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Una famiglia che cambia: il divorzio in Italia.

segnato il XX° secolo.

3.2 Una famiglia che cambia: il divorzio in Italia.

Prima di addentrarsi nel vivo della ricostruzione della lunga e travagliata vicenda relativa all’istituto del divorzio, vale la pena fare alcune considerazioni sulla situazione in cui versa la popolazione, e in particolare la famiglia italiana, in quegli stessi anni che anticipano una delle pagine più importanti della storia dei diritti civili e della libertà di scelta del nostro paese.

Dagli anni ’50 fino agli anni ’70, grazie anche alla spinta data dal “miracolo economico”, si registrò un forte sviluppo tecnologico, sociale ed economico.

Sul versante dei diritti civili, tuttavia, l’Italia non aveva subito grandi trasformazioni; era ancora, infatti, un paese fondato sulla centralità del ruolo della famiglia tradizionale, patriarcale e cattolica: le relazioni tra i coniugi, regolate dal “sacro vincolo” del matrimonio, sono finalizzate, sostanzialmente alla generazione della prole e i rapporti tra genitori e figli, pur iniziando a differenziarsi lentamente ad “allentarsi”, sono ancora caratterizzati da una forte pressione psicologica dei primi sui secondi.

Dal punto di vista legislativo, l’ambito familiare, in Italia è fortemente arretrato: alla fine degli anni ’50, in Italia, un marito può tranquillamente proibire alla moglie di uscire di casa senza la sua compagnia e non è reato malmenarla qualora avesse disobbedito al suo ordine.75 Il fenomeno della violenza dei mariti sulle mogli si

estendeva a tutti gli strati sociali della popolazione italiana ed è per questo motivo che venivano avanzate le prime richieste di separazione legale.

Ancor più che il Codice Civile era quello Penale a contenere una serie di norme in contrasto con i principi della Costituzione. L’adulterio, infatti, era considerato un reato punibile con la reclusione, ma non veniva applicato lo stesso metro di giudizio per l’uomo e per la donna: la moglie adultera e il “complice” sono puniti con un anno di reclusione (che diventavano due nel caso in cui il giudice avesse accertato una vera e propria relazione tra i due); l’uomo invece è considerato punibile solo se tiene nella casa coniugale, o in maniera nota, altrove, la sua amante.

A coronare la situazione di arretratezza e di poca sicurezza in cui versa la società italiana del tempo vi era il cosiddetto “delitto d’onore”, ovvero quel delitto commesso nello stato d’ira dovuto all’offesa recata al proprio onore o a quello della

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G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), cit., p. 3.

famiglia. Tale reato è punito con una reclusione ridotta da tre a sette anni. E’ una situazione denunciata anche dal cinema italiano; basti pensare al celebre film Divorzio all’italiana (1961) il cui regista, Pietro Germi, attraverso la grande interpretazione di Marcello Mastroianni, racconta la storia del barone Fefé il quale spinge la tanto odiata moglie tra le braccia di un vecchio spasimante, in modo da potersi liberare di lei, uccidendola, scontando poi una pena esigua, grazie all’attenuante del delitto d’onore.

Ancora in quegli anni accadeva frequentemente che giovanissime donne cadessero vittime di violenza sessuale e, come se non bastasse, venissero ritenute responsabili dell’accaduto perché di “facili costumi”; così, contemporaneamente, attraverso il matrimonio, ella evitava il disonore e il colpevole di violenza sessuale non poteva essere più condannato poiché il Codice penale prevedeva che, per i delitti di violenza carnale, il matrimonio estinguesse il reato.

Solo a partire dalla seconda metà degli anni ’60 iniziano ad emergere, in vari ambiti della società, temi apparentemente privati, come la sessualità, i rapporti interpersonali nella famiglia, i rapporti uomo-donna e genitori-figli; ne è la prova il fatto che è proprio in quegli anni (precisamente nel 1965, anno in cui il deputato socialista Loris Fortuna presentò la sua proposta di legge) che si farà strada l’istituto del divorzio, nonostante la pressione esercitata sulla società e sulle famiglie dall’istituzione della Chiesa.

Attraverso i risultati del referendum del 1974 la società civile irrompe con forza e consapevolezza sulla scena politica italiana, dimostrando, tra l’altro, di essere ben più avanti, democraticamente parlando, della propria classe dirigente e della politica riguardo alla valutazione della tematica dei diritti civili.

Ma vediamo adesso, più nel dettaglio, le tappe di quella che rappresenta una delle pagine più importanti della storia del nostro paese.

Il primo progetto di legge per il divorzio dai tempi dell’unità d’Italia è stato presentato in Parlamento dal deputato liberale pugliese Salvatore Morelli con il titolo Disposizioni concernenti il divorzio e risaliva al 1878.

Ne erano seguiti altri (1880-1883, 1892, 1901) ma dobbiamo attendere il 1902 per avere l’impressione che una legge divorzista stia realmente prendendo forma. Infatti, nello stesso anno, il Presidente del Consiglio Zanardelli presenta un disegno di legge che prevede il divorzio in caso di sevizie, adulterio e anche di condanne gravi; ma anche questa volta il disegno di legge cade con 400 voti sfavorevoli e il tema non

viene più toccato per molto tempo. La Prima Guerra Mondiale infatti congela tutte le battaglie sociali e durante i governi Giolitti di divorzio non si parla più; il liberalismo prefascista trova nella Chiesa un elemento di profondo ordine e conservazione come confermano gli atteggiamenti di rispetto verso le tradizioni popolari e verso i diritti religiosi di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile.76

E’ con la sinistra socialista radicale e repubblicana che, nel 1920, viene presentato un nuovo progetto di legge sul divorzio che però rimane senza conseguenze anche a causa dell’anticipata chiusura parlamentare nel 1922 con la marcia su Roma.

Durante il regime fascista l’argomento viene accantonato, nonostante non fosse inserita l’indissolubilità del matrimonio nel Concordato del 1929.

Stessa cosa accade dopo la Liberazione e anche durante gli anni del centrismo democristiano; neppure i comunisti sembrano più di tanto interessati a sollecitare l’opinione pubblica su questa tematica, ancorati saldamente alle riflessioni gramsciane e togliattiane.

E’ solo nell’ottobre del 1954 che in Parlamento viene di nuovo data attenzione alla questione del divorzio, in occasione della presentazione del progetto di legge da parte del deputato socialista Renato Sansone. A quella proposta, nel giugno 1958, vengono aggiunte alcune modifiche dalla collega Giuliana Nenni, tanto che il progetto prende subito il nome di “piccolo divorzio”:

“Si limitava a casi particolarmente drammatici: dieci o più anni di reclusione per uno dei coniugi; tentativo di uccisione da parte di un coniuge; separazione legale o di fatto da più di quindici anni; dichiarazione di malattia inguaribile o mentale di uno dei coniugi; divorzio ottenuto all’estero in qualità di cittadino straniero.”77

Ma ancora una volta la proposta viene lasciata cadere nonostante alimenti un vivace dibattito nel Bel Paese.

A partire dalla metà degli anni ’60 anche la società italiana appare più dinamica e si iniziano a percepire i primi segni di cambiamento; lo dimostra, infatti, il costante aumento, soprattutto nei ceti medio-alti, della pratica delle separazioni, a testimonianza dell’inizio di una crisi della famiglia tradizionale: le statistiche parlano, addirittura, di decine di migliaia di separazioni legali pronunciate ogni anno

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G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), cit., p. 19.

dai tribunali italiani. Tuttavia la separazione giuridica ha al suo interno tutta una serie di storture cui si sarebbe dovuto, prima o poi, porre rimedio.

A dare impulso alla questione del divorzio è la pubblicazione, in Italia, nel 1964, di un volume intitolato Mistica della femminilità di Betty Friedan (leader del movimento femminista americano) in cui la scrittrice mette per la prima volta in discussione il ruolo subordinato della donna all’interno della società e della famiglia. Un’altra femminista, Kate Millet, propone una rivoluzione sessuale che ponga fine all’istituto del patriarcato, che abolisca l’ideologia della supremazia maschile. Si diffonde così in breve tempo, in tutto l’Occidente, un movimento femminista che si rivela assai battagliero, i cui obiettivi sono molteplici: si pensi, ad esempio, alla rivendicazione del diritto a una sessualità e a una maternità libere e consapevoli, alla lotta contro le violenze sessuali e contro l’aggressiva prepotenza dell’uomo nella sfera privata e pubblica, e infine alla richiesta di <<pari opportunità>> tra uomo e donna nelle professioni e nella vita politica.78

Questo momento da una spinta importante alla nascita dei movimenti femministi anche in Italia, nonostante la realtà quotidiana e la mentalità comune non siano ancora così all’avanguardia.

Sono quelli, gli anni che vedono nascere la Lid (lega italiana per l’istituzione del divorzio), un’associazione politica aperta a tutti i cittadini interessati a quella battaglia, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, alla quale aderisce anche il socialista Loris Fortuna, il quale, il 1 ottobre 1965 Fortuna presenta alla Camera il suo progetto di legge volto a disciplinare i Casi di scioglimento del matrimonio:

“[…]: condanna del coniuge, con sentenza definitiva, all’ergastolo o ad almeno cinque anni, per reati quali incesto, istigazione alla prostituzione, sfruttamenti dei minori; eventuale proscioglimento dei precedenti reati per infermità mentale e degenza in ospedale psichiatrico; abbandono da parte del coniuge del tetto coniugale o separazione legale da almeno cinque anni; infine, annullamento all’estero del matrimonio.”79

Nel maggio 1968 il liberale Antonio Baslini, presenta una nuova proposta di legge dal titolo Disciplina dei casi di divorzio che attribuisce al giudice il potere di rinviare

78 V. Slepoj, Le ferite delle donne, cit.

79 G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974),

di due anni la sua decisioni in particolari circostanze, allungando così i tempi per ottenere la sentenza; la proposta di legge non riconosce inoltre la separazione di fatto come titolo per avere diritto anche alla richiesta di divorzio. Dopo una serie di discussioni i due progetti di legge, quello Fortuna del 1965 e quello Baslini del 1968, vengono accorpati in uno solo, tanto che la legge viene, da quel momento in poi, ricordata con il nome “Fortuna-Baslini”.

In concomitanza, la Chiesa, tenta di sollecitare le masse cattoliche in difesa dei valori cristiani tradizionali della famiglia.

Senza dubbio, la solidità della mentalità tradizionale sulla famiglia e sulla maternità viene messa a dura prova da tutta una serie di eventi che caratterizzano la seconda metà degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ’70. Si assiste, infatti, all’inizio di forme di liberalizzazione dei costumi sessuali (la diffusione dei contraccettivi, ad esempio), ad un miglioramento del livello di istruzione delle donne unito ad un conseguente maggiore coinvolgimento e ad una maggiore presenza delle stesse sul mercato del lavoro. E’ proprio a causa dei motivi appena citati quindi che la battaglia per il diritto al divorzio assume sempre più importanza. All’interno dell’opinione pubblica si fa strada anche l’inizio del dibattito sulla regolamentazione dell’aborto che implica il diretto coinvolgimento delle funzioni della famiglia, della società e dello Stato. La legislazione italiana mostra anche sull’aborto, così come per il divorzio, tutte le sue lacune: non prevede, infatti, alcuna regolamentazione, salvo poi punirlo come delitto contro la vita, assegnando pene molto severe (da due a cinque anni di reclusione). Secondo il codice Rocco, risalente al fascismo, l’aborto è un “delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe”, non perché va a ledere il diritto alla vita, ma perché reca un’offesa alla nazione intesa come “comunità etnica”, alla razza; coerentemente con ciò, la politica demografica del regime, prevede, infatti, incentivi e premi per le famiglie numerose e tasse punitive sul celibato.

La fase iniziale del dibattito sull’aborto seguì in parallelo gli eventi che portarono al referendum del 1974 e fu caratterizzata da posizioni nettamente contrapposte contribuendo ad irrigidire ancora di più i due fronti, quello divorzista e quello antidivorzista. Intanto il referendum sul divorzio viene indetto per il 12 e il 13 maggio 1974: chi vota “SI” cancella la legge in vigore, chi vota “NO” la conferma. Il 12 e il 13 maggio 1974, a sorpresa, oltre il 50% dei votanti dice no all’abrogazione della legge; la percentuale dei votanti contrari all’istituto del divorzio, quindi, non raggiunge neanche la metà degli elettori.

Chi combatteva l’istituto del divorzio riteneva che leggi come la “Fortuna-Baslini”, in merito al tema della famiglia, potessero condurre ad una degenerazione dei costumi; le buone leggi, secondo questa corrente di pensiero, dovevano essere una sorta di prescrizione di principi morali.

Chi era favorevole al divorzio sosteneva, invece, che le leggi erano del tutto inadatte a determinare i costumi; ritenevano anche che le buone leggi non fossero tali perché prescrivevano a tutti dei principi morali, ma perché consentivano la convivenza di principi diversi, sentiti e testimoniati dai tanti gruppi che contraddistinguono e compongono la società.

Per concludere questo excursus storico che ha portato alla regolamentazione dell’istituto del divorzio vale la pena riportare le parole di Giambattista Scirè il quale, con grande abilità, sintetizza il significato di questo grande cambiamento apportato alla nostra società:

“La lunga e travagliata vicenda del divorzio, che aveva finalmente reso protagonista, per la prima volta, tutta la società italiana, non si chiuse, come molti pensano, con la sconfitta del clericalismo. E’vero che si segnò il destino della cultura cattolica ufficiale come maggioritaria nel paese, è pur vero che il mondo cattolico si spaccò pubblicamente, per la prima volta, su un tema di così importanti risvolti civili, ma è anche vero che di lì a poco ci fu il ricompattamento dell’ala intransigente e del polo moderato del cattolicesimo italiano contro regolamentazione per la legge dell’aborto. Quell’evento non si chiuse neppure con la vittoria del “libertinismo”: gli italiani non abusarono affatto nell’utilizzo del divorzio, come dimostrano le statistiche (se la curva dei divorzi s’impennò, dagli anni ottanta in poi, si tratta di un fenomeno legato direttamente alla crisi strutturale della famiglia, della società e della politica italiana e non certo all’attivazione dell’istituto del divorzio in sé). La vicenda del divorzio rappresentò, ben più semplicemente, il trionfo del pluralismo e il normale approfondimento dei processi di modernizzazione della società italiana, in linea con il percorso più generale sviluppatosi in quasi tutto l’Occidente.”80

Se è vero, però, che l’introduzione del divorzio ha comportato una “vittoria” del pluralismo e della possibilità di scelta di ogni singolo individuo, è necessario anche ricordare che, quando una coppia arriva a compiere un passo così importante, non si

80 G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974),

dimentichi che le conseguenze possono essere piuttosto gravi, in presenza di un figlio, se il conflitto e la separazione non vengono gestite in maniera corretta.

Gli ex coniugi dovranno sempre tenere presente che per i figli non è necessario che i genitori si amino ma è indispensabile che si rispettino.

Qualunque cosa accada tra di loro, gli ex coniugi non cesseranno mai di essere il padre e la madre dei loro figli; cessata perciò la convivenza coniugale si apre una nuova prova, non certo inferiore alla prima: coesistere come genitori pur non essendo più marito e moglie.