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Un’avanguardia giurisprudenziale: il caso Pupino

5. Lo statuto della vittima vulnerabile 1 La vittima e il processo

5.2 Un’avanguardia giurisprudenziale: il caso Pupino

Un contributo significativo al rafforzamento della tutela della vittima vulnerabile si ebbe grazie alla ormai celebre sentenza Pupino61 del 2005, con cui la Corte di Giustizia

ha valorizzato gli scarni riferimenti contenuti nella decisione quadro n. 220 del 2001, sancendo l’obbligo per i giudici degli Stati membri di partecipare all’attuazione

della decisione quadro attraverso lo strumento

dell’interpretazione conforme, fino a quel momento estraneo al cosiddetto “terzo pilastro” 62. È una sentenza

attraverso cui emergono con implacabile irruenza i limiti di una legislazione europea priva di efficacia diretta. Ma procediamo con ordine.

Prima di analizzare i passaggi del ragionamento seguito dalla Corte, occorre riassumere in breve i fatti in causa. La signora Maria Pupino, insegnante di scuola materna, era indagata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze in merito alla commissione dei reati di abuso dei mezzi di disciplina e lesioni aggravate. L’insegnante avrebbe inflitto l’uno e le altre ad alcuni dei propri alunni, tutti di età inferiore ai cinque anni all’epoca dei fatti. Nel corso del procedimento il pubblico ministero ha chiesto al giudice per le indagini preliminari l’acquisizione delle testimonianze delle persone offese tramite il meccanismo dell’incidente probatorio e secondo

61 Corte giust., 16 giungo 2005, causa C-105/03.

62 VOZZA D.,Tutela della vittima nel procedimento penale: il discrimen tra garanzie sostanziali e procedurali quale limite all’intervento della Corte di Giustizia?, Dir. pen. cont. rivista online del 13 giugno 2011.

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le modalità previste dall’articolo 398, comma 5-bis, del codice di procedura penale. Non ammettendo le norme di rito tale possibilità, il giudice si è domandato se esse dovessero essere interpretate alla luce della decisione quadro del 2001. Questa, infatti, impone agli Stati membri l’obbligo di provvedere, entro il termine (già allora scaduto) del 22 marzo 2002, ad adeguare i rispettivi ordinamenti ad alcuni principi di garanzia nei confronti della vittima nel procedimento penale, contenuti nella stessa decisione quadro. Tra questi, in particolare, il principio, enunciato dall’articolo 8, secondo cui «ove sia

necessario proteggere le vittime, in particolare le più vulnerabili, dalle conseguenze della loro deposizione in udienza pubblica, ciascuno Stato membro garantisce alla vittima la facoltà, in base ad una decisione del giudice, di rendere testimonianza in condizioni che consentano di conseguire tale obiettivo e che siano compatibili con i principi fondamentali del proprio ordinamento».

Il giudice a quo in altre parole, di fronte alla maggiore ampiezza delle condizioni previste dalla decisione quadro rispetto alle norme di rito interne, ha domandato alla Corte se (e a quali condizioni) le seconde dovessero essere lette alla luce delle prime.

La questione pregiudiziale schiudeva così le porte dei giudici di Lussemburgo ad una serie di interrogativi complessi e per la prima volta formulati. Essi in definitiva investono l’esistenza dell’obbligo di interpretazione conforme rispetto alle decisioni quadro.

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La Corte risponde in modo affermativo alla domanda contenuta nell’ordinanza di rinvio, argomentando sulla base dei passaggi che ora si esporranno. Essa, innanzitutto, si dichiara competente, in linea di principio, a pronunciarsi sulla questione pregiudiziale, vista la sussistenza dei presupposti richiesti dall’articolo 35 TUE e delle condizioni di ricevibilità della domanda. In merito alla questione principale, la soluzione affermativa prende le mosse dal presupposto che le decisioni quadro abbiano lo stesso carattere vincolante delle direttive. La Corte muove dalla formulazione dell’art. 34, par. 2, lett. b) TUE, “strettamente ispirata”, da quanto si legge nella sentenza, a quella dell’art. 249, comma 3, TCE. Il carattere vincolante delle direttive, dunque, si “trasmetterebbe” alle decisioni quadro, per le quali tale carattere è formulato «in

termini identici a quelli dell’articolo 249, terzo comma, TCE». Tale circostanza – aggiunge succintamente la Corte

– comporta, in capo alle autorità nazionali, ed in particolare ai giudici nazionali, un obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale.

Questa decisione ha, dunque, assottigliato, ancor prima della completa soppressione della struttura a pilastri prevista nel trattato di Lisbona, le differenze con la “prima colonna” del tempio europeo. Con particolare riferimento, poi, alla decisione quadro sulla tutela della vittima, la Corte è pervenuta a sostenere, in riferimento al caso posto alla sua attenzione, che ‹‹gli artt. 2, 3 e 8, n. 4 della

decisione quadro devono essere interpretati nel senso che il giudice nazionale deve avere la possibilità di autorizzare bambini in età infantile che […] sostengono di essere stati

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vittime di maltrattamenti a rendere la loro deposizione secondo modalità che permettono di garantire […] un livello di tutela adeguato […]›› (§ 61).

Dunque, si è espresso un giudizio negativo circa la capacità dell’incidente probatorio – così come allora regolato – di soddisfare appieno le richieste di garanzia e protezione da essa derivanti con riguardo alle fonti di prova particolarmente vulnerabili come i fanciulli.

Il punto debole della nostra normativa non sembrava tanto incentrarsi sulle modalità di ascolto della fonte (art. 398, comma 5-bis, c.p.p.), quanto sulla mancanza di elasticità in ordine alla scelta di ammettere o meno certi soggetti all’escussione tramite cautele idonee a preservarne la serenità, nonché di poter annoverare determinati reati tra i presupposti dell’incidente speciale. La miopia legislativa può spiegarsi solo pensando che difettava qualunque consapevolezza della vulnerabilità come categoria di genere: ciò che dovrebbe rappresentare una sorta di presupposto generale dell’incidente probatorio veniva, invece, percepito come ragione eccezionale di un numerus clausus di episodi.

Alla protezione “dal” processo non corrispondeva, in altre parole, adeguata protezione “nel” processo. Si era ancora ben lontani dalle indicazioni provenienti dalle fonti europee, le quali hanno compreso – come sopra ben chiarito – che, per arrivare a identificare in concreto come vulnerabili le vittime di reato, al di là di parziali richiami per tipologie, si rende opportuna una “valutazione individuale”: un individual assessment risultante da

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colloqui con la persona, che tenga anche conto delle preoccupazioni e dei timori che la vittima esprime in relazione al procedimento.

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Capitolo II

1. La violenza di genere