CAPITOLO TERZO
3.2 L’USO DELLE SIMULAZIONI NELLE SCIENZE SOCIALI: ALCUNI ESEMPI
Gibbons (2000), nel suo libro sulle organizzazioni, sottolinea che:
Per duecento anni, il modello economico base dell’impresa era una scatola nera: il lavoro e gli input fisici entravano da una parte, l’output usciva dall’altra, al costo minimo e con il massimo profitto. La maggior parte degli economisti prestava poca attenzione alla struttura interna e al funzionamento delle imprese e delle altre organizzazioni. Negli anni '80, invece, si è iniziato ad aprire la scatola nera: […].
Simon (1985) sostiene che sarebbe auspicabile avere a disposizione studi empirici del processo di formazione delle decisioni in seno alle organizzazioni, oltre alle prove derivanti dalla ricerca psicologica.
Merita considerazione, a questo proposito, l’interessante applicazione della simulazione in un ambito sociale che si riscontra nell’opera di Dal Forno e Merlone (2002).
Il modello illustrato studia l’interazione tra soggetti all’interno di una organizzazione al fine di comprendere gli equilibri che nascono in una struttura complessa. Lo scopo perseguito è quello di capire, analizzando il comportamento dei singoli, come da questi possa nascere un determinato orientamento che riguarda il sistema nel suo complesso.
L’emergere di una mentalità aziendale, a cui gli economisti si riferiscono in termini di “Corporate Culture”, è un fenomeno difficile da interpretare, in quanto conseguenza delle azioni e dell’impegno profusi da soggetti differenti. Il problema non è stato affrontato da un punto di vista puramente matematico, attraverso sistemi di equazioni in cui i parametri sarebbero troppo numerosi, ma simulando i comportamenti degli individui all’interno di una azienda virtuale.
Il modello elaborato consiste semplicemente in un insieme di agenti. Questi, muovendosi all’interno del mondo artificiale, si incontrano dando vita a delle aggregazioni (team). In ogni gruppo, ciascun individuo osserva gli sforzi e l’impegno profusi dai “colleghi” e adatta il suo comportamento futuro in base al risultato della cooperazione tra le diverse entità coinvolte.
Gli agenti si comportano in modo differente: alcuni operano in modo costante, senza “imparare” dalla loro passata esperienza (sono agenti, questi, che esercitano sempre uno sforzo fisso, elevato o scarso); altri rispondono in modo ottimale al comportamento dei loro colleghi (da un punto di vista tecnico tali agenti operano seguendo la “funzione di risposta ottima” in relazione agli sforzi sostenuti dai loro partner); altri ancora esercitano uno sforzo minimo, incoraggiando i loro partner all’inattività.
Il modello è inoltre strutturato in modo da permettere all’utente di osservarne le dinamiche in situazioni di incertezza. Gli individui all’interno dell’organizzazione possono non avere la possibilità di percepire chiaramente gli sforzi esercitati dai loro simili, né di determinare con esattezza gli output derivanti dalla loro cooperazione. Questa incertezza può portare l’intera organizzazione al collasso, in cui tutti gli agenti effettuano uno sforzo minimo.
Cambiando la proporzione degli agenti, all’interno della simulazione, emergono fenomeni molto simili a quanto si osserva nella realtà.
E’ da rilevare il fatto che l’applicazione della simulazione, per lo studio di un fenomeno complesso come la “Corporate Culture”, consente di osservare risultati in precedenza sostenuti solo teoricamente. Se, ad esempio, in una popolazione quasi interamente composta da soggetti che “lavorano” imitando gli sforzi fatti dai loro colleghi, si inseriscono agenti che esercitano un impegno alto e costante, si riscontra un aumento della produttività dell’intera organizzazione.
Il comportamento dei gruppi è stato oggetto di indagine da parte di Wander e altri (2002).
Partendo da considerazioni relative alla difficoltà di affrontare un’analisi causale sui macro-fenomeni dell’interazione tra i singoli, data l’inidoneità delle osservazioni empiriche a questo fine, questi autori hanno sviluppato un modello che cerca di riprodurre le situazioni che derivano dall’incontro tra due distinte compagini.
All’interno di ogni compagine gli agenti seguono regole di comportamento differenti: alcuni sono attivi ed analizzano accuratamente il “mondo” in cui sono immersi, altri sondano l’ambiente circostante in modo meno profondo, altri ancora sono interessati a quanto accade ma assumono il ruolo di spettatori passivi. Queste regole sono altresì soggette a variazioni derivanti dallo stato d’animo in cui può trovarsi il singolo individuo.
Le azioni intraprese sono quindi conseguenza da un lato della percezione8, da parte dell’agente, di ciò che gli sta attorno e,
8 Da notare come la capacità di percezione del singolo non sia illimitata. Al contrario, questi è consapevole solo di ciò che lo circonda da vicino.
dall’altro, del suo “umore”. Si è inoltre contribuito ad orientare le scelte attraverso l’introduzione, per ogni individuo, di un certo numero di “amici” con i quali risulti più facile socializzare.
Nel momento in cui un soggetto percepisce la presenza di coetanei nelle vicinanze, può, alternativamente, legare con gli appartenenti al suo medesimo gruppo, rapportarsi a coloro i quali invece sono dell’opposta fazione, o ingaggiare con questi una lotta.
Ogni agente è “dotato” di un istinto aggressivo che cresce o diminuisce a seconda della percezione di individui facenti parte o meno dello stesso gruppo. Quando il livello di aggressività supera una certa soglia, tra i contendenti nasce uno scontro e successivamente il loro grado di animosità viene azzerato.
Il comportamento adottato dagli agenti è riassunto efficacemente nello schema seguente:
Figura 3: lo schema che riassume le regole di comportamento degli agenti, Wander e altri (2001:7)
Gli esperimenti condotti variando la numerosità dei gruppi, la loro composizione, e la percentuale, all’interno di ciascuna compagine, della tipologia più “attiva” di agenti, hanno portato a risultati che presentano molte analogie con situazioni che accadono realmente: in aggregati molto ampi, gli individui tendono
a raggrupparsi maggiormente che in aggregati più modesti; ancora, i raggruppamenti si verificano più frequentemente, e con maggiore rapidità, in gruppi di composizione asimmetrica, piuttosto che in quelli a composizione simmetrica.
Senza approfondire le conclusioni di un simile modello, è quantomeno rilevante notare come emergano dalla simulazione fenomeni reali e complessi sebbene le regole comportamentali che guidano le azioni degli individui siano semplici.
L’elenco delle applicazioni della simulazione quale strumento di indagine nelle scienze sociali potrebbe continuare: Read (1999) indica come questa possa essere utilizzata con successo in antropologia, Wolker (2002) se ne serve per l’analisi del grado di cooperazione o, all’opposto, di chiusura sociale di gruppi che occasionalmente incontrano degli estranei …
Il motivo che ci ha spinto a dedicare una parte del nostro lavoro all’analisi, peraltro breve, di alcune applicazioni della simulazione in ambito sociale è da ricondurre alla necessità di sottolineare l’idoneità di un tale strumento di ricerca a ritrarre i fenomeni complessi che contraddistinguono le scienze dell’uomo in generale.
Occorre adesso chiarire in modo più approfondito il perché esso risulti particolarmente adatto all’analisi di manifestazioni economiche.