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Amore e disamore: l'elaborazione del conflitto e il divorzio.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme del Sapere

TESI DI LAUREA

Amore e disamore: l'elaborazione del conflitto e il divorzio

Candidato

Benedetta Donati

Relatore

Prof.ssa Maria Antonella Galanti

Correlatore

Dott. Luca Mori

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INDICE

Introduzione p. 3

CAPITOLO PRIMO

Amore possesso e conflitto familiare

1.1 Dalla formazione della coppia al conflitto familiare p. 6

1.2 Amore e potere: due volti dei legami affettivi p. 14

CAPITOLO SECONDO

Alla riscoperta di se stessi: un modello di sostegno nei casi di conflitto familiare

2.1 Nella trappola dell’amore p. 18

2.2 Libere dal male p. 23

2.3 La consulenza filosofica come sostegno p. 32

CAPITOLO TERZO

Famiglia, matrimonio e divorzio nella seconda parte del XX° secolo

3.1 La famiglia e il matrimonio: rapide trasformazioni

che hanno segnato il XX° secolo p. 41

3.2 Una famiglia che cambia: il divorzio in Italia p. 47

3.3 Separazione e divorzio: come i coniugi affrontano la crisi p. 54

3.4 La Relazione tra gli ex coniugi p. 65

CAPITOLO QUARTO I figli e il divorzio

4.1 Gli effetti sui figli del conflitto e della separazione genitoriale p. 70

4.1.1 La sindrome da alienazione genitoriale (PAS) p. 80

4.1.2 Il complesso di Medea p. 88

4.2 Le variabili che influenzano le reazioni dei figli p. 93

4.2.1 Dalla prima infanzia alla pre-adolescenza p. 98

4.2.2 L’adolescenza p. 107

Conclusioni p. 119

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Introduzione

Con il presente elaborato si è tentato di mostrare come le relazioni amorose incentrate sul dominio e sul potere siano una delle cause più comuni del conflitto familiare. In presenza di dinamiche conflittuali molto pesanti, i coniugi, si trovano a dover affrontare il delicato momento della separazione; se tale evento non viene gestito nella maniera migliore, in una coppia con uno o più figli, può causare “danni” di non poco conto sui bambini e/o ragazzi che si modificano e si differenziano a seconda dell’età.

Nella prima parte dell’elaborato si è notato come, in prima istanza, la qualità degli eventi affettivi accaduti nella prima infanzia tra madre e bambino e la mutata concezione del matrimonio avvenuta nel corso dell’ultimo secolo, siano cause scatenanti del conflitto familiare/ di coppia. Talvolta, il conflitto tra due coniugi, può essere aggravato ulteriormente se, quel rapporto, è incentrato sul controllo e sul potere sull’altro, anziché essere basato sull’empatia, sulla tenerezza e sull’affettività. A tal proposito è stato preso in esame lo studio compiuto da Jessica Benjamin, la quale ribadisce l’importanza delle prime relazioni oggettuali (nello specifico la relazione madre-bambino) per lo sviluppo di un Sé sano e in grado di stabilire relazioni che non cadano sotto un rapporto di potere. Il dominio, infatti, ha origine nel momento in cui un soggetto rifiuta la condizione di equilibrio che si instaura tra l’affermazione di sé e il riconoscimento dell’altro.

E’ possibile, inoltre, come testimonia sempre più spesso la cronaca odierna, che il desiderio di controllo e di potere si spinga oltre al punto che risulta fatale per il partner, solitamente appartenente al genere femminile. Le motivazioni di questa tendenza devono tenere in considerazione sia le spiegazioni date dalle teorie della psicologia femminile, sia le influenze storico-culturali che per secoli hanno modellato la soggettività di ognuno. Dal punto di vista delle teorie psicologiche torna ad offrirci il suo aiuto Benjamin che, mettendo in discussione la teoria freudiana dell’invidia del fallo, arriverà a sostenere che non è l’anatomia femminile (e quindi la mancanza del pene) a far sì che, ancora oggi, si continui a parlare di una mancanza della donna rispetto all’uomo; bensì la relazione della bambina ,con il padre che avviene in un contesto di “contrasto” di generi e differenti responsabilità per quanto riguarda l’educazione dei figli. Per quanto riguarda le influenze storico-culturali tutti sappiamo che, in particolar modo a partire dalla seconda metà del Novecento, si

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assiste ad un numero crescente di donne che studiano, che acquisiscono consapevolezza in se stesse e una maggiore capacità di gestirsi autonomamente. Questa crescente emancipazione della donna e la capacità da parte di quest’ultima di sapersi muovere liberamente sia in ambito lavorativo che sociale genera, purtroppo, sempre più spesso, “paura” negli uomini. Essi, infatti, sentono minacciato, in qualche maniera, il loro ruolo atavico di pater familias, e cercano di ristabilire l’ordine facendo ricorso anche alla violenza.

Come fare, quindi, per uscire dalla trappola di un amore frustrante? J. S. Bolen, utilizzando un approccio mitologico, tenta di fornire una risposta attraverso l’esposizione dei suoi studi condotti in ambito psicologico. Studiando le differenti personalità femminili, infatti, ha individuato nelle descrizioni delle dee dell’Olimpo degli archetipi caratteristici che possono essere richiamati in una determinata fase della vita di ogni donna. In particolar modo, la donna archetipo Persefone, è incline ad instaurare legami frustranti e insoddisfacenti; solo sviluppando la “Regina degli Inferi” che è in lei potrà prendere coscienza di ciò che vuole veramente e diventare una guida per se stessa. Anche “attivando” l’archetipo Atena è possibile, per una donna, liberarsi da una relazione d’amore frustrante; attraverso la sua forza e la sua determinazione, l’archetipo Atena, riuscirà a indirizzare la donna verso obiettivi concreti da perseguire con sicurezza.

L’amore, infatti, non si piega al potere, non conosce possesso e non infonde paura; per poter garantire una “via di fuga” da questo tipo di relazioni (e non solo) è stata introdotta, in Italia, attraverso il referendum del 1974, la legge sul divorzio. Se gestita nel migliore dei modi, infatti, la fine del patto coniugale può preludere ad un momento di crescita, di cambiamento e di riflessione per gli individui direttamente coinvolti; è necessario portare in salvo il legame che un tempo li teneva uniti in particolar modo se, all’interno del nucleo familiare, sono presenti uno o più figli. La separazione è sempre un momento molto delicato (critico per certi versi) da affrontare. E’ opportuno, quindi, che i genitori sappiano gestire al meglio le proprie emozioni, evitando di farsi trasportare dal turbinio di rabbia, dolore e frustrazione tipico di quelle circostanze. Non devono perdere mai di vista il loro compito primario, ovvero quello di esercitare al meglio la loro funzione genitoriale. E’ in una fase delicata come la separazione che i figli, infatti, hanno bisogno del supporto dei loro genitori e che questi ultimi sappiano lenire quel vuoto e quel senso di spaesamento che la disgregazione del contenitore familiare comporta.

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Oltre alle dinamiche interne al nucleo familiare e alle modalità di gestione del conflitto, un’altra variabile che influenza la reazione dei figli di fronte alla separazione dei genitori è collegata all’età che ha ogni bambino (o ragazzo) ha quando si trova a dover affrontare la fine del patto coniugale che ha tenuto uniti i suoi genitori fino a quel momento.

Alcuni studi hanno dimostrato che sono i bambini piccoli (o molto piccoli) ad affrontare con maggiore difficoltà questa fase poiché l’unità familiare, per il piccolo, rappresenta l’intero universo e il suo disgregarsi potrebbe dare origine a paure abbandoniche.

Altri studiosi, invece, sono concordi nell’affermare che è nella fase adolescenziale che si rilevano più spesso problemi legati alla disgregazione familiare. L’adolescenza, infatti, è un periodo di transizione piuttosto complesso per i ragazzi, i quali si trovano a dover affrontare il passaggio (sia a livello fisico che mentale) dalla fase infantile a quella adulta.

Al fine di evitare conseguenze pesanti per il benessere dei membri della famiglia in via di separazione (si ricorda la PAS e il complesso di Medea) è importante che, in particolar modo i genitori, elaborino in maniera corretta i sentimenti negativi che da tale esperienza derivano. Saper modulare la rabbia e affrontare il dolore sono i primi passi da muovere verso una nuova e più forte consapevolezza di se stessi e della nuova situazione.

Accade, tuttavia, che sia necessario un aiuto per compiere questo importante cammino; ed è per questo che la pratica della consulenza filosofica può essere di aiuto, per poter acquisire la capacità di guardare in modo diverso il mondo interiore e quello che ci circonda. Acquisendo un nuovo punto di vista sulla vita, quindi, è possibile fare proprio un senso identitario che sappia riconoscere il dolore, affrontarlo come un elemento connaturato all’esistenza stessa.

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CAPITOLO PRIMO

Amore, possesso e conflitto familiare

1.1 Dalla formazione della coppia al conflitto familiare

Sono vari gli approcci teorici che concordano nell’affermare che le relazioni intime tra gli adulti sono fortemente influenzate dagli eventi affettivi accaduti nella prima infanzia tra madre e bambino; a tal proposito è importante ricordare la teoria dell’attaccamento dello psicanalista inglese John Bowlby (1969), la quale ha dato un forte contributo alle agli studi sul legame che i bambini instaurano con le figure genitoriali fin dai primissimi stadi del loro sviluppo mettendo in luce il fatto che, possibili disfunzioni di tale legame primario, possono compromettere (o comunque favorire degli effetti negativi) la qualità dei rapporti futuri dell’ individuo, incidendo sulla sua personalità.

Anche se, in questo ambito, si porrà l’attenzione sulla nascita del conflitto familiare, è opportuno ricordare quattro punti che sintetizzano la teoria dell’attaccamento di John Bowlby:

1) “La relazione madre-bambino, quella genitore figlio e l’amore adulto-adulto, sono lo stesso tipo di relazione.

2) L’esperienza precoce è importante per lo sviluppo successivo, specialmente per la comprensione e il funzionamento delle relazioni intime

3) I modelli operativi dell’attaccamento (rappresentazioni) si sviluppano nel contesto delle esperienze riguardanti le relazioni intime e, inizialmente, sono relazione-specifici.

4) Tali rappresentazioni […] sono il meccanismo attraverso cui l’esperienza precoce influenza lo sviluppo successivo. […]. Inoltre, servono come filtri per comprendere le esperienze relazionali e guidano il comportamento nelle relazioni intime”.1

Le ricerche poi, procedendo, hanno dimostrato che non solo la personalità di ognuno di noi ma anche, e soprattutto, il modo in cui percepiamo il mondo che ci circonda e ciò che ci aspettiamo da un altro nostro simile verso il quale abbiamo sviluppato un attaccamento, sono fattori fortemente influenzati dalle esperienze di attaccamento sviluppate in età infantile e adolescenziale. Le esperienze che un bambino (e quindi

1 J. A. Crowell, Continuità e discontinuità nel sistema dell’attaccamento, in L. Carli, D. Cavanna, G.

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futuro adolescente) fa in quegli anni della sua vita, infatti, andranno ad incidere sulla sua capacità di mantenere e sviluppare rapporti sani e duraturi con i suoi pari, che siano essi di carattere amoroso o amicizie.

In altre parole, lo stile di attaccamento di un individuo, può andare ad incidere non solo sulla scelta del partner ma anche sulle decisioni e sullo stile di vita che con quest’ultimo si troverà ad affrontare; elementi che possono innescare l’inizio di una crisi di coppia.2

Ampliando il raggio di azione, è possibile affermare che, ciò che rappresenta un fattore di rischio per la qualità della relazione coniugale, non è il conflitto in sé, ma il modo in cui esso viene attraversato e gestito. Nessun rapporto di coppia, infatti, è esente da periodi di crisi caratterizzati da un certo tasso di conflittualità; questo accade soprattutto perché le relazioni tra persone, nello specifico le relazioni amorose, nascono dall’interazione di più individui, molto diversi tra loro; individui con opinioni, caratteristiche, emozioni, esperienze passate e progetti futuri talvolta divergenti tra loro e per questo, inevitabilmente, portatori anche di conflitti.

“Ogni cosa è retta dal conflitto e chi rimuove il conflitto non fa che precipitare il mondo degli uomini e delle donne nel gorgo dell’irreale. Un elogio del conflitto, lungi dal celebrare la necessità dello scontro, afferma il principio stesso della creazione e del nuovo. […]

Le azioni di una persona, di un popolo, di un qualsiasi essere vivente hanno lo scopo di consentire a quello stesso organismo di perseverare nel suo essere, individuale o collettivo che sia. […] Il dispiegamento dell’agire è il solo fine dell’agire, il dispiegamento delle molteplici dimensioni del conflitto è l’unico scopo del conflitto. […]

Solo nel dispiegarsi delle molteplici dimensioni dell’esistenza la vita può perdurare e può dispiegarsi appieno.

Ogni elogio del conflitto è un elogio della vita. Ogni elogio del conflitto parla del conflitto come fondamento della vita”.3

Oltre al vissuto psicologico che influenza, inevitabilmente, ognuno di noi, un’altra fonte di conflitto all’interno della coppia è da ricercare in ambito sociale; nel corso dell’ultimo secolo, infatti, la concezione del matrimonio è cambiata molto: secondo

2 L. Carli, D. Cavanna, G. C. Zavattini, Psicologia delle relazioni di coppia, cit.

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la concezione dei nostri avi il matrimonio era un fatto istituzionale, un’alleanza tra famiglie.

Oggi, invece, è la coppia intesa come impegno riguardante due singoli individui che scardina la concezione di matrimonio sopracitata; e con essa, l’intimità intesa come condivisione di sentimenti, paure e aspettative ha preso il sopravvento sull’impegno sancito dal vincolo matrimoniale. E’ proprio per questo motivo che la coppia “moderna”, ovvero una coppia dove sono enfatizzati gli aspetti affettivi e di intesa sessuale a scapito di quelli di vincolo e di impegno nella relazione, può facilmente entrare in crisi, causando così delusione in uno dei due (o in entrambi) i partner.4 E’ del tutto normale che vi siano aspetti poco convergenti, contraddittori all’interno di una relazione di coppia, essendo il conflitto un evento che si ripete ciclicamente nella vita delle persone e in tutti i tipi di relazione, ma è di altrettanta fondamentale importanza che sia l’amore a lenire e dominare quei sentimenti negativi che da tali discrepanze possono scaturire.

Affinché la relazione si sviluppi in modo sano occorre che la coppia acquisisca una propria identità, differenziandosi dalle famiglie di origine e, soprattutto, basando il rapporto sulla reciprocità, sulla cooperazione e sul sostegno affinché, attraverso le varie tappe della vita, essa possa avanzare all’insegna di una profonda condivisione. Ed è proprio questo il tallone d’Achille delle coppie odierne: sono poco motivate ad investire in una relazione poiché la qualità di quest’ultima è l’unico criterio in base al quale vale la pena restare uniti; rispetto a qualche decennio fa, infatti, uomini e donne ripongono aspettative sempre più alte in una relazione di coppia che, spesso, vengono disattese e si sentono così “prigionieri” di una relazione che non li fa sentire “vivi”. Capita quindi che vadano alla ricerca di nuovi stimoli rintracciabili in nuovi partner mentre si fa sempre più concreta la possibilità di percorrere la via della separazione e del divorzio.

Non è certo l’istituzione del divorzio che, in questa sede, si vuole condannare, anzi; piuttosto è sottoponibile a critica la mala gestione del conflitto e dei rapporti (talvolta malsani) che intercorrono tra gli ex coniugi, conseguentemente alla separazione. L’evento conflittuale, infatti, assume una valenza positiva o negativa a seconda del modo in cui viene affrontato. Esso può essere un momento di crisi di una relazione di coppia che prelude ad una crescita della relazione stessa; oppure, in taluni casi, una

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spia per far comprendere ai coniugi che la relazione è giunta al termine. Ma se, e solo se, esso viene gestito positivamente, può diventare un utile strumento di riflessione e di crescita per gli individui direttamente coinvolti al fine di affrontare nel migliore dei modi possibili la fine del patto coniugale, portando in salvo il legame che un tempo li teneva uniti. E’ opportuno portare in salvo il legame per svariati motivi, come suggerisce Cigoli; riflettendo su se stessi, sulle origini di quel legame, solo così si potrà affrontare la separazione, uscendone con il minor danno possibile. Occorre comprendere le ragioni dell’altro, riconoscere i nostri e gli errori altrui; occorre, soprattutto, dimostrare una profonda capacità empatica per capire chi ci sta di fronte e per essere in grado di comprendere quando è il momento di accompagnare, dolcemente, verso la fine, un amore che vive di stenti. Stare insieme a tutti i costi è come accanirsi su un malato terminale.

A nulla serve rinnegare il passato, buttare a mare ricordi di momenti felici e odiare chi ci ha accompagnato per una vita intera; è necessario, con il tempo, comprendere che quel legame si è trasformato, che quel sentimento, che una volta chiamavamo amore, adesso si è trasformato in qualcos’altro.

Ed è proprio ciò che Cigoli sostiene: i legami non si annullano, ma si trasformano; ed è quello che devono fare due coniugi in via di separazione: riconoscere valore a quel legame, che in passato c’è stato, per non perdere la speranza nel futuro; e salvarlo, soprattutto se la coppia ha uno o più figli.5

A tal proposito è utile richiamare un concetto citato poco sopra, quello dell’empatia. Il termine empatia deriva dalla parola tedesca Einfuhlung, coniata da Robert Vischer, studioso di arte, nel 1872. Tale termine viene usato quindi nell’ambito dell’arte e dell’estetica. Fu Dilthey a prendere in prestito tale termine dall’estetica e a cominciare ad usarlo per descrivere il processo mentale attraverso il quale l’individuo si immedesima in un altro essere vivente, arrivando a conoscerne i sentimenti e i pensieri. E’ stato poi Titchener a tradurre Einfuhlung con Empathy, ovvero l’odierno termine che si traduce con l’italiano “empatia”. Il termine empatia ha origine dal termine greco empatheia, composto di en e pathos, ossia sentire dentro, soffrire dentro. E’ composta, infatti, da en che significa “dentro” e pathos che significa “sentimento”. E’ l’etimologia stessa della parola che rimanda alla capacità di comprendere lo stato d’animo di un’altra persona, in modo immediato; tale

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termine, infatti, veniva usato nell’antica Grecia per indicare quel rapporto intriso di forti emozioni e che legava l’autore-cantore al suo pubblico.

L’empatia è anche un vero e proprio modo di comunicare: possedere una buona predisposizione empatica, e quindi comprendendo e condividendo lo stato emotivo dell’altro, posso impegnarmi attivamente per cercare di alleviare la sua sofferenza, oppure posso condividere con esso momenti di grande gioia.

“L’empatia si può definire come la capacità di comprendere il modo di essere-nel-mondo di un altro dal di dentro, riuscendo a immedesimarsi nella sua condizione e a penetrare la sua dimensione di interiorità”.6

L’empatia, nota ancora Galanti, si differenzia dalla simpatia, dalla pietà e dalla commozione in quanto non è solo più complessa della natura di questi sentimenti, ma li racchiude anche in sé.

Affinché sia possibile un coinvolgimento realmente empatico, penetrando nel mondo interno di un altro, è necessario mettersi in gioco, scoprirsi, facendo riaffiorare alla mente ricordi (anche dolorosi, se serve) che ci facciano rivivere una condizione simile a quella di chi ci sta di fronte. Tali esperienze passate che hanno suscitato in noi certe sensazioni, ci permetteranno di comprendere più a fondo l’altro, avendo già provato, anche solo per pochi attimi, ciò che la persona sta sentendo in quel momento.7

L’empatia non è fondamentale solo per il rapporto terapeutico o rieducativo ma è un elemento cardine anche delle relazioni amicali, familiari e amorose:

“La disponibilità empatica presuppone la volontà, oltre che la capacità, di abdicare rispetto alla tentazione di leggere il mondo con modalità egocentriche, per sapersi mettere in situazione di ascolto. Significa accettare di porsi in una condizione di nudità emotiva, abbandonando le difese spesso intessute proprio di razionalizzazioni, di pregiudizi, di forme personali ormai ritualizzate di leggere il mondo: metafore senza vita, non più espressione di curiosità creativa, ma di paura”.8

6 M. A. Galanti, Affetti ed empatia nella relazione educativa, cit., p. 118. 7 Id.

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All’interno di relazioni, quali rapporti d’amicizia o di carattere amoroso, è più facile che i soggetti coinvolti posseggano un grado piuttosto elevato di disponibilità empatica poiché si trovano in una condizione di “parità” (è diverso il caso, ad esempio, di rapporti non “paritari”; basti pensare al rapporto che intercorre tra insegnante ed alunno). La disponibilità empatica, all’interno dei rapporti definiti “simmetrici” è più facilmente attivabile poiché, essendo i soggetti in questione in una condizione di “parità”, entrambi possono ragionevolmente aspettarsi che l’altro sia pronto a prestare ascolto e a condividere momenti difficili e/o gioiosi. E’ fondamentale infatti, sia in amore che in amicizia, avere qualcuno che ci infonda sicurezza. Nel caso specifico di relazioni simmetriche, quando, da una delle due parti cessa di “sgorgare” il flusso dell’empatia, può accadere che tali relazioni falliscano o, se permangono, è facile che in esse insorgano elementi sadico-masochistici.9

Quando una persona perde la disponibilità empatica, o ne possiede un basso grado (in taluni casi nullo) significa che non ha la consapevolezza di come ci si relaziona con gli altri, si interagisce con essi o se ne anticipano i sentimenti e le reazioni. Quando un soggetto perde la capacità empatica quest’ultimo si rapporterà alle persone o alle cose come se entrambe fossero solo degli oggetti, perdendone completamente di vista la soggettività, i pensieri e i sentimenti.

Questo accade perché la persona è interamente focalizzata sui suoi problemi, sui suoi interessi e al loro perseguimento ed ha, quindi, tutte le potenzialità per non essere empatica. Ciò comporta un effetto negativo sull’altra persona coinvolta nella relazione.

Una situazione simile, ad esempio, si può configurare nel caso in cui, in un rapporto gemellare come può essere un matrimonio, venga meno da parte di uno dei due coniugi (o da entrambi) la volontà di portare avanti quel progetto comune che li ha tenuti uniti fino a quel momento. Come vedremo nei paragrafi successivi, infatti, sono sempre più numerosi i nuclei familiari che si dividono perché la tranquillità data dall’andamento piano e lineare della vita matrimoniale induce a riflettere e a seminare dubbi sullo stato della coppia; è facile, quindi, che uno dei due coniugi (o entrambi) si senta preda di una relazione senza vitalità. Può accadere, a quel punto, che egli (o ella nel caso in cui si tratti di una donna) sia talmente preso dai suoi nuovi

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progetti di vita che gli (o le) restituiscano vitalità e dinamicità, a scapito, però, della disponibilità empatica verso l’altro.

Dal canto suo, il coniuge “passivo”, può manifestare anch’esso una scarsa disponibilità empatica; può accadere che, essendo preda di un turbinio di emozioni causate da tale situazione, non si sforzi di capire le ragioni dell’altro ma anzi, sfoghi su di esso la sua rabbia andando ad alimentare ancora di più la crisi.

Provocando un profondo egoismo, la mancanza di empatia, in casi estremi, può portare anche a commettere un omicidio o uno stupro, in casi meno estremi può portare a essere aggressivi o ad approfittare degli altri.

Uno dei più celebri brani di Fabrizio De Andrè, La guerra di Piero, fa riflettere sull’importanza di riscoprire quella fondamentale qualità necessaria per la salvezza dell’umanità, ossia l’empatia verso il proprio simile.

L’empatia che De Andrè prova verso i soldati morti in guerra, per volere di altri, incornicia la vicenda di Piero, il soldato protagonista della canzone. Più precisamente, quello che trapela dalle singole strofe è l’umanità e l’empatia del soldato Piero verso il soldato nemico.

I veri protagonisti della canzone sono i suoi sentimenti, le sue emozioni e le sue paure, non le atrocità che la guerra comporta; ciò che ci colpisce, ascoltandola o leggendone il testo, è il senso di umana fratellanza, la bontà d’animo e la comprensione del soldato Piero che, anche nel più doloroso e atroce contesto quale quello della guerra, riesce a far segnare all’amore e all’umana fratellanza il primato sulla tragicità della morte.

In una luminosa giornata di primavera il protagonista della canzone, Piero, varca il confine che divide due nazioni, riflettendo ferocia della guerra e sulle atrocità che quest’ultima comporta; in quell’istante vede in fondo alla valle un soldato nemico che, verosimilmente, prova le sue stesse paure ed è tormentato dai suoi stessi dubbi:

“E mentre marciavi con l’anima in spalle vedesti un uomo in fondo alla valle che aveva il tuo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore”.10

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Piero è consapevole del fatto che solo uccidendolo potrà salvarsi ma appare indeciso sul da farsi, spaventato dall’idea di assistere con i suoi occhi alla morte di un uomo.

“e se gli sparo in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire ma il tempo a me resterà per vedere vedere gli occhi di un uomo che muore”.11

Tuttavia, quella nobile esitazione, quell’incertezza, altro non sono che sintomo di solidarietà, di una profonda capacità empatica che, però, gli sarà fatale; il soldato nemico, infatti, resosi conto del pericolo, e preso dalla paura, non esita e spara, uccidendolo. Questi versi sono la quintessenza della capacità empatica degli esseri umani. In una cornice tragica, quale può essere quella di una guerra, c’è chi, come il soldato Piero, riesce ancora a dare spazio ai sentimenti, a seguire il cuore e a capire che quel soldato che ha davanti ai suoi occhi altro non è che una “vittima” di un gioco disumano e assurdo, proprio come lui; è, prima di ogni altra cosa, un essere umano, con i suoi stessi sentimenti e le sue stesse paure.12

“e mentre gli usi questa premura quello si volta, ti vede e ha paura ed imbracciata l’artiglieria non ti ricambia la cortesia”.13

La guerra di Piero, dunque, possiamo leggerla come una denuncia dell’azione più tragica e assurda che l’uomo possa commettere: la guerra. Attraverso il grande senso di umana fratellanza del soldato Piero, De André esterna il suo reale coinvolgimento empatico nei confronti dei soldati, del genere umano, tentando di ricordarci che, in prima istanza, siamo tutti esseri umani con delle emozioni e con dei sentimenti di compassione tesi ad onorare la vita altrui.

11 G. Michelone, Fabrizio De André. La storia dietro ogni canzone, cit., p. 104. 12 Id.

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1.2 Amore e potere: due volti dei legami affettivi.

Sono passati quasi due anni dall’uscita nelle sale cinematografiche italiane del film “Cinquanta sfumature di grigio”, tratto dall’omonimo romanzo, campione di incassi, di E. L. James. Il romanzo racconta la vicenda dei due protagonisti, la sprovveduta studentessa Anastasia che finirà “prigioniera” del giovane, affascinante e milionario Christian Grey attraverso una proposta di contratto da parte di quest’ultimo; un contratto molto particolare nel quale lui veste i panni del dominatore e lei della sottomessa. La storia si evolverà nel corso di altri due romanzi, nei quali la perversione Christian Grey (perversione che, semplicisticamente, affonda le radici nell’abbandono da parte della madre), si tramuterà in amore.

Forse nel goffo tentativo di mostrare “la nuova cornice della sessualità”, si è caduti, piuttosto, nella banalizzazione della complessità del rapporto tra amore e dominio. Senza contare l’immagine della donna che, tanto nel film quanto nel libro, viene proposta: innamorata sì ma ingenua (e a tratti anche sprovveduta) e sottomessa. Per uscire dalla banalità di “Cinquanta sfumature di grigio” e analizzare davvero l’azione reciproca tra amore e dominio è utile fare riferimento al testo di Jessica Benjamin, “Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose”.

A tal proposito, Jessica Benjamin, ribadisce l’importanza delle prime relazioni per lo sviluppo di un Sé sano, in grado di stabilire relazioni con gli altri che non ricadano sotto un rapporto di potere, caratterizzato dal dominio del padrone sul suo schiavo.14

Il dominio ha, infatti, origine in una trasformazione della relazione tra il Sé e l’altro: “Il dominio e la sottomissione sono il risultato del venir meno della tensione necessaria tra l’affermazione del Sé e il riconoscimento reciproco che permette al Sé e all’altro di incontrarsi su un piano di assoluta parità”.15

L’equilibrio tra questi due momenti, l’affermazione del sé e il riconoscimento dell’altro fanno parte della differenziazione, ovvero quel processo attraverso il quale il soggetto, il Sé, prende coscienza del fatto che è un essere distinto dagli altri. Ciò che rappresenta il nucleo delle relazioni di dominio, secondo Benjamin, è il rifiuto di tale condizione.

14 J. Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, Raffaello Cortina,

Milano, 2015.

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“Il Sé ha un bisogno paradossale dell’altro, infatti il Sé cerca di porsi come entità assoluta, indipendente, eppure, per essere riconosciuto deve riconoscere che l’altro gli somiglia. Deve essere in grado di trovare se stesso nell’altro. Si può conoscere il Sé solo attraverso le sue azioni, e solo se le sue azioni hanno significato per l’altro ne hanno anche per lui. Eppure ogni volta che agisce nega l’altro, vale a dire che, se riesce a incidere su di lui, l’altro non è più identico a prima. Per conservare la propria identità, l’altro resiste alle azioni del Sé anziché riconoscerle”.16

Affermare me stesso, secondo Benjamin, significa, dunque, ottenere il riconoscimento dell’altro, il che, a sua volta, significa che io devo ammettere che l’altro esiste indipendentemente da me. E’, quindi, un riconoscimento reciproco. La natura di questo processo è paradossale poiché nel momento stesso in cui realizziamo la nostra indipendenza, dipendiamo da un altro (è necessaria la presenza di un altro) affinché la riconosca: io mi posso differenziare dall’altro e comprendermi come <<Io, me stesso>> se, e solo se, vengo riconosciuto dall’altro, incontrandoci su un piano di assoluta parità.

Il primo legame in cui questo processo ha luogo è quella madre-bambino/a. Benjamin, infatti, ricorda che Winnicott nel suo saggio L’uso di un oggetto, ipotizza che per essere in grado di usare l’oggetto, dobbiamo prima distruggerlo in fantasia. Egli, afferma Benjamin, distingue tra due livelli di esperienza: quella di relazionarsi ad un oggetto (l’esperienza per cui l’oggetto è parte della mente del soggetto e non è necessariamente sperimentato come esterno e indipendente) e quella di usare un oggetto (questo tipo di esperienza necessita che il soggetto comprenda l’oggetto come entità esterna, non come un qualcosa che sta nella propria mente). Nella seconda fase quindi, quella dell’utilizzo dell’oggetto, il soggetto comprende e percepisce che l’Altro (l’oggetto) non è qualcosa che dipende dal suo controllo onnipotente bensì è, anch’esso, un’entità a pieno diritto.

Secondo Winnicott, per compiere questo processo, è necessario che il bambino distrugga in fantasia la madre per poi prendere consapevolezza del fatto che quest’ultima sopravvive indipendentemente da lui. Questo processo lascia, nel soggetto che lo sperimenta, contemporaneamente, un senso di fallimento in quanto comprende che gli oggetti non sono sottoposti al suo controllo onnipotente, ed un senso di piacere poiché il soggetto, attraverso il riconoscimento dell’altro, afferma

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anche se stesso; quindi, distruggere l’oggetto, è un processo necessario per differenziarsi da esso, necessario a realizzare la mia indipendenza la quale, paradossalmente, dipende da un altro. Ed è proprio la negazione di questa dipendenza che da origine al dominio.17

“Nella lotta per il riconoscimento ogni soggetto deve rischiare la propria vita, deve lottare per negare l’altro e guai se ci riesce. Infatti, se io nego l’altro completamente, egli non esiste; e se non sopravvive non sarà là a riconoscermi. Ma, per scoprirlo, devo cercare di esercitare tale controllo, cercare di negare la sua indipendenza. Per verificare che egli esiste, devi desiderare di essere assoluto e completamente solo, poi, aprendo gli occhi, per così dire, posso scoprire che l’altro è ancora lì”.18

Nessuno, quindi, riesce a sfuggire realmente alla dipendenza dagli altri. E il dominio inizia con il tentativo di negare la dipendenza dall’altro e questa è una lezione che impariamo sin da piccolissimi, all’interno della relazione di dipendenza tra bambino e genitore.

Il bambino, infatti, deve accettare il fatto che non può esercitare un controllo onnipotente sulla propria madre e che ella è un’entità distinta e separata da lui. Ed è a questo punto, come suggerisce Benjamin, che nel bambino può nascere il desiderio di dominio se la madre accetta di essere controllata dal figlio.19

“<<Continuerò a credere che mia madre sia la mia serva, uno spiritello che soddisfa i miei desideri e obbedisce ai miei ordini, un’estensione della mia volontà. Lei mi appartiene, la controllo, la possiedo>>”.20

La relazione instaurata sul dominio, quindi, inizia con il tentativo di negare la dipendenza; questo è ciò che Benjamin definisce la “dialettica del controllo”.

Affinché le condizioni di indipendenza siano soddisfatte è importante che si riconosca l’altro poiché la vera indipendenza implica che vi sia un equilibrio tra l’affermazione del proprio Sé e il riconoscimento dell’altro. Il dominio è la conseguenza del rifiuto di questa condizione.

Quello che ne risulta, sostiene Benjamin, sarà la nascita di un falso Sé, con un’autostima fragile, poco sicuro dei propri sentimenti e del proprio volere, le cui

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J. Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, cit.

18 Id., p. 42. 19 Id. 20 Id., p. 64.

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relazioni si instaurano sulla base del concetto di sfruttamento ed è pervaso da una grande paura di perdere l’amore.

“Ho sostenuto che il dominio è una distorsione dei legami d’amore. Il dominio non reprime il desiderio di riconoscimento, piuttosto lo procura e lo trasforma. A partire dal crollo della tensione tra sé e l’altro, il dominio procede lungo gli alterni sentieri dell’identificazione con, o sottomissione a altri potenti che personificano la fantasia di onnipotenza. Chi prende questa strada per stabilire il proprio potere, trova un’assenza là dove dovrebbe esserci l’altro. Questo vuoto è riempito da materiale fantasmatico in cui l’altro appare così pericoloso o così debole- o entrambe le cose – che minaccia il Sé e deve essere controllato. Si apre un circolo vizioso: più l’altro viene soggiogato, meno è vissuto come soggetto umano e maggiore diventa la distanza o la violenza che il Sé deve usare contro di lui. La conseguente assenza di riconoscimento, anzi, addirittura l’assenza di un mondo esterno, si riproduce a catena. Quel che si è sempre supposto, ma mai spiegato, è questa distruzione psicologica dell’altro, che è la condizione di qualunque specifica fantasia di dominio”.21

Alla luce di queste considerazioni è possibile affermare che anche l’amore, il sostegno e il calore tipici di nucleo familiare, talvolta, possono essere minacciati da dinamiche di potere; talvolta possono sfociare anche in pericolose patologie, basti pensare alla PAS (sindrome di alienazione genitoriale), la quale verrà approfondita in un paragrafo dei capitoli successivi; oppure facendo riferimento ai fatti di cronaca passati e odierni, posiamo evidenziare come, all’interno delle relazioni amorose, la vittima di tali “abusi di potere” sia rintracciabile, in particolar modo, all’interno dell’universo femminile. Come mai, nelle relazioni amorose, sono spesso le donne a piegarsi al desiderio dell’altro? Di questo tratterà il prossimo capitolo

L’amore, però, non si piega al potere, non conosce il possesso e non infonde paura; l’amore, piuttosto, necessita di reciprocità e di complicità tra i due soggetti in gioco. Se questo però non accade, è necessario poter trovare una vita d’uscita da questa relazione d’amore frustrante, ricorrendo anche alla separazione, se necessario, al fine di migliorare la qualità della vita dei diretti interessati e, qualora ci fossero, anche quella dei figli coinvolti in una simile dinamica familiare.

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CAPITOLO SECONDO

Alla riscoperta di se stessi: un modello di sostegno nei casi di

conflitto familiare

2.1 Nella trappola dell’amore

Come è stato poco sopra affermato, sempre più frequentemente negli ultimi tempi, l’amore veste le sembianze di un mostro sadico e tirannico e che, in quanto tale, si riduce meramente ad un perverso gioco di potere tanto da poter essere equiparato alla dinamica servo-padrone. Preme sottolineare, ancora, che sono spesso le donne a rimanere vittime di tali abusi di potere. Perché questo? Perché, sempre più spesso, incontriamo donne che amano troppo?22

Per comprendere ciò è necessario prendere in esame sia la lettura che ne danno le teorie sulla psicologia femminile, sia tenere di conto anche delle influenze storiche e culturali che per secoli hanno modellato la soggettività degli uomini e delle donne. Dal punto di vista psicologico, la spiegazione di questo eccessivo amore di cui, talvolta, le donne rimangono prigioniere, secondo Benjamin, affonda le sue radici nell’infanzia. Partendo dalla teoria freudiana dell’invidia del fallo, e mettendo quest’ultima in discussione, l’autrice cercherà di dimostrare che:

“[…], non è l’anatomia, ma la totalità della relazione di una bambina con il padre in un contesto di polarità di genere e di responsabilità disuguale nell’educazione dei figli, che spiega quella che viene percepita come <<mancanza>> della donna”.23

Partendo da una breve spiegazione della teoria freudiana (secondo cui la femminilità culmina nell’accettazione della passività poiché una bambina, quando nella fase edipica si rivolge al padre nella speranza di ottenere il suo pene, è protagonista di uno sforzo che la porta ad essere l’oggetto del padre) Benjamin afferma che:

“Per Freud, la rinuncia della donna alla sessualità attiva e il suo accettare lo status di oggetto, costituiscono il segno distintivo della femminilità. E anche se possiamo rifiutare la sua definizione, cionondimeno siamo costrette ad affrontare il fatto doloroso che ancor oggi si continua a identificare la

22 R. Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, Milano, 2013.

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femminilità con la passi-vità, con l’essere oggetto del desiderio altrui, con l’assenza di un desiderio proprio”.24

Ed è sulla base di ciò che Benjamin arriva a sostenere che la madre, benché simbolo di maternità e di fertilità, non viene definita chiaramente come soggetto sessuato, come una persona che desidera in modo attivo qualcosa; piuttosto si tende a dare un’immagine della madre come una figura desessualizzata:

“E abbiamo il sospetto che tale desessualizzazione faccia parte della sua più generale mancanza di soggettività nella società tutta. Come il suo potere in quanto madre non appartiene a lei, ma è in funzione del suo bambino, così, in senso più lato, la donna non ha libertà di fare ciò che vuole; non è soggetto del proprio desiderio. Il suo potere può prevedere il controllo degli altri, ma non del proprio destino”.25

Questa difficoltà di esprimere chiaramente (e liberamente, se vogliamo) il proprio desiderio da parte delle donne, ha favorito la nascita di alcune correnti di pensiero; molti autori, infatti, sono concordi nel ritenere che tali atteggiamenti di tipo masochistico insorgano poco prima e/o all’inizio della fase edipica (intorno ai 2-3 anni), quando i conflitti di separazione e indipendenza dalla madre raggiungono picchi elevati e quando si sviluppa l’identità di genere, ovvero la consapevolezza da parte dei bambini delle differenza tra madre e padre.

Ma cos’è che, in questa fase, può contribuire, in particolare nelle future donne, alla nascita di atteggiamenti masochistici? Benjamin sostiene che, come i maschi, anche le femmine, per uscire da quella simbiosi instaurata con la figura materna, hanno bisogno di identificarsi per un certo periodo con il padre:

“Molto prima che questa coscienza simbolica del genere abbia inizio, il padre- nella globalità del suo comportamento fisico e emozionale- è sentito come altro entusiasmante, stimolante e separato. Il modo di giocare dei padri con i figli è diverso da quello delle madri: è più stimolante e nuovo, meno consolante e non così accuratamente sintonizzato. Spesso i padri introducono un livello più alto di eccitazione nell’interazione precoce: facendo dondolare, saltando, gridando. […].

24 J. Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, cit. p. 100. 25 Id. p. 102.

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Così, fin dall’inizio, i padri rappresentano ciò che è esterno e diverso- fanno da tramite con il vasto mondo”.26

Il padre, quindi, può essere visto come una sorta di veicolo per collegarsi al mondo esterno. Ma se per il bambino e per suo padre questo processo è semplice, perché sostenuti dall’identità del genere, la bambina ha più difficoltà a sentirsi sorretta da suo padre e a rispecchiarsi in lui. Spesso si sente frustrata dal fatto di provare questo desiderio di essere simile a lui, anche se suo padre le vuole bene e la considera un essere meraviglioso.

E’ in questo passaggio che avvengono due cose diverse per i maschi e per le femmine; il bambino, infatti, attraverso l’identificazione con il padre riesce a negare l’indipendenza dalla madre, la bambina, invece, non vedendo pienamente soddisfatto questo suo desiderio di riconoscimento da parte della figura paterna viene risospinta verso la madre.

“Questa idealizzazione resta esente da sottomissione finché il padre meraviglioso, entusiasmante, dice <<Sì, tu sei come me>>. La via per diventare un Io desiderante passa attraverso l’identificazione con lui. Così, io credo che il <<padre perduto>> sia la chiave della perdita di desiderio delle donne e della sua ricomparsa nella forma del masochismo. Ricostruendo il modo in cui il padre viene a mancare per la bambina, cominciamo a trovare una spiegazione della <<mancanza>> della donna che va oltre l’invidia del pene”.27

Non potendo fruire del legame paterno, quindi, le bambine non riescono a negare la loro impotenza, ad affermare la loro indipendenza completa dalla figura materna e a trovare una relazione alternativa a quella instaurata con la madre, rinunciando al loro diritto al desiderio; si dovranno, perciò, affidare al desiderio di un altro, che molto spesso coincide con un uomo despota o dominatore:

“Non protette dal segno fallico della differenza di genere, non sorrette da una relazione alternativa, rinunciano al loro diritto al desiderio. Si è tentati di contrastare questo svuotamento della femmina enfatizzando la sua predisposizione alla socialità o alla futura maternità, una razionalizzazione che contiene qualche verità. Ma, ahimè, sappiamo che molte ragazze conservano per tutta la vita l’ammirazione per gli individui che se la cavano con il loro senso di onnipotenza intatto, ed esprimono la

26 J. Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, cit. p.115. 27 Id. p.119.

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loro ammirazione in rapporti di sottomissione palese o inconscia. Arrivano a idealizzare l’uomo che ha quello che a loro non è dato di avere- il potere e il desiderio”.28

Tutto ciò avrà delle conseguenze molto pericolose per la salute psichica della donna in questione perché, come è già stato detto, l’amore non conosce potere, né possesso, né timori e/o paure; un amore “sano” è un sentimento che infonde tranquillità, che dona energie e che, soprattutto, si fonda sulla reciprocità e sul rispetto reciproco. Come è stato detto poco sopra, queste considerazioni, devono tenere conto delle influenze storiche e culturali che hanno plasmato il nostro mondo interiore e il nostro modo di vivere.

In particolar modo a partire dalla seconda metà del Novecento, si assiste ad un numero crescente di donne che studiano, che acquisiscono consapevolezza in se stesse e una maggiore capacità di gestirsi autonomamente.

Quindi, acquistando una maggiore parità, una maggiore sicurezza e piacere nel loro ruolo lavorativo e sociale, anche le madri potrebbero andare a rappresentare (proprio come lo sono i padri) il mondo esterno, per cui identificarsi con esse non significherebbe più rischiare di rimanere invischiati in dinamiche fusionali “pesanti”. Così, se i genitori riescono a vivere il loro legame in maniera serena, paritaria e senza timori, anche i figli, a loro volta, potranno identificarsi con entrambi, assimilando aspetti e caratteristiche della personalità di ognuno, senza dover rinunciare alla propria identità sessuale.29

“Se tali incroci avvengono al momento giusto gli individui non crescono con una confusione riguardo alla propria identità di genere; anzi, possono essere flessibili nell’esprimerla. Nella mente dell’individuo la rappresentazione del Sé con un proprio genere coesiste con una rappresentazione del Sé senza genere, o addirittura di genere opposto. Così una persona potrebbe, di volta in volta, viversi come <<Io, una donna; io, un soggetto senza genere; io, un uomo>>. Una persona capace di mantenere questa flessibilità è in grado di accettare ogni parte di se stessa e dell’altro”.30

E’ proprio questo, infatti, il punto focale della questione: l’accettazione dell’altro.

28 J. Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, cit., pp.121-122. 29

V. Slepoj, Le ferite delle donne, Mondadori, Milano, 2002.

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L’ uomo dominatore e violento (sia in termini fisici sia in termini psicologici), solitamente, non riesce ad accettare l’ormai inevitabile emancipazione della donna che riesce a muoversi autonomamente e in maniera disinvolta sia in abito lavorativo che in abito sociale:

“Alcuni uomini sono spaventati dalla cosiddetta “parità dei sessi”, e dalle donne che sanno far valere i propri diritti. La loro sempre crescente indipendenza, ha destabilizzato l’ormai atavico ruolo dell’uomo, e molti uomini cercano, forse, di ristabilire l’equilibrio, purtroppo, attraverso la violenza. Ad esempio un uomo insicuro che svolge un’attività lavorativa che reputa inferiore a quella della partner, potrebbe vivere questo come una minaccia”. In generale, comunque, la persona “violenta è colei che utilizza la forza in modo da limitare l’altrui qualità della vita, imponendo le proprie idee e i propri pensieri, qualunque sia il tipo di violenza utilizzata, fisica, psicologica o, anche, economica: la vittima viene controllata e sottomessa imponendo il proprio potere”.31

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2.2 Libere dal male.

Purtroppo, come apprendiamo dai telegiornali e dalle pagine dedicate alla cronaca nera dei quotidiani, sempre più spesso si registrano drammatici avvenimenti che hanno come protagoniste donne che hanno subito violenza per lunghi periodi, piegandosi a queste ingiustizie, sopportando silenziosamente e passivamente tali soprusi.

Hanno sopportato a tal punto questo amore “malato” tanto da aver perso la propria vita; sentiamo parlare, infatti, di “femminicidio”, ovvero un neologismo che indica qualsiasi forma di violenza esercitata nei confronti della donna con l’intento di annientarla dal punto di vista non solo psicologico ma anche fisico, conducendola alla morte.

Ciò che sorge spontaneo chiedersi, di fronte a tanta brutalità, è perché queste donne non riescono a scappare dai loro carnefici; perché scelgono di restare vittime di un rapporto morboso, malato, che procura loro dolore? Per avere risposte molto più circoscritte e precise riguardo a tale quesito, sarebbe utile fare un approfondimento della personalità della vittima, ma non è questa la sede adatta. Tuttavia, per iniziare a cercare delle risposte è utile soffermarsi sui motivi di natura psicologica, culturale e comportamentale che, nella maggior parte dei casi, condizionano e alimentano la predisposizione delle donne ad assumere atteggiamenti passivi di fronte ad episodi di violenza.

Che risenta o meno dell’influenza “femminista”, il modo di amare delle donne, tendenzialmente, è diverso da quello degli uomini, anche se si tratta sempre dello stesso sentimento. La donna, nella maggior parte dei casi “ama con tutta se stessa”, sacrificandosi, talvolta anche annullandosi, pur di rimanere accanto a una persona. Per questo motivo, spesso, rimane intrappolata tra le maglie di un amore che potrebbe annullarla.

Tutto ciò, molto spesso, è stato acutizzato dal tipo di educazione ricevuta:

“[…] l’educazione ricevuta, magari, è stata impartita nel senso che la donna è più debole dell’uomo, che, purtroppo, la donna è destinata alla sofferenza più di un uomo, che la donna è nata per “servire” l’uomo, per formare una famiglia che deve essere necessariamente protetta dall’uomo in quanto più debole.”32

Oppure potrebbero subentrare motivazioni inerenti al benessere dei propri figli:

(24)

“La paura di perderli perché considerate madri “cattive”, il timore del giudizio sociale che potrebbe considerarle come poco rispettose della famiglia, il terrore di lasciare quell’uomo violento che potrebbe mettere a repentaglio la vita stessa dei figli”.33

In aggiunta a tutte queste motivazioni di ordine più “generale”, ce n’è una più puntuale e precisa che merita particolare attenzione. Vanni, infatti, nel suo libro “La bella e la bestia. Una storia come tante”, fa notare che esiste un “ciclo della violenza” all’interno del quale vi è una fase ben precisa (denominata “fase della luna di miele”) nella quale il partner violento cerca di destabilizzare e disorientare la vittima tornando ad essere amorevole, chiedendo perdono per il gesto compiuto ai danni di quest’ultima34:

“In questa fase la vittima si convince di aver sbagliato e accoglie nuovamente il partner così romantico e amorevole nei suoi confronti giustificando, quindi, l’aggressione subita. Il senso di colpa della vittima evidenzia ancora di più lo squilibrio tra i due. […]. Questa fase, molto criptica peraltro, ostacola, inoltre, la cognizione globale della situazione di controllo e di possesso del partner nei suoi confronti, […]”.35

La vittima, quindi, disorientata, vive continuamente in uno stato d’ansia, non essendo capace di prevedere e controllare tali attacchi di violenza da parte del partner. Qual è l’atteggiamento che assume di fronte a tale situazione?

“L’autodifesa che la vittima mette in atto è, spesso, un comportamento passivo, dato dalla speranza di non peggiorare la situazione che sta vivendo”.36

Il risultato di questo atteggiamento passivo innesca nella vittima una dipendenza affettiva nei confronti del partner.

Ognuno di noi possiede un grado (più o meno spiccato) di dipendenza nei confronti di un nostro simile, è una cosa del tutto naturale poiché serve a sostenerci dal punto di vista sentimentale e dell’autostima; ma nel caso di violenza domestica, tale dipendenza, diventa patologica. La vittima, infatti, non può più fare a meno del partner, non è più in grado di prendere autonomamente una decisione al punto che cerca sempre l’approvazione di quest’ultimo; sente di esistere solamente in sua

33

L. Vanni, La bella e la bestia. Una storia come tante, cit., p. 89.

34 Id.

35 Id. pp.81-82. 36 Id., p. 82.

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presenza al punto che, se lasciata sola, si sente persa e pur di stare con quel partner è disposta ad accettare situazioni umilianti e intollerabili per chiunque.37

“Tale tipo di relazione (malata) non si basa, certamente, sull’amore che viene distrutto da queste dinamiche, ma sulla completa negazione di sé e dell’altro e sulla paura di perdere “chi ci tiene in vita”: abuso e distimia vanno sempre in parallelo. La relazione è basata su una reciproca manipolazione, sull’egoismo. L’amore diviene un concetto distorto per quella coppia e continuano a parlarne anche quando la relazione si conclude, dopo il distacco, quasi pentendosi della (giusta) scelta compiuta, continuando ad averne, quindi, un concetto distorto”.38

Come fare, quindi, per liberarsi dalle catene di un amore malato e a realizzare un futuro di parità?

La psicanalista americana J. S. Bolen ha tentato di fornire una risposta a questa domanda attraverso l’analisi della psicologia femminile, riprendendo la nozione di archetipo introdotta da Jung; archetipi che si possono vedere impersonati dalle divinità femminili greche.

“E’ stato C. G. Jung a introdurre nella psicologia il concetto di “archetipo”. Egli considerò gli archetipi come modelli di comportamenti istintuali, contenuti nell’inconscio collettivo. L’inconscio collettivo è la parte di inconscio non individuale, ma universale, con contenuti e modalità di comportamento che sono più o meno gli stessi, ovunque e in ciascuno. Miti e favole sono espressioni di archetipi, […]”.39

Studiando le divinità dell’Olimpo è impossibile non notare che sono molto simili a noi umani nei modi di agire, nelle reazioni emotive e nelle sembianze. Di tutte le divinità, quelle più famose erano dodici, rispettivamente sei maschili e sei femminili: Zeus, Poseidone, Ade, Apollo, Ares, Efesto, Estia, Demetra, Era, Artemide, Atena e Afrodite. Bolen ha aggiunto una settima figura, quella di Persefone (Proserspina per i latini) al gruppo delle figure mitologiche femminili, la quale sarà utile ai fini di questa riflessione. Cerchiamo di capirne il perché.

Bolen ha poi suddiviso le sette dee in tre categorie. Troviamo, quindi, le dee vergini (Artemide, Atena ed Estia) che rappresentano le qualità dell’indipendenza e

37 L. Vanni, La bella e la bestia. Una storia come tante, cit. 38 Id. p. 83.

39 J. S. Bolen, Le dee dentro la donna. Una nuova psicologia femminile, Astrolabio-Ubaldini, Roma,

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dell’autosufficienza; le dee vulnerabili (Era, Demetra e Persefone) le quali rappresentano, rispettivamente, i ruoli tradizionali di moglie, madre e figlia e sono accomunate da un infausto destino: tutte e tre, infatti, vennero violentate, rapite, dominate o umiliate da una divinità maschile; e, infine, le dee alchemiche la cui rappresentante è Afrodite.

Bolen considera le peculiarità caratteriali di ciascuna dea (peculiarità che vengono fuori dai miti) come una metafora dei vari aspetti dei conflitti interni che in ogni donna sono presenti:

“In ogni donna sono potenzialmente presenti tutte le dee; quando nella psiche molte di loro sono in competizione per il predominio, la donna deve decidere quale aspetto di sé esprimere e quando. Altrimenti verrà sballottata ora da una parte, ora dall’altra”.40

L’ambiente familiare in cui ogni donna cresce, indubbiamente, influenzerà il suo modo di essere, il suo modo di porsi e di reagire di fronte alle persone e alle situazioni che la vita propone; può accadere, infatti, che la famiglia porti la figlia a sentirsi un’eterna bambina, nonostante lo scorrere degli anni, arrivando a comportarsi come si aspettano gli altri e non in maniera autentica. Accetterà passivamente ogni cosa, con conseguenze di non poco conto per la sua autostima. E’ il caso della dea Persefone (e dell’archetipo che da essa ne deriva).

La dea Persefone era venerata sotto un duplice aspetto: come Kore, quindi una dea giovane, slanciata, bellissima, simbolo di fertilità; e come Persefone, ovvero la regina degli Inferi, una donna matura, che guida le anime dei morti e ben consapevole su ciò che vuole per sé. Tuttavia, per comprendere al meglio l’archetipo della donna Persefone, è necessario narrare il mito che la riguarda:

“Persefone fu l’unica figlia di Demetra e di Zeus. […]. All’inizio del mito di Demetra-Persefone, Persefone era una fanciulla spensierata, che raccoglieva fiori e giocava con le amiche. Poi all’improvviso Ade emerse sul suo carro da una fenditura della terra, ghermì la fanciulla piangente e la portò nel mondo sotterraneo per farne la propria riluttante sposa. Demetra non accettò la situazione, abbandonò l’Olimpo e si diede da fare perché Persefone tornasse, […]. Zeus mandò Ermes, il messaggero degli dei, a riprendere Persefone. Ermes giunse nel mondo sotterraneo e trovò una Persefone sconsolata, la cui disperazione si trasformò però in gioia quando scoprì che eli era lì

40

J. S. Bolen, Le dee dentro la donna. Una nuova psicologia femminile, Astrolabio-Ubaldini, cit., p. 33.

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per lei e che Ade l’avrebbe lasciata libera. Tuttavia, prima di lasciarla andare, Ade le diede alcuni semi di melograno che lei mangiò. Quindi salì sul carro con Ermes che la riportò velocemente da Demetra. Madre e figlia, una volta ritrovate si abbracciarono con gioia, e Demetra si informò ansiosamente se Persefone non avesse per caso mangiato qualcosa, nel mondo degli Inferi. Lei rispose di aver mangiato alcuni semi di melograno perché Ade l’aveva costretta a farlo “con la violenza contro il suo volere” (cosa non vera). Demetra accettò la storia, e il ciclo che ne seguì. Se Persefone non avesse mangiato niente, le sarebbe stata restituita senza condizioni. Invece, avendo mangiato i semi di melograno, ora avrebbe trascorso un terzo dell’anno agli Inferi con Ade, e due terzi nel mondo dei vivi, con lei”.41

Persefone mente alla madre perché non riesce a prendersi le proprie responsabilità; preferisce passare come vittima agli occhi di Demetra poiché, i tentativi che ha fatto quest’ultima pur di riaverla con sé si caricheranno di un’importanza maggiore e, in questo modo, la compiacerà ancora di più.

Persefone, quindi, aveva in sé due aspetti: era Kore e regina degli Inferi.

Entrambe gli aspetti (la Persefone-Kore e la Persefone-Regina degli Inferi) hanno la caratteristica della giovinezza ma, tuttavia, Kore rappresenta la parte più fanciullesca del giovane e vitale archetipo “Persefone”; Kore, infatti, rappresenta la giovane fanciulla ancora non pienamente consapevole del proprio senso identitario, delle proprie forze. Il suo modo di agire sembra quasi che non sia “autentico”, proprio come un’adolescente, indecisa sul suo futuro, in attesa di qualcosa o qualcuno che trasformi la sua vita.

“La maggior parte delle donne giovani, prima di sposarsi o di decidere della propria vita, passa per la fase Kore. Altre rimangono fanciulle per tutta la vita: non si impegnano né in un rapporto né in un lavoro, né in una meta culturale, anche se, di fatto, vivono un rapporto, hanno un lavoro, frequentano l’università, o addirittura una scuola di specializzazione”.42

Il rapporto che hanno con la madre (rapporto in cui la figlia è portata a compiacere la madre mostrandosi sempre obbediente, attenta e prudente di fronte ad esperienze che presentano anche una minima possibilità di rischio) è stretto al punto che per la figlia è impossibile sviluppare un senso di sé indipendente.

41

J. S. Bolen, Le dee dentro la donna. Una nuova psicologia femminile, cit., pp. 189-190.

42

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“Benché la madre sembri forte e indipendente, questo aspetto spesso è ingannatore. Può infatti accadere che alimenti la dipendenza della figlia per tenersela vicina, oppure che abbia bisogno di lei come un’estensione di sé, attraverso cui vive in maniera sostitutiva”.43

Molte giovani Persefone-Kore non hanno rapporti stretti con il padre anche a causa di questa forte possessività che la madre nutre nei confronti della figlia.

Passività, dipendenza ed elevata condiscendenza sono tratti dominanti della personalità della Persefone-Kore; tratti che la porteranno, quindi, ad avere al suo fianco un uomo dominatore, al quale si sottomette mostrandosi estremamente ricettiva, passiva piuttosto che attiva.

Non sarà, quindi, lei a decidere del matrimonio, non è lei a scegliere il suo compagno, ma sono loro che scelgono lei; proprio come Persefone che, dopo essere stata rapita da Ade, accetta la proposta semplicemente perché è stata chiesta in sposa. Non è una decisione autentica quella di volersi sposare da parte delle donne Persefone-Kore, e alla quale si sottomette.

E’ necessario, quindi, che si sviluppi la “Regina degli Inferi” che è in lei per poter scoprire la sua reale personalità. Se questo accade, la donna Persefone può diventare una guida non solo per se stessa, liberandosi da una relazione “malata”, ma anche per gli altri. Molte di queste donne, infatti, diventano psicologhe, terapeute o educatrici:

“[…] può anche diventare una terapeuta-guida, capace di mettere in comunicazione gli altri con il loro mondo profondo, guidandoli alla ricerca del significato simbolico e alla comprensione di quanto scoprono in esso”.44

Il cambiamento che avviene in lei può, parallelamente, farle prendere coscienza della sua situazione sentimentale. Smetterà di vedere l’altro come una guida e, piuttosto, inizierà a vederlo come una persona con pregi ma anche con dei difetti. Solo ad allora riuscirà a trovare un compagno che la ama, che la rispetta e verso il quale potrà provare sentimenti autentici e svincolati da quelli della sottomissione.

Anche se le donne Persefone non incarnano qualità che spingono alla realizzazione possono, tuttavia, andare oltre e scoprire in sé qualità tipiche delle dee vergini; posso quindi “attivare” l’Atena che è in loro.

43

J. S. Bolen, Le dee dentro la donna. Una nuova psicologia femminile, cit., p. 192.

(29)

Come è già stato detto poco sopra, infatti, Atena appartiene alla categoria delle dee vergini le quali rappresentano la qualità femminile dell’indipendenza e dell’autosufficienza. Bolen le descrive con queste parole:

“A differenza delle altre divinità dell’Olimpo, non erano inclini a innamorarsi. Gli attaccamenti non le distoglievano da quanto consideravano importante. Non si facevano vittimizzare e non soffrivano. Come archetipi, esprimono il bisogno di indipendenza della donna la sua capacità di concentrarsi consapevolmente su quanto è significativo per lei come persona autonoma. […]. Tutte e tre sono archetipi femminili che perseguono attivamente le loro mete e che ampliano la nostra idea di quelli che sono da considerarsi attributi femminili, includendovi competenza e autosufficienza”.45

Atena (nota ai romani come Minerva) era la dea greca della saggezza e dei mestieri; imponente, splendida dea guerriera, era la protettrice di guerrieri da lei prescelti e della città di Atene. Veniva rappresentata con indosso la corazza, l’elmo e con in mano uno scudo e una lancia. Veniva spesso rappresentata in forma di civetta, un volatile associato alla saggezza e agli occhi grandi, due tratti caratteristici della dea. Per quanto riguarda i tratti specifici della sua personalità, in lei ritroviamo una grande capacità di pianificazione ed esecuzione; pensiero razionale, saggezza, strategia e praticità la contraddistinguono, confluendo a far sì che ella rappresenti il dominio della volontà e dell’intelletto sull’istinto e sulla natura.

Il mito narra che ella nacque uscendo dalla testa di Zeus con le sembianze di donna già adulta, indossando una corazza d’oro splendente, tenendo in mano una lancia e emettendo un potente grido di guerra.

Viene considerata la figlia di un solo genitore, Zeus. Sua madre, Metis, infatti, non la conobbe poiché Zeus, quando ella rimase incinta di Atena, con uno stratagemma la fece diventare piccola e la inghiottì:

“In alcune versioni la sua nascita assomiglia a una sorta di parto cesareo: poiché Zeus durante le “doglie” soffriva di un’atroce emicrania, fu aiutato da Efesto, Dio del Fuoco, che lo colpì alla testa con un’ascia a doppio taglio, aprendo la via per la fuoriuscita di Atena”.46

45

J. S. Bolen, Le dee dentro la donna. Una nuova psicologia femminile, cit., p. 28.

(30)

Atena, quindi, venne sempre associata al padre Zeus, e, da sempre, considerata il suo braccio destro; infatti, proprio grazie a queste sue caratteristiche, ella è il simbolo della donna che si sente attratta dagli uomini potenti che detengono autorità, responsabilità e potere:

“Atena predispone la donna a stabilire rapporti con uomini forti che le fanno da guida e condividono con lei interessi e modi simili di guardare le cose. Si aspetta lealtà reciproca. Come dea, una volta che ha dato a un uomo la sua fiducia, ne è la più fervida sostenitrice, il “braccio destro”, quella di cui lui si fida perché usa bene la sua autorità e salvaguarda le sue prerogative”.47

Se cresce come figlia prediletta di un padre di successo, ciò l’aiuterà a sviluppare le sue tendenze naturali di sicurezza, intelligenza e ambizione. Da adulta, quindi, mettere alla prova le sue capacità, esercitare autorità e potere, sono prove che non la metteranno certo in difficoltà.

Come archetipo è espressione delle donne molto razionali, mentali, che seguono la testa e non il cuore; è un archetipo femminile che dà prova di agire bene e con estrema lucidità anche in situazioni emotive conflittuali.

L’archetipo Atena può manifestarsi in donne laureate che, dopo gli studi, lavorano sodo per eccellere nel mondo lavorativo, per “diventare qualcuno”, per portare a termine tutti i loro progetti personali. La donna Atena è molto competitiva, soprattutto nei confronti delle altre donne, come ci ricorda la mitologia narrando dell’episodio che vede protagoniste la dea Atena e la mortale Aracne, la quale venne trasformata in ragno.48

Le donne che non hanno innata, dentro di sé, la natura di Atena possono coltivare questo archetipo attraverso lo studio e il lavoro, apprendendo nozioni nuove, pensando con chiarezza e preparandosi agli esami e ai test necessari per conseguire il titolo di studio. Inoltre, per molte donne che hanno in sé l’archetipo predominante delle dee vulnerabili, riuscire ad attivare l’archetipo Atena può rappresentare un modo per liberarsi ed uscire da relazioni d’amore frustranti, ribellarsi al suo

47

J. S. Bolen, Le dee dentro la donna. Una nuova psicologia femminile, cit., p. 86.

48 “Atena, come dea dei mestieri, fu sfidata a una gara di abilità da una tessitrice presuntuosa, di nome

Aracne. Entrambe lavorarono con sveltezza e maestria. Quando i tessuti furono ultimati, Atena ammirò il lavoro perfetto della rivale, ma s’infuriò perché aveva osato rappresentare i tradimenti amorosi di Zeus. […]. Il tema rappresentato sull’arazzo fu la rovina della fanciulla. Fu tale il furore di Atena per quando Aracne aveva raffigurato, che fece a pezzi il suo lavoro e la costrinse a impiccarsi. Poi, presa da pietà, la lasciò viva, trasformandola però in un ragno, condannato a rimanere appeso a un filo e a tessere per sempre.”, in J. S. Bolen, op. cit., p. 82.

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