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Unionismo e scioperi nel commento dell'« Economist »

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Il decennio 1850-60 fu cruciale per lo sviluppo del sistema di rela-zioni industriali in Inghilterra. Il nuovo trend economico, apertosi con la svolta degli anni cinquanta, il mutamento della condizione operaia nella grande industria manifatturiera, determinato dalla fissazione della giornata lavorativa di dieci ore, la fondazione delle unioni sindacali « di nuovo tipo », furono tutti fenomeni che contribuirono a trasformare l'as-setto dei rapporti sociali della nazione che si autodefiniva « l'officina del mondo ». Ma di tutte le variabili che in differente misura concorsero alla conformazione della fisionomia caratteristica della prima società in-dustriale, è rimasta più in ombra la componente industrialistico-impren-ditoriale, il cui atteggiamento di fronte ai problemi del lavoro e del con-flitto di classe è stato spesso trascurato.

L'« Economist », come osservatorio privilegiato da cui valutare le attitudini e l'ideologia del mondo degli affari britannico nell'età vitto-riana, è significativo per almeno due ordini di motivi. Il primo concerne la sua natura di periodico specificamente economico, di organo di stam-pa che, per la prima volta, doveva applicare le leggi astratte dell'econo-mia politica ai fatti della realtà economica quotidiana, che doveva tra-durre nel commento di avvenimenti particolari dei princìpi generali al fine di verificarne la verità e la validità \ Il secondo, più importante, è che 1' « Economist » fu la manifestazione diretta delle forze imprendito-riali più vivaci, che mediante un'azione di propaganda capillare riusci-rono, verso la metà del secolo, ad affermarsi come nuovo ceto sociale

1. C f r . H . SCOTT GORDON, The London « Economist » and the High Tide of Laissez-Faire, « Journal of Politicai Economy », LXIII, December 1955, p. 477.

dirigente di un paese che aveva ormai condotto a compimento il processo di industrializzazione.

L'« Economist » fu dunque sia il risultato teorico più consapevole sia il progetto politico più organico prodotto dall'opera della nuova clas-se dirigente. Non che queste prerogative del clas-settimanale debbano venire intese semplicisticamente come un effetto meccanico derivante dalla di-pendenza agli interessi manifatturieri; che non sia stato così, lo provano numerosi articoli che dimostrano un grado di autonomia del giornale dal punto di vista imprenditoriale contingente. Si trattò piuttosto del compito, che l'« Economist » si era da sé medesimo assegnato, di elabo-rare una prospettiva culturale per i gruppi dirigenti della società 2 che li rendesse capaci di operare nella direzione più consentanea alle esigenze dello sviluppo economico.

Questo era appunto quanto si prefìggeva James Wilson, pubblicando il primo numero dell'« Economist » il 2 settembre 1843. Wilson, figlio di un piccolo imprenditore scozzese e fratello maggiore di George Wil-son, il presidente dell'Anti-Corn Law League, aveva alle spalle come retroterra ideologico lo spirito d'intrapresa di Manchester; il programma che voleva realizzare con la pubblicazione del settimanale era di giungere a permeare l'intera società con i princìpi del libero scambio e del

laissez-faire3. Il nuovo periodico non fu però né un'emanazione dell'Anti-Corn Law League, né un'iniziativa presa al solo scopo di propagandare le tesi della Manchester School 4; l'idea che fu all'origine della sua fondazione esorbitava di gran lunga il limitato obiettivo di rafforzare momentanea-mente un'opposizione, per prefigurare invece la funzione di governo a cui avrebbe dovuto assolvere la nuova classe politica liberale. Era all'in-terno di tale programma politico proiettato nel futuro che si iscriveva l'ipotesi retrostante all'impresa editoriale dell'« Economist ». L'uso di strumenti conoscitivi empirici della situazione economica, l'ampio ricorso a metodi di analisi statistica, rigorosi per l'epoca, che divennero fre-quenti sulle colonne dell'« Economist »5, non servirono solo a munire i free-traders di più solidi argomenti per controbattere i protezionisti,

2. L'« Economist » si rivolse sempre a un pubblico di élite e non superò, nel corso del diciannovesimo secolo, una tiratura di 3.000 copie settimanali. Cfr. « The Economist » 1843-1943. A Centenary Volume, Oxford, 1943, p. 27.

3. Cfr. A. BRIGGS, Victorian Cities, Harmondsworth, 1971\ p. 110; H . SCOTT GORDON, art. c i t . , p . 4 8 5 .

4. Cfr. N. MCCORD, The Anti-Corn Law League 1838-1846, London, 1 9 6 82, pp. 1 8 4 - 1 8 6 ; A . BRIGGS, The Age of Improvement 1780-1867, London, 1 9 5 9 , p. 3 1 8 .

quanto a preparare le condizioni perché si formasse un nuovo ceto di governo e un nuovo personale amministrativo di Stato, in grado di pe-netrare le leggi del sistema economico e di non contraddirne con alcun provvedimento artificioso la dinamica. Per sostanziare tale ideologia li-beristica, Wilson chiamò a collaborare con lui uomini come William Nassau Senior, Herbert Spencer, Thomas Hodgskin, che furono così i portavoce dell'etica produttivistica delle middle classes 6.

Il liberismo non era comunque destinato a rimanere a lungo una componente minoritaria del sistema politico inglese. L'abolizione dei dazi granari nel 1846 segnò il trionfo dell'Anti-Corn Law League e del partito di Cobden e Bright e l'inizio di quel che Marx avrebbe chiamato « il Millennio liberoscambista »7, mentre nel 1851 la Great Exhibition di Crystal Palace e la visita della regina Vittoria nel Lancashire misero definitivamente in luce che i gruppi capitalistici e industriali erano di-venuti forza determinante nella gestione dello Stato 8. Con la sua ascesa al vertice dello Stato, la classe politica liberale vedeva necessariamente mutare anche il proprio rapporto con le forze sociali che erano escluse dal potere ed esercitavano verso di esso una pressione esterna. Veniva a mutare, in particolare, il rapporto con la classe operaia, di cui non si poteva più cercare l'appoggio sul terreno politico, rigettandone al con-tempo le rivendicazioni economiche. Il declino del movimento cartista aveva avuto la conseguenza di dare impulso all'espansione e al consoli-damento dell'unionismo operaio, che aveva ormai acquistato, alla metà del secolo, un'autonoma rilevanza con cui la classe dirigente doveva fare i conti. Il suo progetto di governo venne non poco turbato dai problemi inerenti alla legittimità della mediazione sindacale nella contrattazione con i lavoratori e alla compatibilità delle Trade Unions con l'ordinamen-to economico e civile liberale. Non dovette essere facile per la classe dirigente passare, nel giro di pochi anni, da un rifiuto incondizionato dell'organizzazione operaia a un riconoscimento cauto ma effettivo della sua funzione positiva. Fatto sta che dal travaglio cui andarono sottoposte le relazioni industriali negli anni cinquanta uscì sconfitto il dottrinarismo liberistico più schematico, ed emerse quel tipico pragmatismo che avreb-be guidato di lì alla fine dell'Ottocento le scelte della classe politica li-berale in materia di questioni del lavoro. Questo processo storico, che può essere a pieno titolo descritto come una fase progressiva di «

libera-6 . C f r . H . SCOTT GORDON, art. c i t . , passim.

7 . Cfr. K . MARX, Il Capitale, Roma, 1956, voi. I , t. 3, p. 1 0 0 .

8. Cfr. R. BOYSON, The Ashworth Cottoti Enterprise. The Rise and Fall of a Family Firm 1818-1880, Oxford, 1970, p. 228.

lizzazione » 9, ebbe una rappresentazione fedele nei commenti e nelle ri-flessioni che l'« Economist » dedicò ai fenomeni dell'unionismo operaio e degli scioperi.

La prima grande vertenza industriale di fronte a cui l'« Economist » dovette prendere posizione fu lo scontro che oppose, ai primi del 1852, gli operai e gli imprenditori del settore meccanico. La lotta dei meccanici ebbe per l'opinione pubblica dell'epoca valore sintomatico, perché su-scitò l'avvio del dibattito intorno all'azione e ai fini delle nuove Trade Unions, che facevano allora la loro comparsa sulla scena sociale del mon-do vittoriano. La meccanica infatti fu il primo ramo industriale a subire un processo di sindacalizzazione non limitato localmente, reggentesi su una struttura organizzativa nazionale, stabile e centralizzata, e con obiet-tivi di lungo periodo.

Nel gennaio 1851, i lavoratori meccanici erano giunti alla costituzio-ne dell'Amalgamated Society of Engicostituzio-neers (ASE), un'uniocostituzio-ne sindacale di « nuovo tipo » 10, che derivava dalla fusione di varie associazioni operaie precedenti di carattere localistico e che raggruppavano solo lavoratori dei mestieri più specializzati. Scopo dell'ASE era di organizzare su scala na-zionale tutti gli operai professionali, di formazione artigiana e specia-lizzata, per salvaguardare la loro condizione lavorativa, deterioratasi in seguito alla crisi economica del 1847 e alle trasformazioni tecnologi-che 11. L'organizzazione dei lavoratori meccanici, con i suoi quasi 11.000 iscritti, con un fondo finanziario di circa 20.000 sterline e con una strut-tura interna solida e permanente, iniziò fin dai mesi successivi alla fon-dazione a contrastare le scelte degli imprenditori. Nell'aprile 1851, i lavoratori aderenti all'ASE occupati presso la fabbrica di Hibbert e Platt (probabilmente il maggior stabilimento meccanico d'Europa) di Oldham nel Lancashire richiesero l'abolizione del cottimo, del subappalto e dello straordinario sistematico e l'allontanamento dei lavoratori che non ave-vano prestato l'abituale periodo di apprendistato da quei macchinari che sopprimevano in pratica la necessità tecnica dell'impiego di manodopera specializzata. La richiesta fu accolta piuttosto rapidamente dai

proprie-9. Cfr. J. FOSTER, Class Struggle and the Industriai Revolution. Early In-dustriai Capitalism in Three English Towns, London, 1974, cap. 7.

10. Sul « new model » unionism, cfr. soprattutto W . H . FRASER, Trade Unions and Society. The Struggle for Acceptance 1850-1880, London, 1974.

1 1 . Cfr. J. B. JEFFERYS, The Story of the Engineers 1800-1945, London, 1 9 4 6 , pp. 5 1 segg.; K . BURGESS, Technological Change and the 1852 Lock-out in the Éritish Engineering Industry, « International Review of Social History », XIV, 1 9 6 9 , p. 2 3 6 .

tari dell'officina, che temevano uno sciopero 12. Questo subitaneo suc-cesso accrebbe il senso di sicurezza dei dirigenti dell'ASE, che credettero arrivato il momento opportuno per estendere il movimento rivendicativo all'intera industria meccanica. L'esecutivo dell'ASE stabilì che, a partire dal 1° gennaio 1852, tutti i lavoratori meccanici iscritti all'ASE avreb-bero dovuto sospendere cottimi e straordinari. Questo sembrava ai di-rigenti unionisti il mezzo più sicuro per difendere e incrementare i li-velli occupazionali della forza-lavoro specializzata, mentre ritennero in-vece preferibile evitare di chiedere l'allontanamento dei manovali e dei non specializzati dai macchinari, perché ciò sarebbe parso una sfida trop-po aperta alle prerogative tradizionali degli imprenditori13.

L'« Economist » dava notizia della deliberazione nel proprio primo numero del 1852 con accenti fortemente allarmati, sottolineando l'ec-cezionalità del confronto: « Society is again threatened with one of those collisions between a class of workmen and their employers which had been in this century of frequent occurrence. Perhaps the present conflict, on account of the great intelligence of the superior class of workmen concerned in it and the vast interests at stake — nothing short of the manufacture of machinery throughout the kingdom — is the most im-portant that ever occurred » l4. L'articolo proseguiva ricordando che un conflitto di lavoro nell'industria meccanica avrebbe certamente recato danno alla supremazia che la Gran Bretagna ancora deteneva nel settore e che era già seriamente messa in pericolo dalla concorrenza degli Stati Uniti, in cui, si sosteneva, l'unionismo operaio e gli scioperi erano ignoti. L'espansione economica inglese, che procedeva con un ritmo intenso dopo l'affermazione dei princìpi liberoscambisti, rischiava di subire un brusco rallentamento, con una crisi che avrebbe fatto ricadere i suoi costi sociali su molte migliaia di vittime innocenti.

Dopo aver ricostruito le varie fasi dell'azione rivendicativa dei mec-canici fin dalla sua genesi nel Lancashire, l'« Economist », convinto di

12. Cfr. J. B . JEFFERYS, op. cit., pp. 35-36; K. BURGESS, Trade Union Po-licy and the 1852 Lock-out in the British Engineering Industry, « International Review of Social History », XVII, 1972, pp. 645-660. Per un resoconto completo del lock-out dei meccanici, si veda T . HUGHES, Account of the Lock-out of Engineers in 1851-52, in: Trades' Societies and Strikes. Report of the Committee on Trades' Societies appointed hy the National Association for the Promotion of Social Scien-ce, London, 1860, pp. 169-205.

13. Cfr. K. BURGESS, The Origins of British Industriai Relations. The Nine-teenth Century Experience, London, 1975, p. 23.

14. The Engineer's Dispute, « The Economist », 3 gennaio 1852, p. 3. D'ora in poi si intenderà che gli articoli indicati solo con il titolo, la data di pubblicazio-ne e il numero delle pagipubblicazio-ne sono tratti dall'« Economist ».

avere inequivocabilmente dimostrato le responsabilità sindacali, asseriva: « It is plain (...) that the workmen have been the aggressors. They have begun the conflict » 15. Questo fatto era tanto più grave perché l'attacco degli operai unionisti si rivolgeva contro i loro stessi compagni di lavoro non specializzati, che avrebbero dovuto essere allontanati dalle fabbriche. Coloro che, per la loro stessa indigenza, non avevano potuto sottostare al periodo di apprendistato, non avrebbero più dovuto essere addetti ai macchinari, cosicché il lavoro sarebbe toccato ai soli operai sindacalizzati. Commentava amaramente l'« Economist »: « It is another proof (...) that the working classes treat each other far more tyrannically and more cruelly than ever they are treated by their masters » 16. Anche la richie-sta di soppressione degli straordinari finiva in realtà col rivelarsi più una restrizione posta ai lavoratori maggiormente industriosi e bisognosi che ai padroni. Gli unionisti cercavano di attaccare in modo folle e dissen-nato le leggi che regolavano « naturalmente » la società, poiché volevano « to regulate labour by an artificial and poor device of their own, in-stead of trusting it to the healthful law of unrestricted competition » 17. Secondo il settimanale, gli operai tentavano insomma di imporre una re-golamentazione delle ore di lavoro con un decreto del loro consiglio ese-cutivo invece che con una legge del Parlamento.

Altrettanto si diceva della pretesa di abolire il cottimo. « The So-ciety [l'ASE] is sensible that more is done by piece-work than by day work; and believing that if less were done more would remain to be done, they try to put a stop to piece-work that there may be more work to do » 18. Ma c'era di più: i meccanici avevano osato affermare 19 che le loro richieste avrebbero recato dei vantaggi all'organizzazione produt-tiva delle imprese. « They pretend (...) to know the interest of the ma-sters better than they know it themselves (...)» 20. Allorché l'organizza-zione operaia giungeva a sfidare l'imprenditore nell'ambito che più gli era pertinente — la fabbrica e il mondo della produzione — e ne mi-nacciava dunque l'autorità insieme con la funzione, si sollevavano più acutamente lo sdegno e la resistenza ideologica delle middle classes. Ed era logico che fosse così, dal momento che ai princìpi della libertà indi-viduale, cui veniva imputato il meraviglioso sviluppo della società,

pa-15. Ivi, p. 4. 16. Ivi. 17. Ivi. 18. Ivi.

19. Cfr. p. es. l'articolo Competition apparso sull'organo di stampa che pub-blicizzava le tesi dei meccanici, « The Operative», 18 gennaio 1851, pp. 40-41.

reva dovesse contrapporsi il dispotismo di un associazionismo livellatore che avrebbe imbrigliato le forze vitali del progresso economico.

La colpa dell'unionismo operaio stava, agli occhi dell'« Economist », nella sua natura di organismo collettivo, che uguagliava in modo dispo-tico gli individui e li subordinava totalmente a sé. L'errore degli unio-nisti nasceva « from a miscomprehension of what constitutes the forces of society » 21. La legge della « mano invisibile », che demandava ai mec-canismi automatici di riaggiustamento del mercato il compito di com-porre armoniosamente l'equilibrio sociale, non poteva trovare una for-mula più chiara ed esplicita: « Society grows and is powerful, not by (...) designed and willed combinations, but by an istinctive combination » Al contrario, spesso si era erroneamente indotti a credere che la società traesse la sua forza dall'unione consapevole degli individui, e si finiva perciò con l'interferire negativamente « with that law of individuai in-terest, which is the real basis of growth and strength of society (...)» 23.

L'« Economist » scorgeva nell'errato comportamento degli operai l'ef-fetto dell'esempio pernicioso di Lord Ashley e degli altri legislatori che con lui avevano voluto regolamentare le ore di lavoro con il Bill sulle fabbriche del 1847. L'aristocrazia e i ceti privilegiati improduttivi erano chiamati in causa come responsabili per aver falsamente insegnato che era possibile « to increase wealth and to distribute it more advanta-geously than it is distributed by the laws of exchange and of supply and demand »2 4. Ma la foga e l'accento con cui l'« Economist » difendeva le leggi del laissez-faire 25 non risparmiava una critica neppure alla con-dotta degli industriali meccanici, che a loro volta si stavano coalizzando per resistere alla pressione rivendicativa dei loro occupati. Così facendo, gli imprenditori in luogo « of following out and enforcing the sacred principle of individuai rights » 26, adottavano la medesima strategia de-gli operai. Non si rendevano conto, rilevava il settimanale, che lo svi-luppo industriale, di cui erano stati i protagonisti, era il frutto della combinazione spontanea dell'ingegno umano, così come le più

impor-21. Ivi, p. 5. 22. Ivi. 23. Ivi. 24. Ivi.

2 5 . Ha scritto H. SCOTT GORDON: « In the pages of " The Economist " during the first dozen years of its life, one will find a laissez-faire ideology that was fully developed as a theory and consistently applied as a vademecum to ali issues of contemporary policy ». The Ideology of Laissez-Faire, in: A . W . COATS (ed.), The Classical Economists and Economie Policy, London, 1971, p. 201.

tanti invenzioni, che avevano creato la tecnologia più complessa, erano sempre il prodotto di un cervello individuale.

Il tema della salvaguardia strenua dei princìpi liberistici, insieme a quello della libertà d'azione individuale sia dell'imprenditore che del la-voratore, era ricorrente nelle prime cronache sindacali dell'« Economist ». In esse non si perdeva mai l'occasione per ribadire meglio i caratteri di questi concetti essenziali alla filosofia del laissez-faire, la cui diffusione veniva considerata indispensabile a quel processo di educazione dei ceti sociali, che solo poteva garantire le sorti dell'evoluzione della civiltà in-dustriale. Anche nell'articolo in cui si dava notizia della decisione pa-dronale di chiudere, a partire dal 10 gennaio, tutte le officine meccaniche di Londra e del Lancashire, il ricorso a essi era incessante. La delibera-zione degli imprenditori appariva dettata dall'intendelibera-zione di esigere quel-la libertà d'azione che essi stessi erano disposti a concedere ai loro di-pendenti. Era loro scopo ottenere che la contrattazione con gli operai restasse individuale, mentre i lavoratori pretendevano di trattare collet-tivamente con i datori di lavoro, imponendo loro l'accettazione di deter-minate condizioni generali. La pretesa aveva finito col costringere gli imprenditori a decretare loro malgrado la chiusura della fabbriche: « Without approving of their determination, — osservava l'« Econo-mist », commentando l'avvenimento — we see much to provoke it, and make them believe that by no other means could they bring the men to reason and keep them reasonable » 27. Il giudizio negativo precedente-mente espresso sulla condotta degli imprenditori risultava temperato in considerazione dello stato di necessità causato dall'ostinazione degli ope-rai. Certo gli industriali meccanici, prima di essere forzati ad adottare una risoluzione tanto grave, che avrebbe portato danni rilevanti all'in-tero sistema produttivo, dovevano avere constatato che non vi erano altri mezzi per por fine alla vertenza, poiché sapevano che « The su-spension of the workmen's wages is the susu-spension of the employers' profits (...)» 28. Il calcolo della perdita economica che il protrarsi della vertenza avrebbe inevitabilmente arrecato, scriveva l'« Economist », avrebbe dovuto indurre tanto i padroni che gli operai a un accordo, sen-za ulteriori arroccamenti su forme rovinose di associazionismo. Benin-teso, con ciò il periodico non voleva invocare nuove Combination Laws antiunionistiche, del tutto nocive, giacché lo Stato doveva mantenersi ri-gorosamente estraneo ai conflitti di lavoro 29.

27. The Engineers' Contest, 10 gennaio 1852, p. 32. 28. Ivi.

Con il procedere della lotta dei meccanici, l'attuazione della serrata e il susseguirsi delle dichiarazioni contrapposte degli operai e degli im-prenditori, l'« Economist » assunse progressivamente toni sempre più ostili ai lavoratori, sul cui atteggiamento faceva ricadere le responsabi-lità degli ingenti costi economici dello scontro in atto. Fino a che punto, si domandava il settimanale, l'economia inglese avrebbe risentito delle conseguenze del comportamento operaio e fino a quando la cieca