Testo e traduzione.
47 tu hominum: antitesi Cfr v.44 (te…mortales), v.48 (tu nobis), v
(tu…homini), v.52 (tu…nostro).
gratos…medicos…succos: l’anonimo qui utilizza un termine molto generico
(succos), che si riferisce sia a ciò che si può bere (“bevanda”, “succo”) sia qualcosa da utilizzare per scopi medicinali (“oli essenziali”). Il sostantivo è accompagnato da due aggettivi che hanno entrambi una valenza positiva: indicano il carattere dolce ed insieme curativo dei succhi. Cfr. TIB. 1, 6, 13
tunc succos herbasque dedi, quis livor abiret; OV. ars 2, 335-336 nec amari pocula suci / porrige e 2, 491 illa Machaonios superant medicamina sucos;
Pont. 4, 3, 53 I, bibe dixissem purgantes pectora suco.
medicosque saluti: questa è una ripresa fonologica di vari costrutti
epicheggianti, presenti in LUCAN. 7, 514 tunc et Ityraei Medique Arabesque
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armaque seminecesque viri currusque soluti. Successivamente, si segnala il
verso di PRISC. periheg. 815 per longum Pyramus spatium Pinarusque voluti, dove la vicinanza fonica è riscontrabile in tutto il secondo emistichio.
48 arboribus: l’albero è una figura prodigiosamente ricca che ricorre spesso
nella tradizione classica, soprattutto nelle descrizioni del locus amoenus e dell’aurea aetas: cfr. OV. met. 1, 106 et, quae deciderant patula Iovis arbore,
glandes; HOR. epod. 16, 46 suamque pulla ficus ornat arborem; VERG. ecl. 4,
2 non omnis arbusta iuvant humilesque myricae (in Virgilio, la distinzione tra
arbor e arbustum si gioca sul piano sensoriale: se il primo colpisce
frequentemente la vista attraverso gli aggettivi con cui si accompagna - ingens in georg. 2, 80; alta in Aen. 7, 108; ombrosa in georg. 2, 66 - il secondo riguarda principalmente il piano uditivo - haec arbusta vocabant in ecl. 1, 139; resonant
arbusta in ecl. 2, 13. Per un ulteriore approfondimeto, si veda l’EV s.v. albero, arbusto, pp.81-83). Nelle Bucoliche, l’albero e l’arbusto sono parte essenziale
di un paesaggio in cui il protagonista è il pastore, e compaiono tendenzialmente nella parte incipitaria di ogni ecloga, per fornire protezione con la loro ombra all’ozio pastorale (cfr. ecl. 1, 1; 2, 3; 3, 12; 4, 2; 5, 3; 7, 1); nelle Georgiche, invece, l’albero appare come vero e proprio protagonista della narrazione, e non come un semplice elemento di contorno (cfr. georg. 2, 416; 3, 328). Infine, nell’Aeneis le arbores ritornano alla loro funzione paesaggistica, di derivazione epica: “mentre nelle Bucoliche la natura è pregna di suoni e colori e gli alberi vivono di una naturale vivacità, nell’Aeneis assurgono a una dignità antica, immobile, sacra” (G. Maggiulli, “albero”, in EV I, Roma 1984).
Fin dalle origini, l’uomo e l’albero intrattengono un legame profondo: saldamente piantato nel terreno ma proiettato al cielo, nelle Sacre Scritture l’albero è il pilastro della fede, ed è simbolo di colui che rispetta la terra e guarda a Dio, confidando nella sua protezione: cfr. Ier. 17, 7-8 benedictus vir,
qui confidit in Domino, et erit Dominus fiducia eius; et erit quasi lignum, quod transplantatur super aquas, quod ad humorem mittit radices suas et non timebit, cum venerit aestus; et erit folium eius viride, et in anno siccitatis non erit sollicitum nec aliquando desinet facere fructum.
L’albero, offrendo protezione con la sua ombra, rappresenta dunque una sicurezza sul piano spirituale: tra le sacre querce di Mamre Dio apparve per la prima volta ad Abramo, annunciandogli la futura nascita di suo figlio (gen. 18, 1-2); tra gli olivi Gesù trascorre in preghiera i momenti precedenti al suo arresto (Marc. 14, 32-36); su un sicomoro Zaccheo si arrampica per poter vedere Gesù, e la sua ricerca è ricompensata quando il Signore gli comanda di scendere dall’albero per poterlo ricevere in casa (Luc. 19, 2-6).
Nel giardino biblico è presente una moltitudine di alberi, tra cui è importante segnalarne alcuni di grande rilievo: come ricorda Ronchetti 1922, pp.35-36, la
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Genesi parla di due alberi “di prodigiose qualità e misterioso significato,
piantati nel mezzo del Paradiso cristiano: l’Albero della vita e l’Albero della scienza del bene e del male”. Il primo, circondato dal fiume dalle quattro braccia (gen. 2, 9-10), è il simbolo dell’immortalità e i suoi frutti danno la possibilità all’uomo di conservare la vita a patto del mantenimento della propria innocenza, e serve dunque “a ripristinare l’equilibrio dei vari elementi dell’umano organismo” (Ronchetti 1922, p.36); esso inoltre preannuncia la salvezza e la saggezza divina (Ezech. 47, 12; prov. 3, 18; apoc. 22, 14).
L’albero della scienza del bene e del male invece rappresenta la proibizione, perché designa una conoscenza che è privilegio e prerogativa di Dio, che l’uomo usurpa con il peccato (prima infatti rinnega la sua condizione di creatura, poi contraddice la sovranità e l’imposizione di Dio attraverso il frutto peccaminoso): con la conoscenza acquisita attraverso il peccato originale, emerge per il genere umano la polarità tra bene e male, la facoltà di discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato per poter agire di conseguenza. L’identificazione dell’albero è di difficile interpretazione: “i Bizantini costumavano rappresentare Adamo ed Eva vicino ad un albero simile al fico e coperto di foglie; gli Italiani ora adottarono il fico, come fecero i greci, ora l’arancio, e in certi casi fu rappresentato dal pomo” (Ronchetti 1922, p.36). L’associazione al melo nasce probabilmente sia dalla lettura allegorica del testo biblico (il termine latino malum si riferisce infatti all’albero del melo, oltre che al male), sia alla storia che il simbolo vive: esso infatti tanto nella cultura classica quanto in quella cristiana rappresenta un elemento che può conferire immortalità e provocare la caduta (esemplari sono i racconti del pomo della discordia, del giardino delle Esperidi, della caduta di Adamo ed Eva). Secondo Lurker 1990, p.8 dal punto di vista simbolico questi due alberi possono essere considerati come un unico albero, dal momento che la conoscenza non può esistere senza la vita, e viceversa.
È opportuno citare anche l’albero di Iesse (Is. 11, 1-3), che descrive la catena genealogica proprio a partire da Iesse, padre di Davide e antenato di tutti i re di Giuda e del Messia (Matth. 1, 6-16). Come ricorda Salzano 2001, p.136, nella mistica cristiana il simbolo racchiude varie rappresentazioni, dalla Vergine Maria a Cristo, dalla Chiesa Universale ai popoli cristiani, dal Paradiso alla Croce (indica cioè la morte da cui può sorgere una nuova stirpe).
Infine la croce, l’albero della morte che si trasforma in albero della vita. Esso è simbolo della purificazione, della redenzione e dell’espiazione dei propri peccati: sulla croce, infatti, Dio non solo libera suo Figlio, ma anche concede salvezza a tutta l’umanità (act. 5, 30 Deus patrum nostrorum suscitavit Iesum,
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In Giobbe, come ricorda Lurker 1990, p.9, l’albero è simbolo di resurrezione: “anche quando viene tagliato e «al suolo muore il suo tronco», egli può ancora buttare e germogliare” (14, 7-9); nel Nuovo Testamento invece gli alberi fecondi o sterili sono un riferimento agli uomini giusti o corrotti, che insegnano le false dottrine. Cfr. Matth. 3, 10 iam enim securis ad radicem arborum posita
est; omnis ergo arbor, quae non facit fructum bonum, exciditur et in ignem mittitur; Iud 12 hi sunt in agapis vestris maculae, convivantes sine timore, semetipsos pascentes; nubes sine aqua, quae a ventis circumferuntur; arbores autumnales infructuosae bis mortuae, eradicatae. Mentre l’albero della scienza
del bene e del male compare solo nella Genesi, l’albero della vita continua a tornare in molti passi biblici, finché nell’Apocalisse “esso appare, in modo simbolico, come premio di vittoria dei beati”: in medio plateae eius et fluminis
ex utraque parte lignum vitae afferens fructus duodecim, per menses singulos reddens fructum suum; et folia ligni ad sanitatem gentium (22, 2).
tu nobis: cfr. OV. fast. 3, 255 dicite “tu nobis lucem, Lucina, dedisti”; MART.
8, 64, 12 tu nobis, Clyte, iam senex videris.
dulcia mella: l’ultilizzo del sostantivo mel al plurale ha valore intensivo, e
accentua l’idea della quantità: cfr. VERG. georg. 4, 101 dulcia mella premes,
nec tantum dulcia quantum e NEMES. ecl. 1, 76 insuetusque freto vivet leo, dulcia mella. Inoltre, l’accostamento dei due termini è frequente in tempi
posteriori alle Laudes Domini: oltre ai versi di papa Damaso (carm. 1, 3 e 63, 12 inveniet latices servant qui dulcia mella), in cui dulcia mella è posto nella medesima posizione, si hanno altre nove occorrenze, attestate soprattutto in Venanzio Fortunato (carm. 1, 15, 102 cuius ab eloquio dulcia mella fluunt; 4, 16, 6 qui dabat eloquio dulcia mella suo; 7, 12, 118 exsuperas labiis dulcia
mella favis; 11, 12, 4 cuius ab ore pio dulcia mella fluunt).
Nelle descrizioni classiche dell’età dell’oro, il miele stilla dai tronchi della quercia (il primo a formulare l’espressione è Esiodo, Op. 322-324, donde è passata poi anche in VERG. ecl. 4, 30 et durae quercus sudabunt roscida mella e in OV. am. 3, 8, 40 pomaque et in quercu mella reperta cava) o del leccio (TIB. 1, 3 45 ipsae mella dabant quercus; OV. met. 1, 111-112 iam flumina
nectaris ibant / flavaque de viridi stillabant ilice mella; HOR. epod. 16, 47 mella cava manant ex illice); inoltre, spesso è associato all’immagine del latte,
prodotto dalle capre (VERG. ecl. 4, 21 ipsae lacte domum referent distenta
capellae; TIB. 1, 3, 45-46 ultroque ferebant / obvia securis ubera lactis oves;
OV. met, 1, 111 flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant; HOR. epod. 16, 49-50 illic iniussae ueniunt ad mulctra capellae / refertque tenta grex amicus
ubera).
Anche nella simbologia cristiana latte e miele sono spesso accostati, per esempio nella descrizione del miele dell’amore immortale (cant. 4, 11 favus
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distillans labia tua, sponsa; mel et lac sub lingua tua; 5, 1 comedi favum cum melle, bibi vinum cum lacte meo) e in quella della Terra Promessa, dove Dio
promette di liberare il suo popolo dalla miseria dell’Egitto e di condurlo in una terra dove scorrano latte e miele (exod. 3, 8 et sciens dolorem eius descendi, ut
liberem eum de manibus Aegyptiorum et educam de terra illa in terram bonam et spatiosam, in terram, quae fluit lacte et melle, ad loca Chananaei et Hetthaei et Amorraei et Pherezaei et Hevaei et Iebusaei; Ezech. 20, 6 in die illa levavi manum meam pro eis, ut educerem eos de terra Aegypti in terram, quam provideram eis fluentem lacte et melle, quae est egregia inter omnes terras; Ier.
11, 5 ut suscitem iuramentum, quod iuravi patribus vestris, daturum me eis
terram fluentem lacte et melle, sicut est dies haec; lev. 20, 24 vos possidebitis terram eorum, et ego dabo eam vobis in hereditatem, terram fluentem lacte et melle): l’allusione qui ricorrente è quella dei due cibi come simbolo delle
delizie celesti e della beatitudine futura dello spirito, dal momento che essi sono tra le pietanze più dolci, acquistabili senza fatica e concessi per liberalità e grazia di Dio. Proprio per la sua dolcezza, il miele porta felicità tra gli uomini (Is. 7, 14-15 ecce, virgo concipiet et pariet filium et vocabit nomen eius
Emmanuel; butyrum et mel comedet, ut ipse sciat reprobare malum et eligere bonum). Il miele è anche simbolo della vita stessa, come dimostra la vicenda di
Sansone e dell’uccisione del leone, dal cui cadavere esce uno sciame d’api e del miele (iud. 14, 8 et post aliquot dies revertens, ut acciperet eam, declinavit,
ut videret cadaver leonis; et ecce examen apum in corpore leonis erat ac favus mellis): il corpo del leone è di per sé stessa un’immagine di morte, da cui
proviene però nuova vita, simboleggiata appunto dal miele e dalle api. Si riteneva che queste ultime ospitassero in loro una scintilla divina, e che fossero emblema della dolcezza e della giustizia del Signore: come infatti ricorda Pont- Humbert 1997, p.148, “nella tradizione cristiana si narra la leggenda di Sant’Ambrogio che da lattante addormentato accolse nella bocca uno sciame di api che cercavano rifugio e che fecero del suo palato un favo vivente. Quando le api ripresero il volo il bambino si svegliò raggiante di santità. Laborioso come le api, di natura dolce e benevola, Sant’Ambrogio fu un servitore di Cristo, e divenne il protettore degli apicultori”.
49 tu…animantum: il contenuto di questo verso richiama alla mente i passi
biblici della creazione in gen. 1, 26 et ait Deus: “faciamus hominem ad
imaginem et similitudinem nostram; et praesint piscibus maris et volatilibus caeli et bestiis universaeque terrae omnique reptili, quod movetur in terra”; 1,
28 benedixitque illis Deus et ait illis Deus: “crescite et multiplicamini et replete
terram et subicite eam et dominamini piscibus maris et volatilibus caeli et universis animantibus, quae moventur super terram”; 9, 1-2 benedixitque Deus Noe et filiis eius et dixit ad eos: “crescite et multiplicamini et implete terram.
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Et terror vester ac tremor sit super cuncta animalia terrae et super omnes volucres caeli cum universis, quae moventur super terram; omnes pisces maris manui vestrae traditi sunt”.
tu servire iubes homini: l’autore probabilmente conosceva il verso di PROP.
1, 8, 5 tune audire potes vesani murmura ponti.
servire: l’immagine della Natura a servizio dell’uomo è presente in psalm. 8,
7-9 et constituisti eum super opera manuum tuarum. Omnia subiecisti sub
pedibus eius: oves et boves universas, insuper et pecora campi, volucres caeli et pisces maris, quaecumque perambulant semitas maris; Sap. 9, 2 et sapientia tua constituisti hominem, ut dominaretur creaturis, quae a te factae sunt; Sirach. 17, 4 posuit timorem illius super omnem carnem, ut dominaretur bestiarum et volatilium.
genus omne animantum: il paradigma è lucreziano (cfr. 1, 4), per cui
l’espressione è ripresa sia a livello contenutistico (anche nell’inno a Venere il contesto è quello della creazione, dove la dea viene celebrata per la sua capacità di rasserenare gli elementi naturali e di infondere in tutte le creature l’istinto alla vita), sia a livello metrico.
Cfr. anche MAR. VICTOR aleth. 3, 36 quos tremit et dominos sentit genus
omne animantum e AVIEN. orb. terr. 4 oppida nituntur, genus hoc procul omne animantum.