie, Carol Orchard. L’esperienza come allevatore di bestiame e il ritorno alla terra lo portarono a comporre, nel 1979,

Moortown: A Diary, una raccolta di poesie scritte “di getto”, dopo il lavoro. Il volume

prende il nome dalla fattoria del poeta ed è diviso in quattro sequenze: “Moortown Elegies”, “Prometheus on his Crag”, “Earth-Numb” ed “Adam and the Sacred Nines”. Il tema della raccolta è la memoria in connessione al processo poetico, ossia il meccanismo che porta il poeta a ricordare una determinata esperienza a discapito di un’altra e come la tecnica e lo stile influiscano sulla rievocazione di un ricordo.

Nel 1984 Hughes succede imprevedibilmente a Sir John Betjeman nella carica di poeta laureato ed inizia a lavorare a Flowers and Insects: Some Birds and a Pair of Spider, che verrà pubblicato due anni più tardi.

Pochi mesi prima di morire, nel 1998, dopo più di trent’anni di silenzio sull’argomento, Hughes pubblicò Birthday Letters e Howls & Whispers, due raccolte di poesie

4 T.HUGHES,“Bride and Groom Lie Hidden for Three Days”, in Cave Birds (1978), Collected Poems,

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contenenti i suoi pensieri e le sue emozioni riguardanti il travagliato rapporto con Sylvia Plath. Howls & Whispers esce in edizione limitata di centodieci copie poiché, presumibilmente, Hughes non voleva rendere note ad un pubblico così ampio le sue poesie più intime e/o più personalmente compromettenti. Birthday Letters è il resoconto che ripercorre le vicende Hughes-Plath che vanno dal primo incontro, avvenuto il 25 febbraio 1956 (“Fulbright Scholar”) al suicidio di Plath, l’11 febbraio 1963 (“Red”). Hughes non riscrive la storia esclusivamente dal suo punto di vista, bensì esplora soprattutto le ferite interiori sofferte dalla donna amata. Nel corso dell’elaborato, focalizzeremo la nostra attenzione su un aspetto fondamentale di Birthday Letters, cioè la riscrittura di circostanze condivise con la Plath e da lei già poetate come, ad esempio, la poesia “The Rabbit Catcher”. Nel 1998, il libro vinse il Forward Prize for Poetry e, nell’occasione della premiazione, Hughes spiegò le origini dell’opera: “My book is a gathering of the occasions on which I tried to open a direct, private, inner contact with my first wife, not thinking to make a poem, thinking mainly to evoke her presence to myself, and to feel her there listening[…]”.5

L’ultima opera di Hughes, così diversa dalle precedenti, può quindi essere vista come una sorta di ultimo atto comunicativo: nonostante la morte prematura di Plath, egli “dialoga” con le sue poesie, utilizzandone le immagini e rievocandone gli eventi; un’ulteriore prova del filo indissolubile che lega i due poeti.

5 I.TWIDDY,“Pastoral Elegy in Ted Hughes’s ‘Birthday Letters’”, Pastoral Elegy in Contemporary

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8 1.2 Penseri volpe ed altre cose animali

Nel 1953, a Cambridge, Ted Hughes decise di abbandonare il corso di letteratura inglese a favore dello studio dell’antropologia. Come egli stesso sostiene nel saggio “The Burnt Fox”6, contenuto nella raccolta Winter Pollen, questa decisione venne presa a seguito di un sogno inquietante, nel quale egli ricevette la visita, appunto, di una “volpe bruciata”: “I began to dream […] It was a fox, but the size of a wolf. As it approached I saw that its body and limbs had just now stepped out of a furnace. Every inch was roasted, smouldering, black-charred, split and bleeding.”7 Egli interpretò il sogno come un avvertimento, un invito ad abbandonare gli studi letterari che lo “allontanavano” dalla vita interiore, la quale doveva essere alimentata dall’immaginazione mitica. Hughes, in effetti, era stato attratto dalle vicende mitiche e folkloriche sin dalla tenera età: “I began reading myths and folklore when I was thirteen or fourteen, and for years, apart from poetry, that was pretty well all I read”.8

Inoltre, Hughes afferma di essere stato influenzato dall’opera di Robert Graves, The

White Goddess (1948), della quale ricevette una copia in regalo da John Fisher,

professore alla Mexbourgh Grammar School. L’opera è un ricettacolo di mitologia e folklore gallese, irlandese, nord-americano e medio-orientale, definito da Hughes “the chief holy book of my poetic consciousness”9. Nel suo saggio, Graves affermava che le società primitive del nord Europa e del Mediterraneo venerassero la figura matriarcale della “Triple Goddess” (Triplice Dea), associata alla Luna e alle sue tre fasi: crescente, piena e decrescente. Questi tre stadi corrispondevano simbolicamente, nell’ottica degli

6 T. HUGHES, “The Burnt Fox”, in Winter Pollen: Occasional Prose, London, Faber and Faber

Limited, 1995, pp. 8-9.

7 Ibidem, p. 9. 8 Ibidem, p. 11.

9 T.GIFFORD,“The Anthropologist’s Uses of Myth”, in The Cambridge Companion to Ted Hughes,

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antenati, alla nascita, morte e rinascita. “The Triple Goddess” aveva il potere di creare e distruggere a suo piacimento: era detentrice del destino degli uomini e ad essa venivano dedicati rituali che prevedevano sacrifici animali e umani. Secondo lo studio di Graves, le prime composizioni poetiche primitive celebravano il ciclo di vita-morte-rinascita: questo è ravvisabile nell’antichissima storia del “Theme” che narrava la vicenda della

Triple Goddess e del suo consorte, God of Waxing Year (dio dell’Anno Crescente),

chiamato anche Sacred King. Quest’ultimo viene ucciso nel giorno del Solstizio d’estate e rimpiazzato dal God of the Waning Year (dio dell’Anno Calante). Nel giorno del Solstizio d’inverno, il Sacred King risorge ed usurpa il trono del rivale. Il poeta identifica se stesso con il dio dell’Anno Crescente e la sua Musa con la Triplice Dea; il nemico è il suo fratello di sangue, il suo doppio o Weird.10

Secondo Graves, gli antenati consideravano la storia del Theme come un avvertimento a vivere in armonia con gli animali e la natura circostante per assecondare il volere delle Triplice Dea. Lo studioso affermava come i contemporanei avessero dimenticato questo ammonimento a causa del progresso filosofico, scientifico ed industriale: per questo motivo, essi si distaccarono dalla Dea e dalle forze naturali. Nel saggio “Myth and Education”11, Hughes affermava, al pari di Graves, come gli ideali filosofici della società occidentale degli ultimi trecento anni avessero alienato l’uomo dalla sua vita interiore. Rigettando l’elemento soggettivo del proprio inner self e basandosi solamente su principi oggettivi per descrivere la realtà, gli uomini, secondo Hughes, avrebbero negato “the most important part of their experience”12. Come Graves, egli credeva che, dall’Età del Bronzo in poi, la poesia fosse gradualmente diventata sempre più intellettualizzata. Solamente nel periodo del Romanticismo, gli artisti ed i poeti tentarono di ristabilire le connessioni tra gli esseri umani e la natura.

10 R.GRAVES,La Dea Bianca, Milano, Adelphi Edizioni, 1992.

11 T.HUGHES,“Myth and Education”, in Winter Pollen: Occasional Prose, cit., pp.136-53. 12 Ibidem, p. 152.

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Inoltre, Hughes subì l’influenza di Jung, W. B. Yeats e Paul Radin ed utilizzò concetti antropologici e/o psicologici per descrivere il processo creativo. In modo particolare, egli sosteneva che ogni forma d’arte costituisse un “metodo curativo” naturale: egli paragonava il ruolo del poeta a quello dello sciamano-guaritore (shamanic healer) presente nelle tribù primitive, il quale varcava i confini del mondo materiale per curare le anime della sua comunità:

The word ‘shaman’ comes from the Tungus. Shamanism is not a religion, but a technique for moving in a state of ecstasy among the various spiritual relams, and for generally dealing with

souls and spirits, in a practical way, in some practical crisis.

[…] The results, when the shaman returns to the living, are some display of healing power, or a clairvoyant piece of information.13

La poetica di Hughes può essere vista, infatti, come l’espressione della quest mitica ed interiore del poeta verso una healing truth, una verità “curativa” che riesca a ristabilire un rapporto tra l’essere umano, il suo inner self e la natura.

Negli anni Sessanta, egli si interessò allo sciamanesimo e al ruolo fondamentale che hanno gli animali all’interno di questa antichissima pratica spirituale. Secondo questa tradizione, gli animali sono direttamente connessi al mondo divino (chiamato anche “animal/spiritual consciousness”), dal quale l’uomo viene escluso poiché imprigionato dal logos. Solamente lo sciamano può accedere alla “animal/ spiritual consciousness” attraverso vari stadi di iniziazione e dopo avere raggiunto uno stato alterato di coscienza. A questo punto, grazie all’influenza di un animal totem (animale guida), eglì sarà pronto per comprendere la healing truth ed ed avrà la missione di trasmettere al suo popolo la profonda conoscenza acquista.14

13 T.HUGHES,“Regenerations”, in Winter Pollen: Occasional Prose, cit., pp. 56-57.

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Nella maggior parte delle sue opere, Hughes si avvale, appunto, degli animal totems: questa caratteristica della sua poetica viene definita da alcuni critici come “animalizing imagination”15.

L’esempio più calzante di questa peculiarità è ravvisabile in “The Thought-Fox”16 che, come affermato in precedenza, può essere considerato l’animal poem per eccellenza poiché racchiude in sé tre animali in uno: quello biologico (“fox”), quello simbolico (“thought-fox”) e quello testuale (“text fox”). La volpe nel suo triplice aspetto può essere considerata un animale totem o sciamanico poiché ha il potere di trascendere dalla sua esistenza fisica per varcare le porte del regno mitico-spirituale, abbattendo i confini tra il mondo terrestre e quello divino. Anche in altre poesie della raccolta The

Hawk in The Rain, tra cui “The Jaguar”17, “Macaw and Little Miss”18 e “The Horses”19, Hughes esprime la necessità di abbattere i confini che giacciono tra l’intelletto umano e le energie della natura, per liberare così l’io interiore dalle restrizioni del logos.

Nelle sue raccolte, Hughes sembra focalizzarsi sulla relazione problematica che sorge dalla separazione del mondo esterno-materiale rispetto al panorama interiore dell’uomo. Hughes tratta il medesimo argomento nel saggio “Myth and Education”: parlando della relazione tra questi due regni, apparentemente opposti, il poeta individua nella figura del bambino colui che possiede la capacità di accettare il proprio io interiore poiché egli è “the least conditioned by scientific objectivity to life”20 ed è consapevole “that this inner world we have rejected is not merely an inferno of depraved impulses and crazy explosions of embittered energies. Our real selves lie down there.”21 Ciò che Hughes auspica, quindi, è il ritorno ad un’innocenza matura ma, allo stesso tempo, tipicamente

15 T.GIFFORD,“Hughes and Animals”, in The Cambridge Companion to Ted Hughes, cit., p. 4. 16 T.HUGHES,“The Thought-Fox” in The Hawk in the Rain (1957), Collected Poems, cit., p. 21. 17 Ibidem, p. 20.

18 Ibidem. 19 Ibidem, p. 22.

20 T.HUGHES,“Myth and Education”, in Winter Pollen: Occasional Prose, cit., p. 149. 21 Ibidem.

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infantile, grazie alla quale egli (e l’umanità in generale) può raggiungere la healing truth ossia ristabilire un rapporto con il suo inner self ed il mondo animale-naturale.

Nell’ultima raccolta della sua carriera, Birthday Letters, Hughes fornisce un resoconto, a tratti mitopoietico, di alcune esperienze vissute durante la relazione con Sylvia Plath e nel periodo successivo al suo suicidio. L’utilizzo del mito per parlare di eventi autobiografici venne criticato da alcuni reviwers, che accusarono Hughes di adoperare questo metodo per allontanare da sé la responsabilità della morte della poetessa. A questo proposito, nel saggio Mourning Eurydice: Ted Hughes as Orpheus in Birthday

Letters22, Bundtzen, al contrario sostiene l’opportunità di distaccare l’ultima opera di

Hughes dalla sua biografia per poterne apprezzare il valore letterario.

Bundtzen analizza le numerose analogie tra Hughes ed Orfeo, il personaggio mitologico legato alla tormentata storia d’amore con Euridice. Nella poesia “A Picture of Otto”23, infatti, Hughes discende nell’oltretomba per chiedere ad Otto Plath di consentire a sua figlia di tornare sulla terra: “To meet me face to face in the dark adit where I have come looking for your daughter.” (9-10)

Come è noto, Euridice era stata uccisa mentre cercava di fuggire dall’apicoltore Aristeo: la correlazione tra quest’ultimo e l’entomologo Otto Plath venne considerata da Hughes una coincidenza allarmante. Il mito di Orfeo, racchiuso nelle poesie di Birthday

Letters, può essere considerato, quindi, lo strumento che Hughes utilizzò per alleviare la

propria sofferenza postuma al suicidio di Sylvia.

Come vedremo nel corso della nostra ricerca, una delle peculiarità di Birthday Letters è il fatto che numerosi componimenti di Hughes sembrano corrispondere con alcune

22 L.K.BUNDTZEN,Mourning Eurydice: Ted Hughes as Orpheus in ‘Birthday Letters’, Philadelphia,

Indiana University Press, 2000.

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poesie della Plath: alcune hanno il medesimo titolo (“Wuthering Heights”24, “Brasilia”25), trattano simili argomenti (ad esempio, “The Bee God”26 di Hughes evoca le “bee poems” plathiane) oppure aprono un “dialogo” postumo (“Trophies”27 come risposta alla poesia “Pursuit”28). Altre poesie fanno riferimento alle opere in prosa della poetessa: “The Table”29 e “The Rag Rug”30 rimandano, ad esempio, ad alcune pagine dei Journals e di Letters Home.

Birthday Letters quindi non solo testimonia l’efficacia dell’utilizzo del mito come spiritual-healer bensì mostra l’influenza reciproca ed il filo indissolubile che lega i due

poeti, i quali “share a view of poetry as a raid on the inner life…their poems should be read together as raid and counter-raid, gathering intensity as they developed.”31

1.3 Sylvia Plath: la giovane americana fra auto-realizzazione e autodistruzione. Sylvia Plath (1932-1963) nacque a Boston da Otto e Aurelia Plath, immigrati tedeschi. Il padre emigrò negli Stati Uniti ancora adolescente e diventò professore di biologia ed entomologia presso l’Università di Boston. Sin da bambina, Sylvia crebbe in un clima di rigore e competizione intellettuale, permeato dalla letteratura e dell’apprendimento delle lingue straniere.

Nel 1940 Otto Plath morì di embolia in seguito ad un’operazione chirurgica: all’epoca Sylvia aveva solamente otto anni ma questo evento condizionò per sempre la sua vita.

24 T.HUGHES,“Wuthering Heights”, in Birthday Letters (1998), Collected Poems, cit., p. 1080. / S.

PLATH, “Wuthering Heights”, in Tutte le Poesie, cit., p. 484.

25 Ibidem, p. 1157. / Ibidem, p. 758. 26 Ibidem, p. 1140.

27 T.HUGHES,“A Picture of Otto”, in Birthday Letters (1998), Collected Poems, cit., p. 1054. 28 S.PLATH, “Pursuit”, in Tutte le Poesie, cit., p. 8.

29 T.HUGHES,“The Table”, in Birthday Letters (1998), Collected Poems, cit., p. 1132. 30 Ibidem, p. 1136.

31 T.GIFFORD,“Ted Hughes and Sylvia Plath”, in The Cambridge Companion to Ted Hughes, cit., p.

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La famiglia si trasferì a Wellesley, nel Massachussets, dove la madre cominciò a lavorare come insegnante.

Sin dalla tenera età, Sylvia Plath si distinse per il suo eccezionale talento nella scrittura (pubblicò la sua prima poesia a otto anni, poco prima della morte del padre) e fu sempre una studentessa brillante. Dopo essersi diplomata a pieni voti, venne ammessa allo Smith College dove continuò a scrivere poesie e racconti, alcuni dei quali vennero pubblicati in vari giornali e riviste.

Il 1953 fu un anno cruciale per Plath: dopo un breve soggiorno a New York, durante il quale lavorò come tirocinante presso la rivista Mademoiselle, ella scoprì, una volta tornata a casa, di non essere stata ammessa ad un seminario di scrittura creativa ad Harvard. La brutta notizia la gettò nello sconforto più totale, temendo di non potere realizzare il sogno di diventare scrittrice. Vedendola in questo stato di angoscia, la madre decise di sottoporla alle visite di un medico, il quale prescrisse come terapia l’elettroshock. Il trattamento aggravò ulteriormente la condizione psichica della Plath, la quale tentò il suicidio ingerendo dei sonniferi, il 24 agosto dello stesso anno. Venne ritrovata qualche giorno dopo nella cantina di casa, inebetita ma viva. Dopo una diagnosi di schizofrenia, venne sottoposta nuovamente ad un ciclo di elettroshock che, almeno apparentemente, funzionò. Due anni dopo, grazie ai suoi voti brillanti, Sylvia ottenne la borsa di studio Fulbright per l’Università di Cambridge.

In questo periodo, continuò a scrivere poesie, pubblicandole sul giornalino studentesco

Varsity. Sebbene il suo talento venisse immediatamente riconosciuto, ella affidò alle

pagine del suo diario il pensiero costante e conflittuale di dovere scegliere, in quanto giovane donna, tra la volontà di dedicarsi completamente alla scrittura e quella di diventare una “buona moglie”, una donna “normale”: “Some pale, hueless flicker of sensitivity is in me. God, must I lose it in cooking scrambled eggs for a man…hearing

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about life at second hand, feeding my body and letting my powers of perceptions and subsequent articulation grow fat and lethargic with disuse?”.32

Sempre a Cambridge, il 25 febbraio 1956 Sylvia Plath incontrò Ted Hughes: i due si sposarono nel giugno dello stesso anno. Hughes, per la Plath, non rappresentò solamente lo sposo amato bensì un maestro di versi, come si può vedere nella poesia “Ode for Ted”33, nella quale esprime tutta la sua ammirazione per l’energia creativa del poeta. Nel 1960, Plath pubblicò il suo primo volume di poesie: The Colossus and Other

Poems. Nei due anni seguenti, ella iniziò la stesura del romanzo The Bell Jar e, dopo

avere scoperto la relazione extraconiugale del marito, si trasferì a Londra con i bambini, affittando l’appartamento dove aveva precedentemente abitato il poeta William Butler Yeats. Questo periodo, sebbene di grande sofferenza dovuta al fallimento del suo matrimonio, coincise anche con il momento di maggiore intensità creativa e produttività poetica: nonostante la fatica di crescere i figli da sola, ella compose le sue poesie più intense, pubblicate postume nella raccolta Ariel, tra le quali “Daddy”, “Poppies in October” e “Lady Lazarus”. Nello stesso anno, registrò alcune delle sue poesie presso gli studi della BBC e venne pubblicato il romanzo The Bell Jar sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas.

Nel corso dell’inverno le condizioni psichiche della Plath peggiorarono notevolmente e la condussero ad una grave depressione che i terapisti non riuscirono ad arginare. L’11 febbraio 1963 Sylvia Plath si suicidò a soli trent’anni: dopo avere isolato la camera dei suoi bambini per proteggerli dalle fuoriuscite di gas, ella ingerì dei sonniferi e mise la testa nel forno, morendo per avvelenamento da monossido di carbonio.

La maggior parte dei volumi di poesie a cui è affidata la fama della Plath, Ariel (1965),

Crossing the Water (1971) e Winter Trees (1972) venne pubblicata a cura di Ted

32 T.HUGHES-F.MCCULLOUGH (eds), The Journals of Sylvia Plath, New York, Anchor Books, 1998,

p. 33.

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Hughes. Nel 1971 The Bell Jar venne pubblicato con il nome di Plath e quattro anni dopo, la madre decise di pubblicare le lettere della figlia in Letters Home.

Nel 1982 la raccolta di tutte le sue poesie, The Collected Poems, vinse il premio Pulitzer: nell’appendice di questa raccolta Hughes inserì due indici per spiegare le modifiche apportate ad Ariel dopo la morte della poetessa.

Nello stesso anno, vennero pubblicati i diari di Plath che, subito dopo le poesie, costituiscono la sua opera più importante. Sylvia cominciò a tenere un diario quando era bambina e vi lavorò senza interruzione sino alla sua morte: questo può essere considerato una sorta di “deposito dell’inconscio” dal quale essa estraeva il materiale per le sue poesie. Nei diari non è solamente registrata tutta la sua vita, bensì essi contengono tutti i temi chiave della sua opera. L’interrelazione tra vita e corpus poetico è fondamentale per Plath, poiché le sue opere sono basate quasi esclusivamente su particolari biografici. È però fondamentale precisare che, a differenza degli altri poeti “confessionali”, l’autobiografia della poetessa assume spesso un habitus mitologico, come sostiene ad esempio Judith Kroll in Chapters in a Mythology. Alcune pagine dei diari corrispondenti agli ultimi giorni di vita della poetessa risultano perdute. Come viene affermato da Hughes nella prefazione dei Journals fu lui stesso ad eliminarle:

The journals exist in an assortment of notebooks and bunches of loose sheets. This selection contains perhaps a third of the whole bulk, which is now in The Neilson Library at Smith College. Two more notebooks survived for a while, maroon-backed ledgers like the 57-59

volume, and continued the record from late 59 to within three days of her death. The last of these contained entries for several months, and I destroyed it because I did not want her children to have to read it (in

those days I regarded forgetfulness as an essential part of survival). The other disappeared.34

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17 1.4 La ragazza che voleva essere Dio

La poesia di Plath viene vista tutt’oggi come un prodotto inestricabile dalla sua biografia e dalla sua vita emotiva: per questo motivo la scrittrice viene associata alla scuola

confessionale, praticata negli Stati Uniti negli anni Cinquanta-Sessanta, da autori come

Lowell, Anne Sexton, Roethke e Berryman.

Con il termine “confessionale” si intende la poesia tesa ad esprimere momenti estremi dell’esperienza individuale che, in precedenza, venivano considerati tabù, come ad esempio traumi, malattie mentali, suicidio e sessualità. Il termine “confessional” venne utilizzato per la prima volta nel 1959 da M. L. Rosenthal nella review dei Life Studies di Lowell, intitolata “Poetry as Confession”. Nella sua raccolta, Lowell metteva in mostra la sua lotta contro la malattia mentale ed i problemi del suo matrimonio. Rosenthal affermò che la poesia confessionale si differenzia dalla tradizionale poesia lirica “by way of its use of confidences that went beyond customary bounds of reticence or personal embarrassment”.35

Il mito della scrittrice suicida ha promosso una ricezione biograficamente orientata e riduzionistica della sua poetica, nonostante alcuni critici, tra i quali Alvarez e Kroll, si siano impegnati a distinguere fra il confessionalismo puro dei poeti eponimi del movimento e la poesia di Plath, la quale ricorre a dramatis personae, traducendo e proiettando le proprie ossessioni psichiche in immagini e rappresentazioni di valenza universale e perturbante.

Judith Kroll è uno dei pochi critici che si distanzia, appunto, dalla teoria confessionale applicata alla poetica plathiana: nell’introduzione del suo Chapters in a Mythology, Kroll dichiara di essere interessata solamente al significato della poesia della scrittrice poiché “as literature, her poems would mean what they do even if she had not attempted

35 M.L.ROSENTHAL, Our Life in Poetry: Selected Essays and Reviews, New York, Persea Books,

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suicide.”36 Secondo Kroll, Sylvia Plath può essere considerata solo in minima parte una

confessional poet poiché, a differenza di Lowell e Anne Sexton, ella subordina

l’autobiografia ed i dettagli triviali della vita quotidiana a favore di un sistema mitico e sostanzialmente impersonale. Ella, quindi, non si concentra sulle immagini che ricondurrebbero la poetica plathiana a mere illustrazioni del suo malessere mentale bensì investiga il significato più profondo delle sue opere.

Kroll afferma che il sistema mitico plathiano si basa fondamentalmente su tre tematiche: una presenza maschile dominante (divina o malvagia) nel ruolo di padre, amante o marito; il duplice aspetto della sua personalità scissa tra un true self ed un false

self ed infine la lotta per annientare quest’ultimo (la morte in vita) e portare alla luce il true self.37 Il true self (chiamato anche good self) rappresenta la rinascita, conseguibile solamente dopo la morte, l’uccisione del self demoniaco. Nelle ultime poesie della scrittrice, il primo è associato alla creatività artistica ed all’autonomia che una donna può acquisire solo se non è dominata dalla figura maschile.

Ella cerca di liberarsi dalle oppressioni sociali e psicologiche che cercano di inquadrarla all’interno degli stereotipi di stampo maschilista. In particolar modo nelle ultime opere, afferma Kroll, è visibile la volontà dall’artista-donna di esprimere la sua voce più autentica e di liberarsi dall’oppressione maschile grazie all’energia creativa scaturita della scrittura.

Sylvia Plath ha sempre ribadito l’importanza della scrittura nella sua esistenza, come si può vedere, ad esempio, in un’intervista che la poetessa rilasciò per la BBC (1962) a Peter Orr: “I dont’think I could live without it. It is like water or bread, or something absolutely

36 J.KROLL,Chapters in a Mythology: The Poetry of Sylvia Plath, New York, Harper & Row, 1977, p.

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essential to me. I find myself absolutely fulfilled when I have written a poem, when I’m writing one”. 38

Sin da giovanissima, ella ha l’ambizione di vedere i suoi lavori pubblicati, come si può evincere da alcune pagine dei Journals e da alcune lettere indirizzate alla madre. Da queste ultime si comprende come la giovane Plath provi spesso un forte senso di inadeguatezza nei confronti di vari maestri: “And when I read, God, when I read the taut, spare, lucid prose of Luis Untermeyer, and the distilled intensities of poet after poet, I feel stifled, weak, pallid, mealymouthed and utterly absurd.”39 I poeti che la influenzano in misura maggiore durante gli anni del college sono Dylan Thomas, Yeats e Auden.

Ella riuscì ad incontrare quest’ultimo nel campus dello Smith College, grazie all’aiuto della sua insegnate Elizabeth Drew.

La produzione della Plath relativa agli anni del college è caratterizzata da un preciso modello formale volto ad imitare i grandi maestri: Hughes raccontò che, quando la conobbe, Sylvia non componeva in modo spontaneo, bensì molto lentamente e diligentemente, consultando per ogni parola il dizionario dei sinonimi. Nella poesia “Caryatidis”40 di Birthday Letters, Hughes definirà i versi plathiani di questo periodo come rigidi, goffi: “It seemed thin and brittle, the lines cold. Like the theorem of a trap, a deadfall-set.” (5-6)

Ad un tratto, nel 1960, Sylvia cambia il modo di scrivere le sue poesie, inaugurando una nuova fase della sua carriera. A partire da “Poem for a Birthday”,41 ella comincia a creare quel bagaglio di immagini che saranno la peculiarità delle sue poesie. I componimenti che appartengono a questa fase nascono da dettagli attinti dalla vita quotidiana, come si può notare nella pagina di diario datata 25 luglio 1957: “[…] Write about the cow, Mrs.

38 Interview with Peter Orr, www.english.illinois.edu.

39 T.HUGHES-F.MCCULLOUGH (eds), The Journals of Sylvia Plath, cit., p. 32. 40 T.HUGHES,“Caryatidis”, in Birthday Letters (1998), Collected Poems, cit., p. 1045. 41 S.PLATH, “Poem for a Birthday”, in Tutte le Poesie, cit., p. 372.

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Spaulding’s heavy eyelids, the smell of vanilla flavoring in a brown bottle.”42 L’evoluzione della poetica plathiana non si evince solamente nei contenuti ma anche nella musicalità che acquisiscono le sue opere più mature: essa è affidata alla ripetizione costante di suoni e sillabe ed a una ritmicità simile a quella del battito del cuore. Secondo Plath, una poesia poteva essere considerata efficace solamente se poteva essere letta ad alta voce; senza questa qualità essa sarebbe risultata noiosa. Per questo motivo, Sylvia attribuì notevole importanza alla lettura delle sue ultime poesie in radio.

Un altro tema ricorrente nella Plath è la costante ricerca di un’identità artistica compatibile con la sua condizione di donna. Al pari di altre scrittrici, infatti, ella è scissa tra il desiderio di essere una scrittrice e quello di vivere le esperienze di donna “normale”, cioè il matrimonio e la maternità.

A questo proposito, nel secondo capitolo della nostra ricerca vedremo come in alcune poesie della scrittrice sia riscontrabile quella che da S. M. Gilbert e S. Gubar viene chiamata “anxiety of authorship”, concetto trattato nel celebre saggio intitolato The

Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the Nineteenth-Century Literary Imagination43 e corrispondente femminile di ciò che Harold Bloom definiva “anxiety of influence”. Secondo Gilbert e Gubar, le autrici sperimenterebbero questo tipo di “anxiety” ancora più opprimente rispetto a quella provata dalla loro controparte poiché il ruolo di scrittrice, considerato da secoli come prettamente maschile, verrebbe socialmente stigmatizzato come sintomo di pazzia e poca femminilità. Inoltre, le autrici dovrebbero trascendere dalle etichette che gli uomini hanno affibbiato loro: se non vogliono essere soffocate dall’arte maschile devono liberarsi delle categorie di “angel in the house” e “madwoman in the attic”.

42T.HUGHES-F.MCCULLOUGH (eds), The Journals of Sylvia Plath, cit., p. 170.

43 S.M.GILBERT-S.GUBAR,The Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the

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Le scrittrici esaminate da Gilbert e Gubar non si emancipano da questi concetti bensì adottano, nelle loro opere, una doppia identità, identificando la femminilità con la passività degli “angels in the house” e l’impulso artistico con la mostruosità delle “madwomen”. La stessa Plath è scissa tra due identità diverse: nel suo caso però la passività femminile e l’impulso creativo vengono rispettivamente sostituite dalle figure della “earth mother” e di “Lady Lazarus”.

A questo proposito, Bundtzen mostra come all’interno dell’opus plathiano siano riscontrabili due diverse fasi riguardanti l’immagine che la scrittrice ha di sé. Nella prima, Plath sembra abbracciare una versione della femminilità passiva e subordinata all’uomo, come si può notare in alcune poesie e in alcuni passi di Letters Home: “I can appreciate the legend of Eve coming from Adam’s rib as I never did before. That’s where I belong. […] Everything I do with and for Ted has a celestial radiance, be it only ironing and cooking.”44 Questo si traduce nella volontà della scrittrice di mettere la carriera del marito al primo posto, a discapito della sua: “I find my first concern is that Ted has peace and quiet. I am happy then and don’t mind that my own taking up of writing comes a few weeks later”.45

La seconda fase inizia nell’agosto 1962. Quando Hughes abbandona Plath, il tono della scrittrice cambia radicalmente: “I am a writer…I am a genius of a writer; I have it in me. I am writing the best poems of my life; they will make my name”.46 Le lettere di questo periodo sono caratterizzate dall’amarezza della scrittrice per il tempo buttato a fare la moglie devota: ora che Ted l’ha abbandonata, ella è convinta che il suo genio creativo

44 S.PLATH,Letters Home: Correspondence 1950-1963, edited by A. Schober Plath, London, Harper

& Row, 1977, p. 276.

45 Ibidem, p. 381. 46 Ibidem, p. 472.

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possa realmente venire alla luce: “Now I’ve got rid of Ted, to whom I’ve dedicated such time and energy and for such reward,I feel my life and career can really begin”.47

In questa fase (ultimi quattro mesi di vita) la Plath scrive le sue poesie più belle: ella è Lady Lazarus, una donna rinata, libera dall’oppressione maschile e dalla precedente immagine passiva di sé. Come vedremo più approfonditamente nel corso del secondo capitolo, Lady Lazarus è la “monster woman”, colei che celebra la sua vendetta nei confronti dell’uomo: ella rappresenta l’artista-donna che lotta ed ottiene l’autonomia dalla controparte maschile, rivendicando il proprio talento creativo.

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23 CAPITOLO II

The dew that flies suicidal

Come affermato in precedenza, Plath può essere considerata solamente in minima parte una confessional poet poiché la sua poetica possiede soprattutto una dimensione sostanzialmente impersonale e mitica. In Chapters in a Mythology, Judith Kroll afferma che per comprendere a pieno il significato delle poesie della Plath, le immagini tipiche della sua poesia non dovrebbero essere considerate mere illustrazioni di un malessere interiore, bensì riconosciute come emblemi appartenenti ad un panorama più ampio: quello mitologico. Data questa premessa, le immagini plathiane di sofferenza, morte e decadimento risultano connesse non ad un disturbo psichico patologico della poetessa ma ad un significato decisamente più profondo riguardante, come vedremo più avanti nel corso di questa ricerca, il tema della rinascita e della trascendenza. Le poesie giovanili della scrittrice contengono paesaggi, immagini e simboli che sottendono alla visione mitica che verrà completamente alla luce solamente nelle sue poesie mature. A questo proposito, Kroll individua nella poesia “Electra on Azalea Path” (1957) alcuni motivi che caratterizzeranno il panorama mitico delle poesie plathiane più tarde:

The day you died I went into the dirt Into the lightless hibernaculum

Where bees, striped black and gold, sleep out the blizzard

Like hieratic stones, and the ground is hard. It was good for twenty years, that wintering -- As if you never existed, as if I came

God-fathered into the world from my mother's belly:

Her wide bed wore the stain of divinity. I had nothing to do with guilt or anything When I wormed back under my mother's heart.48

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La protagonista delle poesie più mature è un’eroina esiliata dal Paradiso a causa della morte del padre: egli è una figura autoritaria, una sorta di Dio (“God-fathered”). La sua morte segna, per la protagonista, il punto di non ritorno dopo il quale nulla è più lo stesso: “The day you died I went into the dirt” (1). La scomparsa del genitore generò nella Plath (scrittrice e donna) un profondo senso di incompletezza e di percezione distorta che ella ebbe di sé: la vita senza la presenza del padre assume il sapore dell’abbandono e della paralisi. Allo stesso tempo, i momenti passati con lui, sospesi e cristallizzati nel periodo dell’infanzia, riempirono i giorni adulti della scrittrice di desiderio costantemente frustrato. Tutto ciò è alla base del caratteristico senso di stasi e divisione dell’io che pervade la sua poetica più tarda. In modo particolare, quest’ultima è stata definita, all’interno della visione mitica della stessa scrittrice, come la scissione tra un true self ed un false self. Il true self è rappresentato dalla bambina che era prima che gli eventi precipitassero: questa parte di sé giace sepolta insieme al padre. Il self che continua a vivere dopo il lutto è incompleto e falso.

Il conflitto tra true self e false self, inizialmente legato al rapporto con il padre, viene poi sviluppato con tematiche più ampie: il primo (positivo) verrà associato al concetto di creatività artistica e a quello di autonomia. Quando il “vero sé” emergerà completamente, l’eroina non verrà più definita solamente in relazione ad un uomo, dal momento che ella stessa considererà l’attaccamento all’essere maschile come responsabile dell’origine del false self (negativo). I ruoli di madre e di moglie, se definiti nell’ottica puramente maschile, rendono la donna passiva e quindi possono essere considerati come espressione di un sé non autentico.49 Al contrario in “Lady Lazarus” (1962), la leonessa e l’ape regina sono figure libere dall’oppressione maschile

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e rappresentano il trionfo sugli aspetti negativi che caratterizzano i ruoli femminili. Allo stesso tempo però, la maternità viene spesso considerata come qualcosa di paragonabile all’impulso creativo e si riveste di connotazioni mitiche se non “supervisionata” da una presenza maschile, come avviene, ad esempio, in “For a Fatherless Son” (1962), poesia che si focalizza sull’isolamento di una madre e del suo bambino.

Nella visione mitica plathiana, il sé autentico viene spesso descritto durante il processo di “risveglio” da una condizione di torpore e sottomissione. Esso convive con il sé negativo, come si può vedere nella poesia “Purdah” (1962), dove una leonessa si nasconde sotto la maschera di sposa passiva. La coesistenza di true self e false self e la conseguente sensazione di essere dapprima in trappola e poi libera e potente, rappresenta uno state of being intollerabile per la protagonista delle poesie più mature. Con questa premessa, Kroll afferma che tutte le immagini di suicidio e decadimento, all’interno della poetica plathiana possono essere considerate espressioni di un desiderio di rinascita, attualizzabile solamente attraverso la morte. Secondo Plath, un’esistenza che trascorre sotto l’insegna del false self non è degna di essere vissuta poiché trattasi, in realtà, di death-in-life: questa condizione intollerabile può risolversi esclusivamente con la morte. Le poesie più tarde della scrittrice rappresentano i tentativi che ella attua per liberare il true self dall’oppressione della morte-in-vita, con il fine di giungere ad un’esistenza autentica.

Il sistema mitico plathiano si basa fondamentalmente su tre tematiche: la prima riguarda una presenza maschile dominante nel ruolo di padre, amante o sposo. Questa figura può assumere sembianze divine (“bag full of God”) oppure demoniache (“Nazi”, “devil”, “vampire”). La protagonista, rifiutata e/o abbandonata dal “Dio-uomo”, tenta di trasfigurarlo in un essere malvagio per poter esorcizzare e rigettare il potere che egli esercita su di lei. La seconda tematica riguarda il conflitto tra il true self e il false self,

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derivante dal rapporto della protagonista con la presenza maschile: il sé demoniaco deve essere “ucciso” per permettere la rinascita del sé autentico. L’ultima fase del mito tratta il motivo della death-in-life (causata dal false self) e della lotta per annientare quest’ultima a favore di una life-in death (rinascita del true self), evocata nelle poesie da immagini di purificazione e trascendenza.50

I motivi cardine della visione mitica plathiana corrispondono a quelli utilizzati universalmente nella mitologia e nelle religioni e sono espressione di strutture mentali che costituiscono la psiche umana: per questo motivo, secondo Kroll, essi possono essere considerati archetipi. La poetessa era infatti al corrente della simbologia psicoanalitica e mitica grazie alla psicoterapia da lei intrapresa e allo studio delle opere di Jung, Frazer, Graves, Freud e Dostoevskij. Le numerose somiglianze tra i simboli archetipici ed i maggiori motivi della sua poetica aiutano a comprendere il successo e la potenza espressiva scaturita dalle sue ultime poesie.

2.1 La morte-in-vita: “If I could bleed, or sleep!”

“Poppies in October” (1962) è una delle poesie di Plath che meglio esprime lo state of

being della morte-in-vita:

Even the sun-clouds this morning cannot manage such skirts.

Nor the woman in the ambulance

Whose red heart blooms through her coat so astoundingly -

A gift, a love gift Utterly unasked for By a sky

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27 Palely and flamily

Igniting its carbon monoxides , by eyes Dulled to a halt under bowlers .

O my God, what am I

That these late mouths should cry open In a forest of frost, in a dawn of cornflowers.51

Il colore rosso dei papaveri domina la scena: esso è associato simbolicamente al sangue, alla violenza e alla vitalità. Nella poetica plathiana i fiori rossi (o altri oggetti del medesimo colore) sono spesso accostati ad un background pallido o incolore per sottolineare il contrasto tra l’energia del true self e la paralisi caratteristica del false self. In questo caso, i papaveri sono l’emblema dello stato della protagonista, caratterizzato dal conflitto irrisolto tra il sé autentico e quello negativo. Da questa inconciliabilità ha origine la death-in-life. Il vitalismo dei fiori sembra “rimproverare” gli uomini intontiti e dagli occhi “dulled to a halt under bowlers” (9). Allo stesso tempo, essi auspicano il “risveglio” della protagonista e del true self che dimora intorpidito nel suo inconscio. Allo stesso modo, anche in altre poesie, tra cui “Cut”, “Ariel” e “Stings” è presente il colore rosso (redness) che richiama la volontà di liberare il “vero sé” della protagonista.

In “Poppies in July” (1962) il tema della morte-in-vita viene presentato in modo più esplicito rispetto a “Poppies in October”:

Little poppies, little hell flames, Do you do no harm?

You flicker. I cannot touch you.

I put my hands among the flames. Nothing burns And it exhausts me to watch you

Flickering like that, wrinkly and clear red, like the skin of a mouth.

A mouth just bloodied. Little bloody skirts!

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28 There are fumes I cannot touch.

Where are your opiates, your nauseous capsules? If I could bleed, or sleep!

If my mouth could marry a hurt like that! Or your liquors seep to me, in this glass capsule, Dulling and stilling.

But colorless. Colorless.52

In questo caso, i papaveri “suggeriscono” alla protagonista due alternative di morte, riferendosi rispettivamente alla visione dicotomica di death vs. rebirth: “If I could bleed, or sleep!” (11). La prima rappresenta l’impulso verso una morte fisica violenta e sanguinosa, identificabile dai papaveri descritti come “hell flames” e “bloody skirts”. Il rosso dei fiori è il catalizzatore che permette al true self di venire alla luce: grazie ad esso, l’essere può evadere dalla condizione di morte-in-vita. La seconda alternativa, anche essa incarnata dai papaveri, rappresenta una morte diametralmente opposta alla prima. Quest’ultima viene garantita dall’oppio: una sorta di morte spirituale ed “incolore” (“Colorless”), che non necessariamente prevede una lesione fisica. In questo caso, l’oppio dei papaveri penetrerebbe nella “glass capsule” nella quale vive la protagonista, cancellando la consapevolezza del suo dolore. I fiori rossi rappresentano solamente uno dei diversi simboli visivi che Plath utilizza per mettere in risalto il contrasto che intercorre tra la vitalità del true self e la passività del false self.

Il motivo della death-in-life è riscontrabile anche nella poesia “Little Fugue” (1962) incentrata sull’evento traumatico della morte del padre, la cui scomparsa non venne mai pienamente metabolizzata dalla protagonista. La vita dell’io lirico è una tortura paragonabile alle ripetitive involuzioni di una fuga musicale, una serie di eventi dominati dallo spettro persecutorio del padre:

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29 Great silence of another order. I was seven, I knew nothing. The world occurred.

You had one leg, and a Prussian mind. Now similar clouds

Are spreading their vacuous sheets. Do you say nothing?

I am lame in the memory. I remember a blue eye, A briefcase of tangerines. This was a man, then!

Death opened, like a black tree, blackly. I survive the while,

Arranging my morning.

These are my fingers, this my baby. The clouds are a marriage of dress, of that pallor.53

“Yew tree”, “baby” e “clouds” sono simboli della spettrale presenza che la perseguita, la morte del padre viene descritta come un drammatico sposalizio dal quale ha avuto origine la condizione alienante di morte-in-vita. Il termine fugue inoltre si riferisce, dal punto di vista psicologico, ad uno stato di amnesia che colpisce il soggetto a seguito di un trauma. La poesia suggerisce come la protagonista, a differenza delle persone colpite da amnesia, non riacquisterà mai completamente uno stato normale di coscienza. La sua “fuga” è causata da una ferita del passato che non si è mai rimarginata. La scomparsa del dead-god ha lasciato in lei un vuoto incolmabile. Il true self rimane sepolto a seguito del lutto: sebbene conduca la sua vita in modo ordinario, ella rimane “lame in the memory”. Alcuni dettagli della poesia rimandano alla mitologia: il colore nero è associato alla divinazione della dea Hecate, al “yew tree” a lei sacro, e al padre profetico, la cui voce è “black and leafy”. Il bianco assume connotazioni sinistre e mortifere: le “white clouds” vacue ed inconsistenti, rappresentano l’insostenibile

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condizione della sua vita. Il pallore dello sfondo è in contrasto con la nera determinatezza del tasso. Nella mitologia celtica, quest’ultimo veniva associato alla morte (non a caso si trova in numerosi cimiteri europei) e si credeva che i defunti potessero comunicare attraverso di esso: le radici, fungendo da canale medianico avrebbero loro permesso di inviare messaggi sulla terra. Il “yew tree” della poesia svolge la medesima funzione, ossia quella di mettere in contatto la protagonista con il padre: “The yew’s black fingers wag;/ Cold clouds go over/ So the deaf and dumb/ Signal the blind, and are ignored”. (1-4) (Lo stesso potere medianico viene esercitato dal “black telephone” nella poesia “Daddy”, all’interno della quale però, a differenza di “Little Fugue”, la comunicazione viene interrotta: “off at the root”, “the voices can’t worm through.”) Negli ultimi versi, le nuvole che “soffocano” l’esistenza della protagonista sono paragonate al vestito nunziale (“marriage dress”) che allude, con tutta probabilità, al suo matrimonio. Quest’ultima immagine esprime l’idea di morte-in-vita ed è un’eco del lontano “matrimonio” con il padre, al quale è sopravvissuta ma al quale è ancora tragicamente legata: “I survive the while/ Arranging my morning.” (49-50). Qui il gioco di parole tra “morning” e “mourning” è evidente. Ogni minuto dell’esistenza della protagonista è occupato dal lutto (“arranging my mourning”) e il pianto è l’espressione quotidiana del suo dolore per la scomparsa del padre.

2.2 L’esorcismo: “You bastard, I’m through.”

Le poesie “Lady Lazarus” e “Daddy” (1962) sono quelle che meglio riassumono la visione mitica plathiana. In quest’ultima si intrecciano i motivi del dead god e del soggetto che riesce ad abbandonare l’osservanza del lutto esorcizzando la spettrale figura paterna, da cui scaturiva il suo opprimente false self.54

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L’incipit è composto da una serie di accuse contro il padre che hanno la funzione di giustificare la sua condanna a morte. Il ritratto definitivo di Daddy è quello di un “Nazi”, “Fascist”, “brute”, “devil”, “vampire”. Nel tentativo di liberarsi dalla paralisi e di rinascere, la protagonista ricostruisce il dramma di vittima/carceriere già vissuto con il padre, sposando un altro “Nazi” che, dopo averla abbandonata, viene simbolicamente ucciso insieme al genitore. Rigettando il lutto e la sofferenza, la protagonista “risorge” nelle vesti di eroina. La performance mitica in “Daddy” termina in un rituale destinato a cancellare il precedente “sacred marriage”, colpevole di avere “soffocato” la sua vita:

You do not do, you do not do Any more, black shoe

In which I have lived like a foot For thirty years, poor and white, Barely daring to breathe or Achoo.55

Nel preambolo dell’esorcismo, l’io passa in rassegna le diverse immagini del padre, dapprima raffigurato come una “bag full of God” e una “Ghastly statue” poi, presentandone una versione nuova: “panzer-man”, “swastika”, “brute”, “devil”, “bastard”. La figura di daddy deve apparire sotto questa nuova luce per potere essere esorcizzata, passando da creatura divina a demoniaca. La protagonista attribuì al padre questa natura celestiale a causa del suo autoritarismo e della sua inaccessibilità, qualità che vennero ulteriormente potenziate dopo la sua morte e che, più tardi, furono attribuite al marito nonché “riflesso” del genitore: “a model of you”. Per l’io amare un uomo morto (anche metaforicamente) è una tortura. Per questo motivo, daddy merita di essere annientato: il telefono “off at the root” descrive la finalità dell’esorcismo. Questo rituale ha anche lo scopo di eliminare “l’altro Dio” per uscire dal circolo vizioso di

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abbandono e sofferenza in cui è caduta sposando, appunto, il corrispettivo del genitore. L’identificazione del marito con il padre Otto è ravvisabile soprattutto in Letters Home. Nel 1956, poco dopo avere sposato Ted Hughes, Plath scrive alla madre: “He is better than any teacher, even fills somehow that huge, sad hole I felt in having no father.”56 Nella poesia quindi, la morte del primo implica anche la morte del secondo: il palo conficcato del cuore del padre uccide, allo stesso tempo il “vampire who said he was you” (82). Conseguentemente, la fine del suo matrimonio permette al padre di “lie back now”. Frazer definisce questo meccanismo come “sympathetic magic”; entro di esso “things act on each other at a distance through a secret sympathy”57. Questo implica che, per “colpire” un soggetto, bisogna “attaccare” il suo corrispettivo: è chiaro ora per quale motivo l’io della poesia affermi “If I’ve killed one man, I’ve killed two” (81). La figura paterna può essere considerata una sorta di capro espiatorio: nella mitologia plathiana, l’eroina non è posseduta da questa figura demoniaca bensì dal false self che è alla sua mercè. Quando l’oppressore viene reso ripugnante, perde tutto il suo potere malefico e viene detronizzato; solo allora il true self può venire alla luce: “Daddy, daddy, you bastard, I’m through” (90). Nella poetica plathiana, i rituali di esorcismo comportano l’espulsione del false self, implicando, conseguentemente, la rinascita dell’eroina.

La poesia “Medusa”, scritta da Sylvia a pochi giorni di distanza da “Daddy” (ottobre 1962), tratta, anch’essa, dell’esorcismo di un genitore oppressivo, in questo caso la madre. Al pari della poesia precedente, in “Medusa” viene costruito un ritratto malvagio della figura materna al fine di scacciarla: ella rappresenta il capro espiatorio, l’incarnazione del false self che merita di essere annientato per favorire la rebirth della

56 S.PLATH,Letters Home: Correspondence 1950-1963, cit., p. 330.

57J.G.FRAZER, The Golden Bough: A Study in Magic and Religion, Oxford, Oxford University Press,

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protagonista. Per tutta la poesia, l’io ripete il dispiacere causatole da un rapporto così viscerale con la madre: l’ombelico è un “Atlantic cable” che le tiene unite da una parte all’altra dell’oceano. Il cavo è in uno stato di “miraculous repair”, nonostante i numerosi tentativi della figlia di danneggiarlo e liberarsi dalla “morsa” della madre. Quest’ultima la perseguita: “In any case, you are always there,/ tremulous breath at the end of my line”.58 Per Plath, la rinascita comporta il bisogno di “eliminare” il passato, incarnato dai genitori, affermando la sua indipendenza dalla figura paterna e da quella materna. In quest’ultimo caso, la necessità di esorcizzare la figura materna riflette non una mancanza di gratitudine, bensì l’opposto: l’eroina vuole liberarsi dal fardello della riconoscenza, dal debito che ha nei confronti della madre che ella non potrà mai ripagare abbastanza per i suoi sacrifici. Questo si evince, in particolar modo, da una lettera inviata al fratello Warren, nel maggio 1953: “You know, as I do, and it is a frightening thing, that mother would actually kill herself for us […] After extracting her life blood and care for 20 years, we should start bringing in big dividends of joy for her…”59. Nella poesia, la madre simboleggia il senso di stasi e la condizione di morte-in-vita provato dell’eroina; non a caso, ella è paragonata alla gorgone Medusa che, secondo la mitologia greca, aveva il potere di paralizzare chiunque incrociasse il suo sguardo. Allo stesso tempo, ella è paragonabile all’omonimo animale marino, il cui veleno può immobilizzare. (Il termine “Medusa” è persino sinonimo di “Aurelia”, il nome della madre di Sylvia.) Inoltre, la protagonista sostiene di abitare in una sorta di campana di vetro (“your body/ Bottle in which I live”) che allude, appunto, alla forma fisica della medusa. Le numerose allusioni religiose suggeriscono che la madre sia di fede romana-cattolica:

Who do you think you are?

58S.PLATH, “Medusa”, in Tutte le Poesie, cit., p. 654, vv. 16-17. 59 S.PLATH,Letters Home: Correspondence 1950-1963, cit., p. 125.

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